2 Luglio 2024

Il committente che recede dall’appalto ha diritto al risarcimento del danno

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. II, 8 gennaio 2024, n. 421 – Pres. Di Virgilio – Rel. Trapuzzano

Parole chiave: Appalto – Recesso del committente – Azione di risoluzione e risarcimento danni – Ammissibilità – Termini previsti dall’art. 1667 c.c. – Applicabilità – Esclusione

[1] Massima: In tema di appalto, qualora il committente eserciti il diritto unilaterale di recesso ex art. 1671 c.c., non è preclusa la sua facoltà di invocare la restituzione degli acconti versati e il risarcimento dei danni subiti per condotte di inadempimento verificatesi in corso d’opera e addebitabili all’appaltatore; in tale evenienza, la domanda risarcitoria non è sottoposta alla disciplina di cui alla garanzia speciale per le difformità e i vizi dell’opera e ai conseguenti termini di decadenza e di prescrizione previsti dall’art. 1667 c.c., posto che tale disciplina esige necessariamente il totale compimento dell’opera.

Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1453, 1667, 1671

CASO

La proprietaria di un immobile appaltava a un’impresa l’esecuzione di lavori di ristrutturazione, che non venivano ultimati perché, prima della loro conclusione, la committente comunicava la volontà di recedere dal contratto.

L’impresa agiva quindi in giudizio per ottenere l’indennizzo previsto dall’art. 1671 c.c.; la committente, costituendosi, chiedeva, in via riconvenzionale, che venisse accertata la risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatrice e che quest’ultima fosse condannata alla restituzione degli acconti percepiti e al risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Roma, ritenendo che il contratto d’appalto si fosse sciolto per iniziativa unilaterale della committente e che ciò, pur ostando alla declaratoria di risoluzione del contratto, non escludesse il diritto al risarcimento per l’inadempimento commesso dall’appaltatrice prima del recesso, lo dichiarava nondimeno prescritto per decorso del termine biennale di cui all’art. 1667 c.c.

La Corte d’appello di Roma, adita dalla committente, accoglieva il gravame e, in parziale riforma della sentenza di prime cure, riduceva l’importo spettante all’appaltatrice, per effetto delle detrazioni riconducibili ai ravvisati inadempimenti commessi da quest’ultima.

La sentenza di secondo grado era impugnata con ricorso per cassazione.

SOLUZIONE

[1] La Corte di Cassazione ha affermato che il recesso del committente, provocando lo scioglimento – con efficacia ex nunc – del contratto d’appalto, preclude che possa esserne dichiarata la risoluzione per inadempimento dell’appaltatore, ma, qualora l’inadempimento si sia verificato in un momento antecedente all’esercizio del recesso, non impedisce al committente di ottenere la restituzione degli acconti versati e il risarcimento dei danni subiti, senza che il relativo diritto sia assoggettato al regime di decadenza e di prescrizione stabilito dall’art. 1667 c.c., che presuppone l’integrale compimento dell’opera.

QUESTIONI

[1] Il contratto, una volta concluso, può essere sciolto unilateralmente, per effetto del recesso di un contraente, solo in quanto la relativa facoltà sia stata attribuita a una o a entrambe le parti, eventualmente dietro la prestazione di un corrispettivo (art. 1373 c.c.).

In materia di appalto, tuttavia, il committente ha diritto ex lege di recedere ad nutum – ossia indipendentemente dalla sussistenza di una giusta causa o dalla ricorrenza di determinati presupposti – e in qualsiasi momento, purché l’opera non sia stata ultimata; un tanto è previsto dall’art. 1671 c.c., che, per non sacrificare oltremodo la posizione dell’appaltatore, riconosce a quest’ultimo il diritto di percepire un’indennità, pari al corrispettivo dei lavori eseguiti, alle spese sostenute e al mancato guadagno.

Il recesso del committente provoca lo scioglimento ex nunc del contratto: pertanto, il committente che si sia avvalso della facoltà attribuitagli dall’art. 1671 c.c. non può invocarne la risoluzione per inadempimento dell’appaltatore, visto che non può essere dichiarata la risoluzione di un contratto che è già venuto meno.

