18 Marzo 2025

Il concetto di continuità aziendale nel contesto della procedura di concordato preventivo

di Giulio Marconcin, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. I, Sent., 08/01/2025, n. 348

Parole chiave: Concordato preventivo – Cessione dei beni – Trasferimento di azienda – Continuità aziendale – Caratteristiche – Accertamento

Massima: L’accertamento del requisito della continuità aziendale presuppone la prosecuzione della pregressa attività d’impresa da parte del debitore. Ove la continuità risulti solo parziale, la stessa deve riguardare quantomeno una porzione significativa del nucleo aziendale, vale a dire (mutuando la terminologia utilizzata dall’art. 2112, comma 5, cod. civ.) “un’articolazione funzionalmente autonoma dell’attività economica precedentemente organizzata”, che conservi la propria identità ed alla quale i beni sottratti alla liquidazione siano effettivamente strumentali. In altri termini, la continuità presuppone che la pregressa attività di impresa, pur potendo subire un ridimensionamento della sua consistenza quantitativa, prosegua con le peculiari caratteristiche già assunte e mantenga la sua identità sotto un profilo qualitativo, senza essere completamente destrutturata e sostituita con un’attività di impresa altra e differente da quella precedentemente svolta.”

Disposizioni applicate

R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 160, 182, 186-bis; Codice di Procedura Civile, art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4

Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione ha esaminato il concetto di continuità aziendale nel contesto della procedura di concordato in continuità ex art. 186-bis l. fall., soffermandosi sui requisiti rilevanti ai fini dell’accertamento.

La Corte ha evidenziato che, ai fini della continuità aziendale, è necessario accertare la prosecuzione della pregressa attività d’impresa da parte del debitore. Tale attività, sotto il profilo qualitativo, deve mantenere un’identità con l’attività pregressa, e l’accertamento di tale condizione va effettuato in base al complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione prevista nel piano concordatario (tra cui, ad esempio, il tipo d’impresa, l’identità dell’attività produttiva, l’utilizzo, almeno in parte, della medesima forza lavoro, il tendenziale mantenimento della stessa clientela, la sottrazione alla liquidazione e la destinazione, almeno in parte, dei beni materiali già in precedenza utilizzati per lo svolgimento dell’attività).

CASO

Con decreto dell’8 aprile 2021, Il Tribunale di Perugia ha omologato il concordato preventivo ex art. 186-bis l. fall., proposto dal debitore (OMISSIS). Il debitore (OMISSIS) ha impugnato, avanti la Corte di Cassazione, il decreto reso dal Tribunale umbro sotto molteplici profili, inclusa, inter alia: (i) la parte in cui era stata prevista la nomina di un liquidatore giudiziale cui affidare la gestione della fase di dismissione degli asset aziendali funzionali e non funzionali alla prosecuzione dell’attività di impresa del debitore benché tale nomina non fosse contemplata nel piano concordatario predisposto dal debitore; (ii) la parte in cui era stata prevista la necessità di integrare la disciplina dell’art. 186-bis, in tema di concordato in continuità, sul presupposto che tale norma non disciplinasse la fase di liquidazione di asset non funzionali all’esercizio dell’impresa; (iii) la parte in cui il Tribunale ha previsto che le cessioni di beni avvenute nella fase esecutiva del concordato dovessero essere assoggettate a procedura competitiva, da affidarsi a organo liquidatorio.

SOLUZIONE

Nel motivare la decisione, la Suprema Corte ha ritenuto legittima l’applicazione dell’art. 186-bis l. fall. al caso di specie, osservando anzitutto come tale norma sia applicabile al “concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale”. Nel caso di specie, il concordato presentato dal debitore (OMISSIS) era stato qualificato correttamente, dal Tribunale di Perugia, come un concordato in continuità in ragione della prosecuzione della pregressa attività di impresa attraverso una porzione significativa dell’originario nucleo aziendale, tale da consentire di mantenere i rapporti commerciali con la clientela estera e scongiurare il rischio di deprezzamento del marchio.

La Corte ha poi confermato che la fase di dismissione di asset non funzionali all’esercizio dell’attività di impresa da parte della debitrice dovesse essere disciplinata dalla norma generale di cui all’art. 182 l. fall., la quale prevede che ove il concordato preveda la cessione dei beni aziendali – senza, però, indicare in modo analitico le relative modalità liquidatorie – il Tribunale provvede alla nomina di un liquidatore a cui affidare la gestione della fase di dismissione degli asset. Nel caso di specie, il piano concordatario non conteneva una puntuale indicazione delle modalità di liquidazione, con la conseguenza che il Tribunale, in linea con il disposto dell’art. 182 l. fall., ha correttamente provveduto alla nomina del liquidatore.

