Condanna ex art. 96, comma 3°, c.p.c. per chi diserta la negoziazione assistita. Con breve panoramica sulla «nuova» responsabilità aggravata.
di Giacomo Ubertalli Scarica in PDFTrib. Torino, Sez. III, 18 gennaio 2017
Spese giudiziali in materia civile e responsabilità aggravata – Negoziazione assistita – Mancato riscontro all’invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita – Responsabilità aggravata – Sussiste (art. 96, comma 3°, c.p.c.; art. 4, D.L. 12 settembre 2014, n. 132)
[1] Il mancato riscontro all’invito alla stipula di una convenzione di negoziazione assistita è fonte di responsabilità aggravata e giustifica la pronuncia di condanna ex art. 96, comma 3°, c.p.c.
CASO
[1] Il Tribunale di Torino si occupa delle conseguenze del mancato riscontro all’invito alla stipula di una convenzione assistita.
Prima del giudizio la parte attrice aveva ottenuto la risoluzione consensuale di un contratto di vendita a fronte del quale aveva già corrisposto un congruo acconto.
La venditrice, all’atto della risoluzione consensuale del rapporto, si era impegnata espressamente alla restituzione di quanto ricevuto, promessa cui non aveva però dato seguito.
La società compratrice, a credito delle somme a suo tempo versate a titolo di acconto, ne aveva così chiesto la restituzione e, al tal fine, aveva formulato l’invito alla stipula di una convenzione di negoziazione assistita, che la società venditrice neppure aveva riscontrato.
La creditrice era stata pertanto costretta a promuovere un giudizio per ottenere il pagamento della somma già promessa in restituzione.
SOLUZIONE
[1] Il Tribunale di Torino, evidenziando il mancato riscontro di parte convenuta all’invito avversario alla stipula di una convenzione di negoziazione assistita nonostante la promessa di pagamento del credito azionato, l’ha condannata, oltre che al pagamento del capitale ed alla rifusione delle spese di lite, anche all’ulteriore versamento di un indennizzo ex art. 96, comma 3°, c.p.c. nella misura circa la metà delle spese liquidate.
Il Tribunale di Torino ha fondato tale decisione, oltre che sulla lettera dell’art. 4, comma 1°, D.L. 17 settembre 2014, n. 132, come convertito dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, a mente del quale il mancato riscontro all’invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita può essere valutato dal giudice anche ai fini dell’art. 96 c.p.c., anche sulla base della valutazione del comportamento processuale in generale tenuto dalla parte convenuta, rimasta contumace.
Il giudice di primo grado ha infatti osservato come la condotta processuale della convenuta sia stata caratterizzata da colpa gravissima, avendo costretto l’attrice ad agire in giudizio anziché pagare spontaneamente quanto promesso o aderire all’invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita; l’atteggiamento della debitrice avrebbe pertanto integrato un evidente abuso del processo (condotta fortemente stigmatizzata dalle fonti del diritto nazionale e sovranazionale, anche di soft law) con conseguente irrogazione della sanzione processuale di cui all’art. 96, comma 3°, c.p.c.
QUESTIONI
[1] Il Tribunale di Torino, in applicazione dell’art. 4, comma 1°, D.L. 132/2014 (che peraltro non richiama specificamente la condanna ex art. 96, comma 3°, c.p.c. ma contiene un generico riferimento all’intero art. 96 c.p.c.) ha disposto la condanna della convenuta ai sensi dell’art. 96, comma 3°, c.p.c. La pronuncia annotata può essere quindi l’occasione per fare il punto sul dibattito che negli ultimi anni, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, ha interessato questa disposizione.
Natura e finalità dell’art. 96, comma 3°, c.p.c.
Come noto, la norma in questione è stata introdotta dall’art. 45, L. 18 giugno 2009, n. 69 ed è stata inserita al fondo dell’art. 96 c.p.c., rubricato “responsabilità aggravata”.
