Condominio: uso o abuso della cosa comune, questo è il dilemma!
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDFCassazione civile, sez. II, Sentenza del 14.3.2022 n. 8177, Presidente A. Cosentino, Estensore A. Carrato
Massima: “I limiti posti dall’art. 1102 c.c. all’uso della cosa comune non impediscono al singolo comunista di installare un cancello su un ballatoio comune, al fine di servirsi del bene anche per fini esclusivamente propri e di trarne ogni possibile utilità, purché sia garantita agli altri comunisti l’ordinaria accessibilità ed il godimento comune della “res”, circostanza che deve essere provata dal partecipante che pretende di usare il bene in modo particolare”.
CASO
Tizio e Caio, proprietari di un appartamento, convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Brescia Sempronia, anch’essa proprietaria di un appartamento confinante a quello degli attori nel medesimo fabbricato, affinché, accertata la comproprietà della scala e del balcone del primo piano, la stessa venisse condannata alla rimozione del cancelletto da lei posto su detto balcone, nonché al ripristino della situazione preesistente sul cortile di proprietà comune tramite l’eliminazione della pavimentazione posta all’ingresso dell’abitazione della medesima convenuta e lo sgombero di vasi ed, infine, al risarcimento dei danni conseguenti all’occupazione abusiva di dette parti, per una somma di Euro 5.000,00.
Costituita in giudizio la convenuta, chiedeva il rigetto delle istanze attoree e proponeva domanda riconvenzionale per la condanna degli attori a riposizionare il portone collocato nel cortile comune, oltre al risarcimento dei danni.
Il Tribunale, espletata l’attività istruttoria, condannava la convenuta alla rimozione del cancelletto posizionato sul ballatoio comune, nonché del rialzo sul cortile nella porzione antistante il proprio immobile, condannava gli attori a riposizionare l’originario portone o un nuovo analogo all’ingresso della corte, rigettando ogni altra domanda.
Sempronia appellava, quindi, la pronuncia del giudice di prime cure presso la Corte d’Appello di Brescia, la quale in parziale accoglimento del gravame, respingeva la domanda proposta dagli originari attori avente ad oggetto la rimozione del cancelletto apposto sul ballatoio e respingeva nel resto le altre domande.
Tizio e Caio proponevano ricorso per Cassazione contro suddetta sentenza sulla base di un unico motivo, resisteva con controricorso Sempronia.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso cassando la sentenza della Corte d’Appello e rinviava alla stessa in diversa composizione.
QUESTIONI
I ricorrenti lamentavano in particolare, con l’unico motivo proposto, come la Corte bresciana avesse ritenuto fondato il motivo relativo all’asserita illegittimità della condanna alla rimozione del cancelletto, considerando lecita l’apposizione dello stesso sul balcone comune, oltretutto privo di chiusura, non rilevando pertanto alcuna violazione dell’art. 1102 c.c..
Andando ad analizzare la fattispecie regolata dall’art. 1102 si individua come i limiti posti dal suddetto articolo all’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino, ossia il divieto di alterarne la destinazione e l’obbligo di consentirne un uso paritetico agli altri comproprietari, non impediscono al singolo condomino di servirsi del bene anche per fini esclusivamente propri e di trarne ogni possibile utilità[1].
Proprio in relazione a tali limiti imposti al condomino, che nell’uso della cosa comune non deve alterarne la destinazione né impedire ali altri comunisti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, l’alterazione o la modificazione della destinazione del bene si ricollega all’entità e alla qualità dell’incidenza del nuovo uso, giacché l’utilizzazione, anche particolare, della cosa da parte del condomino è consentita quando la stessa non alteri l’equilibrio fra le concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri comproprietari e non determini pregiudizievoli invadenze dei diritti di questi[2].
In ogni caso, l’uso della cosa comune non è in alcun rapporto con la quota maggiore o minore di proprietà del singolo condominio ed è totalmente sganciata dalle tabelle millesimali utilizzate per il calcolo delle spese relative alla gestione del bene stesso.
L’esercizio della facoltà di ogni condomino di servirsi della cosa comune, ai sensi e nei limiti dell’art. 1102 c.c., deve esaurirsi tuttavia nella sfera giuridica e patrimoniale del diritto di comproprietà sulla cosa stessa e non può essere esteso per il vantaggio di altre e diverse proprietà esclusive del medesimo condomino perché si verrebbe, allora, ad imporre una servitù sulla cosa comune in favore di beni estranei alla comunione, per la cui costituzione è necessario il consenso di tutti i comproprietari[3].
Ciascun comproprietario ha, quindi, il diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella degli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di questi ultimi.
In particolare, per stabilire se l’utilizzo più intenso sia consentito dall’art. 1102 c.c. deve essere preso in considerazione non già l’uso concreto fatto dagli altri condomini in un determinato momento ma quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno.
Pertanto l’uso deve ritenersi permesso se l’utilità aggiuntiva ricavata dal singolo comproprietario non sia diversa da quella derivante dalla destinazione del bene, salvo che dia luogo a servitù a carico del bene stesso[4].
