19 Novembre 2024

Condizione testamentaria e favor testamenti

di Corrado De Rosa, Notaio Scarica in PDF

Cassazione, ordinanza, 18 settembre 2024, n. 25116 Dott. Di Virgilio Rosa Maria – Presidente; Dott. Grasso Giuseppe – Consigliere-Relatore

(Articoli 634, 1354 e 1359 c.c.)

Massima:Se il testatore impedisce, in vita, l’avveramento della condizione apposta alla propria disposizione testamentaria istitutiva, pur mantenendo ferma l’istituzione medesima, il principio del favor testamenti impone la salvezza dell’istituzione testamentaria non revocata, nonostante la revoca, per condotta incompatibile del disponente, della condizione sospensiva apposta.

CASO

Il signor G.G.G., con testamento olografo del 24/11/2007 espresse la volontà di lasciare “tutto quanto in mio possesso del mio patrimonio… ai miei nipoti: G.G. e F.F. – e chiede loro che si impegnano ad accudirmi in mia vita natural durante in mio C frazione T e provincia di S…“.

Quanto all’impegno per l’accudimento, il Tribunale sostenne che si ebbe a trattare di un mero desiderio, privo d’efficacia condizionante e che la conclusione non sarebbe mutata pur ove lo si fosse considerato come onere, trattandosi d’un adempimento, originariamente possibile, successivamente divenuto impossibile per decisione del testatore, il quale aveva categoricamente rifiutato di trasferirsi nel paese natio e di essere accudito dai nipoti.

Per la Corte d’Appello di Trieste, invece, non poteva trattarsi di onere, per la ragione decisiva che esso presuppone l’avvenuta delazione, nel mentre qui si trattava di prestare assistenza al testatore in vita.

Dal complessivo vaglio probatorio doveva escludersi che il testatore volle esprimere un mero desiderio privo di rilevanza giuridica, e pertanto la Corte d’Appello aveva ritenuto che si trattasse di condizione sospensiva, divenuta impossibile per successivo fermo volere dello stesso disponente, ma non originariamente tale (da qui la non applicabilità dell’art. 634, co. 2, cod. civ.), con il risultato che doveva trovare applicazione l’art. 1359 cod. civ., “riferibile anche ai comportamenti di chi in concreto abbia dimostrato, con una condotta successiva, di non avere più interesse al verificarsi della condizione (Cass. 24325/2011; Cass. 13457/2004), con la conseguenza che la condizione deve ritenersi adempiuta.

Secondo i soggetti ricorrenti in Cassazione, però, in materia testamentaria, era applicabile l’art. 1362 cod. civ., così da evitare che la volontà del testatore venisse prevaricata dall’interprete. In altri termini, il contenuto letterale, salvo il caso in cui l’espressione non sia foriera di dubbio alcuno, deve confrontarsi con il comportamento tenuto dal testatore successivamente alla stesura della scheda. In conclusione, seguendo gli indicati criteri, in alcun modo si sarebbe potuti giungere ad affermare la soddisfazione del disponente col solo e mero fatto dell’assunzione dell’obbligazione di assistenza, non seguita dall’effettiva prestazione: altro senso non poteva avere il prescritto “impegno ad accudire”.

Sotto altro profilo, riguardante l’avveramento della condizione, “la corte di merito ha omesso di esaminare l’altra (parte di clausola) immediatamente seguente, nella quale la richiesta dell’impegno… doveva avvenire nel luogo da lui indicato (C) e protrarsi (continuativamente e/o periodicamente) fino alla sua morte: tutti accadimenti che, dalla deposizione del teste J.J.J., non sono mai emersi”.

SOLUZIONE

La Suprema Corte ritiene il ricorso inammissibile, e afferma che la ratio portante della decisione è costituita dalla constatazione che non fu possibile adempiere alla condizione per volere del disponente stesso. L’anzidetto accertamento rende vano disquisire sul contenuto della prestazione richiesta: l’effettivo adempimento, per vero, fu impedito dal volere dello stesso testatore G.G.G..