Contestualmente, è stato abrogato l’art. 385, comma 4°, c.p.c. di contenuto simile (seppur con alcune rilevanti differenze: sul punto cfr. Lupano, La “nuova” responsabilità aggravata, in Giur. It., 2011, 235), facendo così diventare di applicazione generale un istituto che, sino ad allora, era previsto per il solo procedimento innanzi alla Corte di Cassazione (cfr. Passanante, Il nuovo regime delle spese processuali, in Il processo civile riformato, a cura di Taruffo, Bologna, 2010, 250).
L’art. 96, comma 3°, c.p.c. attribuisce al giudice il potere di condannare la parte soccombente, oltre che alla rifusione delle spese di lite, anche al pagamento di una somma di danaro equitativamente determinata in favore della controparte.
Come noto, la condanna ai sensi della norma in questione può essere disposta anche d’ufficio del giudice e non abbisogna della prova dell’esistenza di un danno effettivamente patito dalla parte in conseguenza della condotta del soccombente.
Successivamente all’entrata in vigore dell’art. 96, comma 3°, c.p.c., dottrina e giurisprudenza si sono chieste se la natura e la finalità di questa disposizione fossero coincidenti con quelle dei primi due commi del medesimo articolo (su tali disposizioni si vedano Comoglio, Sub art. 96 c.p.c., in Comm. c.p.c., diretto da Comoglio-Sassani-Consolo-Vaccarella, Torino, 2012, p. 1256 e ss.; Montesano-Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I, I, Padova, 2001, 590 e ss.) ovvero se, ed in quale misura, ne differissero.
La questione maggiormente discussa afferiva alla natura della condanna di cui all’art. 96, comma 3°, c.p.c.: ci si domandava, in particolare, se essa fosse di tipo risarcitorio-ripristinatorio (come quella pronunciata ai sensi dell’art. 96, commi 1° e 2°, c.p.c.) ovvero eminentemente sanzionatorio e, di riflesso, se la disposizione in parola avesse una finalità privatistica oppure pubblicistica.
A favore di questa seconda corrente interpretativa si sono da subito orientate, sia la giurisprudenza (cfr. ex plurimis, Cass., 30 luglio 2010, n. 17902, in Foro It., 2011, I, 3134; Trib. Rovigo, 7 ottobre 2010; v. anche Trib. Terni, 17 maggio 2010, in Giur. It., 2011, 143, con nota di Fradeani, Note sulla lite “temeraria attenuata” ex art. 96, comma 3°, c.p.c.), sia la dottrina maggioritaria (su tutti Carratta, L’abuso del processo e la sua sanzione: sulle incertezze applicative dell’art. 96, comma 3°, c.p.c., in Fam. Dir., 8-9, 2011, 818; in parte contrario, Lupano, op. cit., 237, secondo cui la condanna ex art. 96, comma 3°, c.p.c. sarebbe anche di natura indennitaria), secondo cui la natura pubblicistica della norma si evincerebbe:
(i) dalla diversa semantica utilizzata rispetto all’art. 96, comma 1°, c.p.c.: quest’ultima norma parla di “risarcimento dei danni” mentre la disposizione in commento fa genericamente riferimento al pagamento di una “somma equitativamente determinata”. Inoltre, la locuzione “in ogni caso” contenuta all’inizio dell’art. 96, comma 3°, c.p.c. suggerirebbe uno spettro applicativo maggiore rispetto alla disposizione del prima comma e non semplicemente limitato ad una finalità risarcitoria;
(ii) dall’ufficiosità della pronuncia ex art. 96, comma 3°, c.p.c. laddove, invece, le condanne di cui all’art. 96, comma 1° e 2°, c.p.c. sono sempre pronunciate su istanza di parti.