QUESTIONI APPLICATE NELLA PRATICA

La pronuncia in esame è particolarmente interessante in quanto offre l’occasione di approfondire il concetto di continuità aziendale e alcuni temi correlati di particolare rilievo nella prass, fra cui i doveri degli organi sociali di garantire la continuità aziendale i profili di responsabilità che derivano dalla violazione di tali doveri.

Il legislatore non ha elaborato una definizione specifica di continuità aziendale. Tale concetto, di origine economico-aziendale, presuppone – come chiaramente evidenziato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione – la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore in crisi o, comunque, la cessione dell’azienda in esercizio o il suo conferimento in una o più società, anche di nuova costituzione (si vedano M.E. Chiari, La prioritaria rilevanza della continuità negli strumenti del Codice della crisi, in www.dirittodellacrisi.it; R. Ranalli, Alcune riflessioni aziendalistiche sulla viability of the business della direttiva Insolvency, con particolare (ma non esclusivo) riguardo al concordato in continuità, in www.dirittodellacrisi.it, 1 ss., secondo cui “a ben vedere la continuità aziendale ha plurime chiavi di lettura. Comune a tutte è la sostenibilità economica dell’impresa, la già viability of the business, e cioè la sua capacità di stare sul mercato e di non esserne estromessa”).

Con l’entrata in vigore del Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza (CCII) (i.e. D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), il legislatore ha previsto taluni meccanismi di tutela finalizzati a preservare la continuità aziendale. È il caso, ad esempio, della previsione contenuta all’art. 2086, comma 2, c.c., secondo cui l’imprenditore che operi in forma societaria ha il dovere di istituire un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa. Ciò, con l’evidente finalità di permettere la rilevazione di un eventuale stato di crisi – anche embrionale – dell’impresa, che può avere, come effetto, la perdita della continuità aziendale e l’adozione di uno degli strumenti approntati dal CCII per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.

Oltre al citato art. 2086 c.c., il dovere degli organi sociali – e, in particolare, degli amministratori di società di capitali – di dotare le stesse di adeguati assetti è poi riflesso nell’art. 3 CCII, in funzione di una tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di misure idonee al superamento dello stato di crisi e al recupero della continuità aziendale. La predisposizione degli assetti costituisce l’oggetto di un obbligo specifico, anche se a contenuto indeterminato, la cui violazione – consistente nell’omessa istituzione o adeguamento – degli assetti integrano un atto di mala gestio e, come tale, può giustificare la revoca dei membri dell’organo amministrativo ex art. 2409 c.c. Infatti, come ricordato recentemente dal Tribunale di Milano, le lacune riscontrate “nell’organizzazione della contabilità, dell’amministrazione e della tesoreria della società dimostrano l’inadeguatezza dell’organo gestorio che è venuto meno al suo principale dovere organizzativo posto dall’art. 2086, co 2, c.c.”, costituiscono atti di mala gestio (cfr. Trib. Milano, 1° giugno 2024, in Società, 6, 707 ss. In dottrina, cfr. M. Irrera, Adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile, in Trattato delle società, diretto da V. Donativi, II, Milano, 2022, 1550 ss.; N. Abriani – G. Schneider, Adeguatezza degli assetti, controlli interni e intelligenza artificiale, in Trattato delle società, diretto da V. Donativi, I, Milano, 2022, 1180).

Sul piano della responsabilità dell’organo amministrativo, derivante dalla presenza di assetti inadeguati ovvero dalla loro assenza, autorevole dottrina è del parere che tale circostanza assumerà un rilievo “secondario, per non dire che non assumono alcun rilievo, dovendosi valutare l’adeguatezza dell’iter decisionale con riferimento ai singoli casi concreti. Con la conseguenza che, ai fini della valutazione di responsabilità, “gli amministratori saranno responsabili se non hanno svolto un’attività preparatoria “adeguata” all’assunzione di una determinata decisione gestoria, “pur in presenza di assetti astrattamente adeguati”. Diversamente “se gli amministratori, pur in assenza di assetti, o di assetti adeguati, hanno compiuto un’attività istruttoria idonea rispetto alla specifica scelta gestionale, non saranno responsabili” (Cfr. O. Cagnasso, Denuncia di gravi irregolarità e omissione dell’istituzione di assetti adeguati, in Società, 6, 721).

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