Gli Ermellini, in via preliminare, hanno osservato come sia indiscusso il principio generale secondo cui la nozione di pari uso della cosa comune, agli effetti dell’art. 1102 c.c., non vada inteso in termini di assoluta identità dell’utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto l’identità nel tempo e nello spazio di tale uso comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell’oggetto della comunione.
Tuttavia, l’applicazione di tale principio deve essere relazionato alle specifiche fattispecie al fine di valutare se, purché la fruizione da parte di ciascun comproprietario non debba essere intesa in termini di assoluta parità, colui che intende farne un uso più intenso, come detto, deve comunque comportarsi in modo che gli altri comproprietari non subiscano un possibile aggravamento dell’utilizzazione precedente, nel senso che tale contegno non deve implicare una modalità di utilizzazione che possa determinare la configurazione di una possibile incomodità che, seppur non intollerabile, non consente un’agevole utilizzazione di tale bene.
La Suprema Corte, rileva inoltre come la circostanza che il cancelletto rimanesse sempre aperto o fosse privo di strumenti di chiusura era stata addotta tardivamente da Sempronia, a fronte, peraltro, dell’allegazione contraria dei ricorrenti, che l’avevano dedotta fin dall’inizio del giudizio, oltretutto comprovata anche dall’acquisita documentazione fotografica.
Ad ogni modo, ove anche fosse stato dimostrato che il cancelletto rimaneva ordinariamente aperto, Sempronia era tenuta a consentire l’accesso al ballatoio in modo libero agli altri condomini provvedendo quantomeno alla consegna in favore degli stessi della chiave di apertura del cancelletto per ogni evenienza.
Proprio su tale questione, la Cassazione si era già in precedenza pronunciata in maniera invece più restrittiva, non ritenendo possibile l’apposizione da parte di un condomino per suo esclusivo vantaggio di un cancello in un viottolo comune, destinato fin dalla costituzione del condominio al passaggio dei condomini e per l’accesso a locali di proprietà esclusiva degli stessi, perché una installazione di questo tipo costituisce comunque, pure qualora vengano messe a disposizione degli altri condomini le chiavi del cancello, una modificazione delle modalità di uso e di godimento della cosa comune che interferisce sul pari uso della stessa che spetta agli altri condomini[5].
Lo strumento di tutela del condomino pregiudicato dall’utilizzo “oltre i limiti” della cosa comune è la domanda di rispristino dello status quo ante, la quale ha natura reale poiché si fonda sull’accertamento dei limiti del diritto di comproprietà sul bene.
Pertanto, la stessa rientra nella categoria delle azioni relative ai diritti autodeterminati cioè individuati in base al bene che ne forma l’oggetto, comportando, quindi, l’individuazione della causa petendi nel diritto di comproprietà stesso.
Di conseguenza, non risultano domande diverse laddove si rilevi, al fine della rimozione della struttura, preventivamente la mancanza della preventiva autorizzazione assembleare e successivamente i limiti dell’art. 1102 c.c..
Non incorre, per lo stesso motivo, vizio di ultrapetizione nel caso in cui il giudice che, dichiarando l’uso illegittimo del comproprietario, accolga la domanda ritenendo che la costruzione sia in contrasto con il decoro architettonico dell’edificio condominiale, trattandosi di limite legale compreso nel principio generale dettato dalla norma dell’art. 1102 c.c. e che, pertanto, deve condurre l’indagine giudiziale sulla verifica della liceità del mutamento d’uso[6].
In ogni caso, ancorché sia presente una clausola all’interno del regolamento di condominio, di natura convenzionale, che preveda il consenso preventivo dell’amministratore o dell’assemblea per qualsiasi opera compiuta dai singoli condomini che possa modificare le parti comuni del condominio, pur dovendosi riconoscere all’assemblea stessa la facoltà di ratificare o convalidare ex post le attività che siano state compiute da alcuno dei partecipanti in difetto nella necessaria preventiva autorizzazione, resta salvo l’interesse processuale di ciascun condomino ad agire in giudizio per contestare il determinato uso fatto della cosa comune ed il potere dell’assemblea di consentirlo, ove esso risulti comunque lesivo del decoro architettonico del fabbricato[7].
[1] Cass. civ., Ord. n. 33154/2019-
[2] Cass. civ., Ord. n. 24720/2019-
[3] Cass. civ., Ord. n. 5132/2019. Nel caso di specie la Cassazione si trovava a decidere di una controversia nata poiché una società, proprietaria di un locale sito al primo piano interrato di un condominio, aveva creato un accesso ad un adiacente terreno di sua proprietà costruendo tre varchi nella recinzione posta al confine tra gli immobili.
[4] Cass. civ., Sent. n. 2114/2018.
[5] Cass. civ., Sent. n. 12227/1995.
[6] Cass. civ., Ord. n. 2002/2020.
[7] Cass. civ., Ord. n. 29924/2019.
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