Al committente che abbia manifestato la volontà di recedere è dunque preclusa la proposizione della domanda di risoluzione del contratto; di converso, la proposizione della domanda di risoluzione (che, se accolta, provoca lo scioglimento del contratto con efficacia retroattiva) esclude la possibilità di invocare il recesso, se non, al limite, in via subordinata (vale a dire, per il caso di rigetto della domanda di risoluzione).

Come affermato dalla Corte di cassazione, il fatto che il committente abbia esercitato il recesso non gli impedisce di pretendere la restituzione degli acconti versati e il risarcimento dei danni provocati dall’inadempimento dell’appaltatore verificatosi prima del recesso, anche al fine di ottenere una proporzionale riduzione dell’indennizzo dovuto ai sensi dell’art. 1671 c.c.

La proponibilità della domanda di risarcimento danni da parte del committente, peraltro, non è ostacolata dal mancato esperimento dello speciale rimedio previsto dall’art. 1662, comma 2, c.c. (in virtù del quale, quando si accerta che l’esecuzione dell’opera non procede secondo quanto convenzionalmente stabilito, può essere assegnato all’appaltatore un congruo termine per conformarsi, trascorso inutilmente il quale il contratto si risolve di diritto), giacché esso non rappresenta un onere, ma una facoltà, il cui esercizio è esclusivamente finalizzato a provocare l’automatica risoluzione del rapporto conseguente all’inutile decorso del termine fissato con la diffida a regolarizzare le opere già eseguite.

In definitiva, quindi, si può affermare che:

  • il committente è legittimato a recedere dal contratto d’appalto in qualsiasi momento, a prescindere dalle ragioni che lo hanno indotto ad avvalersi della facoltà attribuitagli dalla legge, che restano pertanto insindacabili;
  • quando il contratto d’appalto si sia sciolto (con efficacia ex nunc) in conseguenza del recesso del committente, non può più esserne chiesta e dichiarata la risoluzione per inadempimento;
  • ciò, d’altra parte, non significa che il committente non possa chiedere la restituzione degli acconti versati e il risarcimento dei danni ascrivibili all’inadempimento dell’appaltatore commesso prima dello scioglimento del contratto.

A questo proposito, i giudici di legittimità hanno precisato che le domande restitutorie e risarcitorie del committente non sottostanno alla disciplina speciale in tema di garanzia per i vizi (e al conseguente regime decadenziale e prescrizionale) dettata dall’art. 1667 c.c.

Infatti, la responsabilità per difformità o vizi disciplinata da detta norma (nonché dai successivi artt. 1668 e 1669 c.c.) non è invocabile nel caso di mancata ultimazione dei lavori (quand’anche l’opera, per la parte eseguita, risulti difforme o viziata), o di rifiuto della consegna o di ritardo nella consegna rispetto al termine pattuito.

Pertanto, quando l’appaltatore non abbia portato a termine l’esecuzione dell’opera commissionata, restando inadempiente rispetto all’obbligazione assunta con il contratto, la disciplina applicabile nei suoi confronti è quella generale in materia di inadempimento contrattuale, visto che la speciale garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1668 c.c. trova applicazione nella diversa ipotesi in cui l’opera sia stata portata a termine, ma presenti dei difetti.

Da ciò deriva che, anche qualora il rapporto si sia sciolto in conseguenza del recesso esercitato dal committente, la pretesa di quest’ultimo di ottenere il risarcimento dei danni conseguenti a fatti di inadempimento avvenuti in corso d’opera, prima che fosse esercitato il recesso, ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 1453 c.c., sicché non trovano applicazione i termini di decadenza e di prescrizione stabiliti dalla disciplina speciale.

