4 Ottobre 2022

Compravendita: chi abbia domandato la riduzione del prezzo pattuito, in alternativa, può chiedere, con la prima memoria ex art. 183 comma 6 c.p.c., la risoluzione del contratto per grave inadempimento

di Franco Stefanelli, Avvocato Scarica in PDF

Cass., Sez. II, ud. 13 giugno 2022, 18 luglio 2022, n. 22539, Pres. Di Virgilio – Est. Varrone.

[1] Compravendita – Actio quanti minoris – Richiesta di risoluzione del contratto nella prima memoria ex art. 183 comma 6 c.p.c. – Ammissibilità – Contrasto coi principi di irrevocabilità della scelta ex art. 1492 c.c. – Divieto di mutatio libelli – Esclusione (cod. proc. civ., art. 183, cod. civ. artt. 1454, 1492)

In tema di compravendita, la parte, la quale, con la domanda giudiziale, abbia domandato la riduzione del prezzo pattuito, può, in alternativa, chiedere, con la memoria ex art. 183 comma 6 comma 1 c.p.c., la risoluzione del contratto per grave inadempimento, senza per questo porsi in contrasto sia col principio della irrevocabilità della scelta operata inizialmente ex art. 1492 c.c., atteso che esso, trovando il suo limite nella identità del vizio fatto valere, è superato dall’emersione di ulteriori e diversi vizi, sia con quello del divieto di “mutatio libelli” nel processo, stanti l’identità delle parti, del contratto e della complessiva vicenda sostanziale dedotta in giudizio e la connessione per alternatività delle due domande.

CASO

C.T. e Z.M. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Bassano del Grappa, R.M. e F.F. nonché il geometra P.D. e chiedevano che i primi fossero condannati a restituire agli attori quanto indebitamente incassato con l’escussione di una fideiussione costituita a garanzia del saldo del prezzo pattuito per la compravendita di un immobile di proprietà dei coniugi R.M. e F.F., che venissero condannati al pagamento di un’indennità di occupazione per aver trattenuto indebitamente l’immobile oltre il termine pattuito, che fosse accertato il minor valore dell’immobile per le infiltrazioni d’acqua riscontrate ed, infine, chiedevano il risarcimento del danno in capo al geometra P., intermediario dell’operazione di compravendita tra le parti per aver indebitamente ritirato la polizza fideiussoria consegnandola ai venditori, permettendone conseguentemente la riscossione (tali ultime domande non rilevano ai fini del presene commento, ragion per cui il loro successivo sviluppo nel corso del procedimento sarà omessa).

Il Tribunale di Bassano del Grappa rigettava tutte le domande salvo riconoscere la somma di euro 255,00 a titolo di spese condominiali che le parti avevano pattuito gravassero sui venditori sino al 28.02.2000. Condannava, inoltre, gli attori alla rifusione di euro 16.306,69 in favore dei coniugi R.M ed F.F., di euro 16.825,00 in favore di B.R., terza chiamata in causa e di euro 7.865,16 in favore di P.D., oltre alle spese per la consulenza tecnica espletata.

C.T. e Z.M. proponevano appello avverso la suddetta sentenza. R.M., F.F. e P.D. si costituivano nel giudizio d’appello chiedendone il rigetto.

La Corte d’Appello di Venezia rigettava il gravame. In particolare la Corte evidenziava che l’asserita risoluzione di diritto della compravendita ex art. 1454 comma 3 c.c., perché erano trascorsi sette giorni dalla diffida ad adempiere notificata agli originari venditori – diffida volta ad ottenere il possesso dell’immobile libero ed esente da vizi e difetti – non integrava una censura della sentenza essendo rimasta al semplice stadio di indicazione e non essendovi alcun ragionamento critico e, in ogni caso, trattandosi di circostanze non evidenziate in primo grado e come tali inammissibili in appello ex art. 345 c.p.c. Con riferimento all’asserito illecito esercizio dello ius variandi ex art. 1453 comma 2 c.c., pur essendo ammissibile domandare la risoluzione anche quando si è iniziato il giudizio con richiesta di adempimento, era comunque necessario che i fatti posti a base dell’inadempimento fossero gli stessi. Con l’atto di citazione gli originari attori si erano limitati a domandare la condanna dei convenuti alla restituzione di quanto indebitamente incassato con la riscossione della fideiussione, oltre alla condanna al pagamento di un’indennità di occupazione per aver trattenuto l’immobile indebitamente oltre il 28.02.2000 e l’accertamento del minor valore dell’immobile a causa delle infiltrazioni d’acqua con conseguente riduzione del prezzo. Invece, in sede di memoria ex art. 183 c.p.c. avevano espressamente richiesto accertarsi che la compravendita era un aliud pro alio, con conseguente risoluzione del contratto per inadempimento del venditore e condanna dei convenuti al risarcimento del danno in forma specifica o, in subordine, alla restituzione dell’immobile dietro restituzione del prezzo versato, nonché alla condanna a svariate spese sostenute, nonché al risarcimento dei danni subiti.