Sul dibattito è intervenuta la recente pronuncia della Corte Costituzionale che, rigettando la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 96, comma 3°, c.p.c., ha espressamente affermato la natura sanzionatoria e pubblicistica della disposizione (cfr. Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152, in www.eclegal.it, 26 aprile 2017, con nota di Nicita, Costituzionalmente legittimo l’art. 96 c.p.c., comma 3, nel prevedere una sanzione “punitiva” civile a favore della parte vittoriosa, anziché a favore dell’Erario; la sentenza è stata pubblicata anche in Foro It., 2016, I, 2639, con nota di D’Alessandro e in Quotidiano giuridico, 30 giugno 2016, con nota di Carrato, Lite temeraria? Ragionevole la condanna in favore della parte vittoriosa anziché dello Stato; sulla cumulabilità delle condanne ex art. 96, comma 1° e 3°, c.p.c., cfr. Cass. 27 febbario 2013, n. 4925, in Riv. Giur. Trib., 2013, 673; Trib. Genova, 28 ottobre 2016, su www.eclegal.it, con nota di Bechis, Doppia condanna per responsabilità aggravata? Anche no; Trib. Brescia 24 marzo 2016, in Argomenti Dir. Lav., 2016, 620, con nota di De Angelis, La misura prevista dall’art. 96, comma 3°, c.p.c. e l’abuso del processo; sostengono che l’art. 96, comma 3°, c.p.c. possa essere l’antesignano dell’introduzione del nostro ordinamento dei danni punitivi Busnelli-D’alessandro, L’enigmatico ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.: responsabilità aggravata o “condanna punitiva”?, in Danno e Resp., 6, 2012, p. 585 e ss.).
Una norma pensata per sanzionare il c.d. abuso del processo
Al suddetto orientamento aderisce anche l’annotata sentenza (commentata anche da Licci, Responsabilità aggravata per chi non risponde all’invito alla negoziazione assistita, in Quotidiano giuridico, 28 marzo 2017).
L’art. 96, comma 3°, c.p.c., dunque, avrebbe la funzione di sanzionare quelle condotte processuali che, ancorché non foriere di danno per la parte vittoriosa, possono essere comunque sussunte nella categoria dell’abuso del processo, con esso intendendosi il comportamento processuale di chi, pur essendo titolare del diritto di compiere una determinata attività processuale, la pone in essere in maniera distorta, scorretta o impropria e, quindi, abusiva (in questi termini, Taruffo, Elementi per una definizione di abuso del processo, in AA.VV., Il diritto privato – III. L’abuso del diritto, Padova, 1998, 435, e ss.)
I due principali elementi costitutivi dell’abuso del processo sono (i) la titolarità del diritto a compiere una determinata azione processuale e (ii) la realizzazione di quest’ultima per finalità diverse e ulteriori rispetto a quelle che hanno ispirato il legislatore nel prevedere tale strumento (in argomento cfr. Ansanelli, voce “Abuso del processo”, Digesto civ., agg. III, vol. 1, Torino, 2007, 1 e ss.).
Da questa seppur sommaria definizione è facile ricavare come l’istituto dell’abuso del processo sia utilizzabile per limitare talune iniziative processuali che, seppur espressione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., vengono poste in essere per finalità palesemente distorte rispetto alla realizzazione di un processo giusto, ove le parti – in un contesto di lealtà, parità e terzietà – dovrebbero collaborare alla rapida definizione del contenzioso.
Da questo punto di vista, dunque, si può intuire il ruolo “strategico” dell’art. 96, comma 3°, c.p.c. come norma di chiusura a presidio dell’interesse generale al buon andamento della giustizia nell’ipotesi di condotte processuali che abbiano come unica finalità la dilatazione dei tempi processuali senza alcun sostanziale beneficio per la parte assistita.
Nel caso di specie, dunque, la soluzione adottata dal Tribunale di Torino appare in linea con l’orientamento che si è andato affermando sull’art. 96, comma 3°, c.p.c.
Pur nella prospettiva illustrata la sentenza in commento suscita un dubbio.
È ipotizzabile un’applicazione anche in ipotesi ulteriori rispetto alla soccombenza?
Dalla lettura della motivazione sembrerebbe che l’attrice, anziché instaurare un giudizio a cognizione ordinaria, ben avrebbe potuto depositare un ricorso per decreto ingiuntivo, cosa che avrebbe accelerato di molto il procedimento ed evitato un maggiore dispendio di risorse.
Il Tribunale nulla dice sul punto ma se l’ipotesi appena formulata fosse fondata, la parte tacciabile di abuso del processo ben avrebbe potuto essere l’attrice, che – ancorché vittoriosa nel merito – si sarebbe potuta valere del più celere ed efficace strumento del ricorso per decreto ingiuntivo.