La Cassazione prosegue affermando che il richiamo all’art. 1359 cod. civ. non è condivisibile.
La previsione normativa dispone che la condizione debba considerarsi avverata “qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa”. All’evidenza, essa regola i rapporti fra le parti di un contratto, così da impedire che la parte che resterebbe favorita dal non avveramento, si adoperi, ai danni dell’altra parte, perché ciò avvenga. La natura di negozio giuridico unilaterale del testamento rende, secondo il Collegio, impraticabile l’estensione della regola.

Per converso, il codice civile ha raccolto l’eredità della cd. regola sabiniana, diretta a salvaguardare la volontà testamentaria: l’art. 634 cod. civ. pone una disciplina affatto diversa rispetto a quella prevista per i contratti dall’art. 1354 cod. civ., diretta a salvaguardare la volontà del disponente.

L’art. 634 cod. civ. salvaguarda la volontà del testatore, considerando come non apposte “le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”.

La condizione apposta al testamento di cui si discute non rientra in alcuna delle anzidette categorie e se ne distingue nettamente sotto altro profilo: il mancato avveramento della condizione si è verificato per volere dello stesso disponente, il quale non ha voluto essere assistito in vita dai nominati nipoti.

Trattasi, pertanto, di una condizione revocata per volontà dello stesso testatore.

Qui, conclude la Cassazione, è stato proprio il testatore a impedire l’avveramento della condizione e, nonostante ciò, ha mantenuto ferma la nomina ad eredi universali dei nipoti. Quindi, se appare improprio evocare la disciplina di cui all’art. 1359 cod. civ. per le ragioni sopra esposte, proprio il “favor testamenti” impone comunque la salvezza dell’istituzione testamentaria non revocata, nonostante la revoca, per condotta incompatibile del disponente, della condizione sospensiva apposta.

In definitiva, la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “ove il testatore, dopo avere apposto una condizione sospensiva, dipendente anche dalla sua volontà, alla disposizione testamentaria, ne impedisca l’avveramento, la disposizione testamentaria, ove non revocata, resta pienamente efficace”. 

QUESTIONI

La sentenza in commento detta un interessante principio di diritto in merito alle condizioni apposte al testamento, e offre l’occasione per riflettere anche sui temi dell’interpretazione del testamento.

Anzitutto, come ricorda la stessa Cassazione, è bene ricordare che il caso di specie si colloca al di fuori del caso esaminato con la sentenza n. 5871/2002. In quell’occasione, con una limitazione del “favor testamenti”, si era ritenuto che se la condizione diviene impossibile in tempo successivo alla stesura del testamento, si risolve in una condizione mancata e non più realizzabile, che non può essere equiparata, quanto agli effetti, all’impossibilità originaria (Sez. 2, n. 5871, 22/4/2002). Questo conduceva, secondo il precedente del 2002, alla conseguente inefficacia della disposizione testamentaria, oltre e al di fuori del solo caso codicisticamente contemplato con l’art. 626  cod. civ.

Al di là della condivisibilità o meno della costruzione, è del tutto evidente che una tale conclusione poggia le basi sul presupposto che l’accadimento, che rende impossibile la condizione è, appunto, successivo alla morte del testatore e quindi, fa presumere, che ove il testatore lo avesse previsto avrebbe disposto diversamente dei suoi beni.

Nel caso di specie, al contrario, la condizione era divenuta impossibile perché lo stesso testatore aveva impedito il suo verificarsi, con la sua propria condotta.

I giudici del Supremo Collegio affrontano quindi il tema della condizione, distinguendo la materia contrattuale dalla materia testamentaria.

La prima parte dell’art. 634 c.c. , discostandosi dalla disciplina dettata per i contratti dall’art. 1354, riproduce la cosiddetta regola sabiniana, secondo la quale le condizioni impossibili o illecite apposte alle disposizioni testamentarie vitiantur sed non vitiant, sono cioè irrilevanti (Bianca, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, 4a ed., Milano, 2005, 278).