Dalla lettura delle domande proposte dalla parte attrice nei due distinti momenti citati risultava evidente la differenza tra i fatti introdotti in prima battuta e quelli di cui alla seconda domanda.

Infatti, dalla lettura dell’atto di citazione emergeva che la vera ed unica prima domanda proposta dagli attori fosse quella di riduzione del prezzo ex art. 1492 c.c. in relazione ai vizi del bene. La più autorevole giurisprudenza aveva precisato come la disciplina della garanzia per vizi si esaurisca negli artt. 1490 c.c. e ss. che pongono il venditore in una situazione non tanto di obbligazione quanto di soggezione, esponendolo all’iniziativa del compratore intesa alla modificazione del contratto o alla sua caducazione mediante l’esperimento rispettivamente dell’actio quanti minoris o dell’actio redhibitoria. Pertanto, in base all’art. 1492 c.c. il compratore non soddisfatto poteva proporre sia la domanda di risoluzione che quella di riduzione ma una volta effettuata la scelta con la domanda giudiziale questa diveniva irrevocabile. La norma citata era chiara nell’affermare che, data la possibilità per il compratore non soddisfatto di proporre sia la domanda di risoluzione che quella di riduzione, la scelta fatta con la domanda giudiziale diveniva irrevocabile.

Il giudice di primo grado non aveva indicato le ragioni della ritenuta novità della domanda dell’appellante e si era limitato a fare riferimento alla disciplina generale di cui all’art. 1453 c.c. senza considerare la disciplina speciale in tema di contratto di compravendita.

C.T. e Z.M. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di cinque motivi di ricorso, mentre R.M. e F.F. hanno resistito con controricorso così come, per quanto qui rileva, anche B.R. ha resistito a sua volta con distinto controricorso. R.M. e F.F., con memoria depositata in prossimità dell’udienza, hanno insistito nella richiesta di inammissibilità o rigetto del ricorso.

SOLUZIONE

[1] Il primo motivo di ricorso, che è quello che interessa nella presente sede, era così rubricato: violazione e falsa applicazione dell’art. 183 commi 5 e 6 c.p.c. e dell’art. 1453 comma 2 c.c. ed anche in relazione all’art. 345 c.p.c. I ricorrenti, in sostanza, avevano censurato in appello la decisione del Tribunale di Bassano del Grappa di rigettare la loro domanda di risoluzione della compravendita perché svolta soltanto nella memoria ex art. 183 c.p.c. e non nell’atto di citazione con il quale avevano chiesto la riduzione del prezzo.