La riflessione non è del tutto peregrina in quanto consente di allargare la discussione all’applicabilità dell’art. 96, comma 3°, c.p.c. anche in ipotesi ulteriori rispetto alla soccombenza e, quindi, di estendere ulteriormente l’area dell’abuso del processo.
A ben vedere, infatti, la soccombenza è questione che rileva esclusivamente nel rapporto tra le parti mentre l’istituto di cui all’art. 96, comma 3°, c.p.c., almeno secondo l’opinione largamente maggioritaria, è posto a tutela del generale interesse al buon andamento della giustizia che, trascendendo l’ambito privatistico, è di tipo pubblicistico.
È quindi astrattamente possibile ipotizzare casi in cui la parte, ancorché vittoriosa, abbia comunque abusato del processo nel senso sopra indicato e cioè utilizzandolo per finalità distorte o comunque eccessive rispetto a quelle che gli sono proprie.
Del resto è assolutamente logico ipotizzare una sanzione processuale per quel soggetto che, pur avendo una pretesa fondata nel merito, la azioni con strumenti processuali del tutto abnormi e sproporzionati (si pensi alla fattispecie del c.d. frazionamento del credito, su cui si è pronunciata, in termini di abuso del diritto, Cass., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Giur. It., 4, 2008, 929, con nota adesiva di Ronco, (Fr)azione: rilievi sulla divisibilità della domanda in processi distinti; più recentemente Trib. Perugia, 19 ottobre 2015, in Giur. It., 2, 2016, 370, con nota critica di Cariglia, L’infrazionabilità del credito tra limiti oggettivi del giudicato e divieto di abuso del processo; in argomento si veda anche Di Giovanna, Frazionamento del credito e abuso del processo. Il punto dopo Cass. Sez. Un. 4090/2017, in www.eclegal.it, 4 aprile 2017; Montanari, Note minime sull’abuso del processo civile, in Corriere Giur., 4, 2011, 556 e ss.).
Una siffatta conclusione, seppure contraria alla lettera dell’art. 96, comma 3°, c.p.c. (la cui applicazione – secondo l’unanime opinione dottrinale e giurisprudenziale – presuppone la soccombenza), è forse oggi configurabile, almeno astrattamente.
Il legislatore, segnatamente in materia di strumenti alternativi per la risoluzione delle liti (cfr. art. 4, comma 1, D.L. n. 132/2014), ha infatti previsto dei meccanismi di sanzione ai sensi dell’art. 96, comma 3°, c.p.c. per la parte che non riscontri l’invito alla stipula della convenzione di negoziazione assistita o che non aderisca alla proposta del mediatore, e ciò indipendentemente dal fatto che sia poi risultata vittoriosa davanti al giudice (per l’applicazione della condanna ex art. 96, comma 3°, c.p.c. nei confronti della parte, nel caso di specie soccombente, che non abbia partecipato al procedimento di mediazione senza giustificato motivo, si veda Trib. Roma, 29 settembre 2016, nn. 18272 e 18361, in Quotidiano Giuridico, 15 novembre 2016, con nota di Pellegrinelli, Mediazione delegata: gravi conseguenze per chi non partecipa senza giustificato motivo).
Se questi siano dei piccoli segnali di una tendenza legislativa e giurisprudenziale nel senso di attribuire una condotta di abuso del processo ed applicare la sanzione ex art. 96, comma 3°, c.p.c. anche alla parte non soccombente è forse ancora presto per dirlo (anche se sembra seguire questa direzione Cass., 3 maggio 2010, n. 10634, in Corriere Giur., con nota di FIN, Una coraggiosa pronuncia di della corte di legittimità, l’onere delle spese come rimedio contro un uso scorretto dello strumento processuale; nel senso di non sanzionare l’abuso dello strumento processuale con una pronuncia in rito si veda Cass., 9 maggio 2012, n. 7096, in Giust. Civ. Mass., 2012, 579); di certo la prospettiva può essere interessante, specie nell’ottica di una più attenta salvaguardia dell’economia processuale e della ragionevole durata del processo (in questi termini si è espressa la già citata Cass., Sez. Un., 23726/2007), nonché delle (limitate) risorse della giustizia.