Una regola diversa è quella, introdotta dall’ultimo inciso della norma con il richiamo all’ art. 626 c.c., per cui le condizioni impossibili o illecite apposte alle disposizioni attributive hanno efficacia invalidante, vitiantur et vitiant, quando risulti dal testamento che il motivo, oggettivato nella condizione, è stato determinante della volontà dispositiva del de cuius.

La dottrina afferma che la ratio della regola risiede nel rapporto che sussiste tra il motivo unico e determinante e l’interesse del testatore: il motivo unico e determinante va tenuto separato dalle intenzioni soggettive, che sono irrilevanti (Giardini, Testamento e sopravvenienza, Padova, 2003, 57).

Giova sul punto ricordare che la Suprema Corte ha sottolineato come la disposizione testamentaria a cui sia stata apposta una condizione sospensiva sia nulla, se risulti dal testamento, e non già da elementi estrinseci alla scheda, che il motivo illecito sotteso alla condizione è stato il solo a determinare il testatore a disporre ( C., ord., 8733/2023).

La presenza della regola sabiniana nel nostro ordinamento è fonte di dibattiti:

secondo alcuni essa è frutto di un retaggio storico, e sarebbe priva di una convincente spiegazione [Cirillo, Disposizioni condizionali e modali, in Rescigno (a cura di), Successioni e donazioni, I, Padova, 1994, 1060, 1064];

Secondo altra interpretazione, la deroga al principio contrattuale del 1354 si giustifica in ragione del favor testamenti, in considerazione del fatto che il testamento non è un atto rinnovabile, al contrario del contratto (Bonilini, Diritto delle successioni, Bari, 2004, 184; Cirillo, 1061; Tatarano, Il testamento, Napoli, 2003, 307). Da qui discenderebbe la presunzione di scindibilità della clausola condizionale impossibile o illecita dalla disposizione attributiva pura e semplice, in deroga al principio di unità e inscindibilità della volontà condizionata disposto dall’art. 1354.   (Caramazza, Delle successioni testamentarie, in Comm. De Martinosub artt. 587-712, Novara, 1981, 263).

Altra tesi non ritiene che l’art. 634 costituisca un’eccezione al principio di inscindibilità tra condizione, e lo considera come l’espressione di un’altra regola vigente nel codice civile in materia di condizioni, una norma “autosufficiente”, perché stabilisce la presunzione (opposta) di scindibilità della volontà testamentaria condizionata e allo stesso tempo indica, attraverso il richiamo all’ art. 626, il mezzo per superare questa presunzione (Toti, Condizione testamentaria e libertà personale, Milano, 2004, 185).

Sulla natura non assoluta della regola si è pronunciata anche la giurisprudenza, secondo la quale deve ammettersi la prova che la volontà della disposizione era inscindibile (C. 1633/1953).

Le numerose critiche che sono state rivolte in dottrina al principio del favor testamenti come fondamento della regola sabiniana dimostrano la sussistenza di un’incongruenza: gli interpreti, pur accettando la tradizionale configurazione della condizione testamentaria come elemento inscindibile dalla volontà attributiva, sono costretti tuttavia ad invocare il favor testamenti per giustificare la scindibilità della disposizione condizionata, di cui la norma è espressione.

La presunzione di scindibilità viene meno allorché si provi che l’interesse del testatore alla condizione rifluisce in quello all’attribuzione e, se illecito, lo travolge (Petrelli, La condizione “elemento essenziale” del negozio giuridico, Milano, 2000, 165).

Sul tema delle condizioni illecite, recentemente la Suprema Corte si è attestata su posizioni più rigorose, laddove ha affermato che la condizione, apposta ad una disposizione testamentaria, che subordini la efficacia della stessa alla circostanza che l’istituito contragga matrimonio, è contraria alla esplicazione della libertà matrimoniale, fornita di copertura costituzionale attraverso gli artt. 2 e 29 della Costituzione, e pertanto, si considera non apposta, salvo che risulti che abbia rappresentato il solo motivo ad indurre il testatore a disporre, ipotesi nella quale rende nulla la disposizione testamentaria (C. 8941/2009).