La Corte d’Appello aveva rigettato il motivo ritenendo che lo ius variandi aveva comunque il limite della deduzione dei medesimi fatti. I ricorrenti richiamavano quanto stabilito dalle Sezioni Unite, in particolare con la sentenza n. 12310/2015 (per cui, si rinvia a NICITA STEFANEO, L’insospettabile fascino del petitum sostanziale: le Sezioni Unite consentono di trasformare l’azione ex art. 2932 c.c. in domanda di accertamento della proprietà, in Euroconference Legal, https://www.eclegal.it/linsospettabile-fascino-del-petitum-sostanziale-le-sezioni-unite-consentono-di-trasformare-lazione-ex-art-2932-c-c-in-domanda-di-accertamento-della-proprieta ) e cioè che si è affermata l’ammissibilità di un mutamento della domanda in sede di memoria ex art. 183 c.p.c. Secondo le Sezioni Unite, con la modifica della domanda l’attore implicitamente rinuncia alla precedente ritenendo quella modificata come più rispondente ai propri interessi rispetto alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’unico limite che l’originario elemento identificativo soggettivo rimanga immutato e che la vicenda sostanziale sia eguale o quantomeno collegata a quella dedotta con l’atto introduttivo per evitare che la controparte possa essere sorpresa dalla modifica o vedersi diminuire le potenzialità difensive. Il ricorrente, dopo la domanda iniziale, aveva scoperto l’inadempimento contrattuale dei venditori tale da determinare la risoluzione del contratto. Pertanto, l’azione di manutenzione con riduzione del prezzo iniziale aveva dovuto cedere il passo all’accertamento della risoluzione ex art. 1453 c.c. per grave inadempimento ovvero per vendita di aliud pro alio.

Tale motivo è fondato, con le precisazioni, riportate nel capitolo successivo, con conseguente cassazione della pronuncia della Corte di Appello veneziana e rinvio alla stessa in diversa composizione.

QUESTIONI

[1] L’art. 183 comma 6 c.p.c. prevede la possibilità di modificare o precisare le domande già proposte nel corso della prima udienza o entro il termine perentorio di 30 giorni, con il deposito della prima memoria. La giurisprudenza inizialmente escludeva la possibilità di modificare gli elementi oggettivi della domanda, ritenendo che ciò integrasse una inammissibile mutatio libelli (Cass., sez. 2, n. 7579/2007); ma con la sentenza delle Sezioni Unite n. 12310/2015, tale orientamento è stato superato ed è stata ammessa anche la modifica del petitum e/o della causa petendi della domanda originariamente formulata, purché rimanga immutata la situazione sostanziale dedotta in giudizio e non sia determinata alcuna compromissione delle potenzialità difensive della controparte o l’allungamento dei tempi del processo. Il criterio per distinguere le domande solo precisate e, dunque, consentite da quelle nuove non consentite è dato dalla relazione con la quale queste si pongono rispetto alla domanda originariamente formulata. Le domande che si limitano a precisare si pongono essenzialmente in un rapporto di alternatività rispetto alla domanda originaria, sostituendosi ad essa; al contrario, le domande nuove sono domande ulteriori e aggiuntive che comportano un ampliamento del thema decidendum (v. Cass., SS.UU. n. 22404/2018).

Nella citata sentenza n. 12310/2015 delle Sezioni Unite si è precisato, infatti, che la differenza tra le domande “nuove” implicitamente vietate – in relazione alla eccezionale ammissione di alcune di esse – e le domande “modificate” espressamente ammesse non sta nel fatto che in queste ultime le “modifiche” non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive”, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali – , se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività.

Ridurre la modificazione ammessa ad una sorta di precisazione o addirittura di mera diversa qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto (per la quale, come già precisato, neppure sarebbe necessaria un’apposita previsione e addirittura la concessione di termini e “controtermini”) significherebbe infatti, contro la lettera e la logica della norma, costringere la parte che abbia meglio messo a fuoco il proprio interesse e i propri intendimenti in relazione ad una determinata vicenda sostanziale – eventualmente anche grazie allo sviluppo dell’udienza di comparizione – a rinunciare alla domanda già proposta per proporne una nuova in un altro processo, in contrasto con i principi di conservazione degli atti e di economia processuale, ovvero a continuare il processo perseguendo un risultato non perfettamente rispondente ai propri desideri ed interessi, per poi eventualmente proporre una nuova domanda (con indubbio spreco di attività e risorse), dinanzi ad un altro giudice il quale dovrà conoscere della medesima vicenda, sia pure sotto aspetti in parte dissimili, con effetti incidenti negativamente: sulla “giustizia” sostanziale della decisione (posto che essa può essere meglio assicurata se sono veicolati nel medesimo processo tutti i vari aspetti e le possibili ricadute della medesima vicenda sostanziale ed “esistenziale”, evitando di fornire al giudice la conoscenza di una realtà sostanziale artificiosamente frammentata con l’effetto di determinarne una visione parziale); sul rischio di giudicati contrastanti; sulla ragionevole durata dei processi, valore costituzionale da perseguire anche nell’attività di interpretazione delle norme processuali da parte del giudice. Peraltro, oltre a rimanere ovviamente immutato rispetto alla domanda originaria l’elemento identificativo soggettivo delle persone, la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque essere a questa collegata, regola sicuramente ricavabile da tutte le indicazioni contenute nel codice in relazione alle ipotesi di connessione a vario titolo, ma soprattutto se si considera che la domanda modificata si presenta certamente connessa a quella originaria quanto meno per “alternatività”, rappresentando quella che, a parere dell’attore, costituisce la soluzione più adeguata ai propri interessi in relazione alla vicenda sostanziale dedotta in lite. Né l’interpretazione proposta rischia di allungare i tempi del processo nel quale la modifica della domanda interviene, posto che: la domanda “modificata” sostituisce la domanda iniziale e non si aggiunge ad essa; la modifica interviene pur sempre nella fase iniziale del giudizio di primo grado, prima dell’ammissione delle prove; la modifica – quale ne sia la portata – non potrebbe giammai comportare tempi superiori a quelli già preventivati dal medesimo art. 183 c.p.c., laddove prevede che il giudice, su richiesta delle parti, conceda una serie di termini predeterminati.