Convince di ciò il fatto che quest’ultima postula la definitività della difformità dell’opera appaltata rispetto alle prescrizioni pattuite o alle regole tecniche alle quali la stessa avrebbe dovuto conformarsi, che, a propria volta, implica la realizzazione, l’ultimazione e la consegna dell’opera stessa, visto che, prima di tale momento, essa rimane nell’effettiva e giuridica disponibilità dell’appaltatore, che può quindi ancora apportarvi le modifiche necessarie per renderla conforme.

Al contrario, quando l’opera non sia stata ultimata allorché il rapporto si è sciolto, non può essere effettuata alcuna prognosi sul completamento e sulla perfetta realizzazione alla scadenza contrattuale: in tali casi, dunque, non potrà invocarsi il regime della garanzia speciale per le difformità e i vizi, ma il regime ordinario della risoluzione per inadempimento.

Tant’è vero che, in presenza di difformità o vizi rilevati durante l’esecuzione dell’opera, non ancora definitivi e, quindi, astrattamente sanabili nel prosieguo dei lavori, il committente può avvalersi della facoltà prevista dall’art. 1662, comma 2, c.c., che prevede, quale conseguenza della mancata conformazione dell’appaltatore alle prescrizioni impartitegli, la risoluzione dell’appalto.

In definitiva, non può equipararsi la difettosità dell’opera consegnata una volta ultimata (cui si applica la disciplina speciale dettata dagli artt. 1667 e 1668 c.c.) e la situazione in cui i lavori si siano definitivamente interrotti per effetto del recesso del committente (nel quale caso tale disciplina speciale non si applica nemmeno agli inadempimenti verificatisi prima del recesso, che restano assoggettati alle regole previste dagli artt. 1453 e seguenti c.c.).

L’applicabilità anche in materia di appalto della disciplina generale sulla risoluzione del contratto, del resto, è stata affermata a più riprese dalla giurisprudenza, secondo cui:

  • l’appaltatore, a fronte dell’inosservanza dell’obbligo di corrispondere acconti sul corrispettivo da parte del committente, può avvalersi dell’eccezione di inadempimento e non proseguire le opere commissionate (Cass. civ., sez. II, 24 ottobre 2022, n. 31387);
  • il committente, a sua volta, può legittimamente rifiutare o subordinare il pagamento del corrispettivo all’eliminazione dei vizi dell’opera, invocando l’eccezione di inadempimento, purché il rifiuto di adempiere non sia contrario a buona fede. Da questo punto di vista, in presenza di un rifiuto opposto dal committente sia al pagamento del prezzo prima della rimozione dei vizi da parte dell’appaltatore, sia alla proposta di eliminazione dei difetti da questi avanzata dopo la consegna delle opere, dovrà valutarsi comparativamente il comportamento delle parti e accertare se sia contraria a buona fede la mancata cooperazione del committente rispetto al rimedio proposto dall’appaltatore, mentre quando il committente alleghi i difetti dell’opera al fine di conseguire il rigetto della domanda dell’appaltatore volta al pagamento del corrispettivo, senza invocare alcuno dei rimedi previsti dall’art. 1668 c.c., occorre valutare l’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, accertando se la spesa necessaria per eliminare i vizi dell’opera sia proporzionata all’importo che il committente rifiuta di corrispondere all’appaltatore (Cass. civ., sez. II, 24 ottobre 2022, n. 31378).

Peraltro, in caso di risoluzione del contratto d’appalto per causa imputabile al committente, allorché l’opera parzialmente eseguita non possa essere restituita in natura all’appaltatore, questi ha diritto, a titolo risarcitorio, al pagamento del corrispettivo originariamente pattuito, sulla cui base si era determinato a concludere il contratto, comprensivo dell’importo dovuto per revisione prezzi (che, se pattiziamente prevista, fa parte del corrispettivo pattuito), indipendentemente dal fatto che i beni siano stati consegnati, in tutto o in parte, al committente, dal momento che la domanda o la dichiarazione di risoluzione comporta la rinuncia allo scambio delle prestazioni, ma non al lucro sperato dalle parti sulla base del contratto risolto per fatto imputabile a una di esse (Cass. civ., sez. II, 17 luglio 2023, n. 20460).

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