Una parte della dottrina, autorevole ma isolata, ha sostenuto, invece, che non solo le condizioni dirette a coartare la volontà del beneficiario, ma anche le condizioni che assecondano le aspirazioni e le scelte di vita già effettuate, devono considerarsi sempre illecite, obbiettivamente, poiché esse incidono inevitabilmente sulla libertà di autodeterminazione dell’istituito, il quale deve essere libero, non solo di fare le sue scelte, ma anche, eventualmente, di cambiarle (Di Mauro, Condizioni illecite e testamento, Napoli, 1995, 85).

Si può cogliere l’occasione di ricordare che la giurisprudenza ha ritenuto illecite:

  • la disposizione testamentaria che condiziona l’istituzione d’erede all’assunzione del cognome del testatore da parte dell’istituito entro un termine prefissato, perché urta contro il divieto dell’  631, 1° co.(C. 1928/1982);
  • la clausola con cui il testatore condiziona l’efficacia dell’accettazione dell’eredità al pagamento integrale dei debiti ereditari e dei legati, per contrarietà all’  470  (C. 2961/1966);
  • la clausola con cui si impone all’erede universale di lasciare, alla sua morte, ad una determinata persona, la metà dei beni che in quel momento si troverà a possedere (  2345/1954);
  • la clausola che impone all’erede di diventare sacerdote, che importa rinunzia ai diritti di libertà che ineriscono alla personalità umana, ma non la condizione con la quale, per assecondare la vocazione al sacerdozio del beneficiario, gli si forniscono i mezzi per realizzarla (  Napoli 15.4.1954)
  • la disposizione con la quale il de cuius nomini erede universale il coniuge, col divieto di devolvere i beni relitti ai suoi eredi e con l’obbligo di devolverli in beneficenza (  Lecce 13.7.1959);
  • la disposizione con cui il testatore, dopo aver attribuito un legato di usufrutto, privi il titolare del possesso e del potere di amministrazione della cosa legata (  Cagliari 17.7.1947);
  • la condizione, implicita, di rinuncia ai crediti di lavoro domestico apposta ad un legato fatto dal testatore alla sua collaboratrice familiare per estinguere il debito relativo alla retribuzione e al trattamento di fine rapporto, illecita per contrarietà all’  2113, 1° co.(C. 9467/2001);
  • la clausola di inalienabilità degli immobili ereditari per contratto col divieto d’ordine pubblico previsto dall’  1379  (T. Cagliari 21.12.1998);
  • la condizione sospensiva, con cui si subordini l’istituzione d’erede all’obbligo, per il beneficiario, di donare un proprio immobile ( , ord., 8733/2023).

Al contrario sono state considerate lecite:

  • la condizione apposta all’istituzione di un legittimario oltre il limite della quota di legittima, anche se avente ad oggetto la rinuncia a conseguire la quota di legittima di una diversa eredità (  12936/1993);
  • la clausola con la quale il testatore abbia vietato, per un tempo determinato, l’alienazione delle cose lasciate all’erede o al legatario (  Genova 18.4.1952);
  • la condizione con la quale il testatore abbia subordinato l’atto di liberalità a favore di un ente ad una determinata condotta dell’ente stesso (  133/1951);
  • la condizione che imponga l’abbandono di una relazione illecita con una donna, verso la quale non si hanno doveri morali, perché non vincola la libertà sessuale ( 2672/1953);
  • la condizione di conseguire la laurea in medicina e di esercitare la professione medica, se rispondente ai progetti manifestati dall’istituto (  3196/1993);
  • la condizione che l’erede istituito abbia figli legittimi, che deve considerarsi avverata se l’erede abbia proceduto all’adozione di un minore con effetti legittimanti ( Genova 11.2.1998).

Pare evidente dalla carrellata di precedenti giurisprudenziali citati che la sensibilità giurisprudenziale sulle condizioni illecite evolve con l’evoluzione della società e dei costumi.

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