E neppure può ritenersi che una simile interpretazione della portata della modificazione ammessa possa “sorprendere” la controparte ovvero mortificarne le potenzialità difensive perché: l’eventuale modifica avviene sempre in riferimento e connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è stata chiamata in giudizio; la parte sa che una simile modifica potrebbe intervenire a norma della disciplina processuale vigente, sicché non si trova rispetto ad essa come dinanzi alla domanda iniziale; alla suddetta parte è in ogni caso assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche sul piano probatorio.

Ciò precisato e venendo al caso di specie, la domanda di risoluzione per grave inadempimento o aliud pro alio proposta dai ricorrenti è sostitutiva di quella di riduzione del prezzo per vizi del bene ex art. 1492 c.c. Peraltro, il citato art. 1492 c.c. in materia di vendita, stabilisce l’irrevocabilità della scelta operata con la domanda giudiziale tra la risoluzione del contratto e la riduzione del prezzo solo nella misura in cui i vizi del bene compravenduto sui quali si fonda la domanda siano gli stessi. Infatti, il principio electa una via non datur recursus ad alteram stabilito dall’art. 1492 c.c., trova il suo limite nella identità del vizio fatto valere. Diversamente, nell’ipotesi in cui emergano ulteriori e diversi vizi o difetti del bene tali da comportare un distinto e più grave inadempimento deve ammettersi la possibilità per l’acquirente di proporre una domanda di risoluzione del contratto anche dopo aver inizialmente chiesto la riduzione del prezzo, o come nel caso in esame di modificare la domanda con la memoria ex art. 183 c.p.c. In altri termini, una modifica della domanda deve ritenersi ammissibile nella misura in cui l’inadempimento del venditore sul quale si fonda la richiesta di risoluzione del contratto si fondi su vizi ulteriori e diversi da quelli proposti con la domanda originaria ex art. 1492 c.c. In tal caso, sussistono i presupposti richiamati dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, ovvero oltre all’identità soggettiva delle parti, anche l’identità del contratto e la complessiva vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo. Inoltre, come evidenziato dai ricorrenti, la domanda modificata si presenta certamente connessa a quella originaria quanto meno per “alternatività”, rappresentando quella che, a parere dell’attore, costituisce la soluzione più adeguata ai propri interessi in relazione alla vicenda sostanziale dedotta in lite senza che ciò comporti alcuna lesione al diritto di difesa della controparte.

Dunque, la Corte d’Appello aveva errato nel ritenere inammissibile la domanda di risoluzione proposta con la memoria ex art. 183 c.p.c. in sostituzione di quella di riduzione dei vizi e la sentenza sul punto merita di essere cassata. Spetterà al giudice del rinvio esaminare la suddetta domanda al fine di valutare se sussista o meno il grave inadempimento dedotto dai ricorrenti, restando impregiudicato il merito della stessa.

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