Cessione di quote: sulla legittimità della clausola statutaria che demanda ad arbitro la quantificazione del prezzo di trasferimento
di Mario Cascavilla Scarica in PDFTrib. Bologna, sentenza dell’11 luglio 2019, n. 1601.
Parole chiave: clausola di prelazione – prelazione impropria – trasferimento delle quote – arbitratore – nullità delibera assembleare.
MASSIMA
“È legittima la delibera assembleare che introduca nello statuto societario una clausola di prelazione che preveda, per il caso di disaccordo tra i soci sul prezzo del trasferimento delle quote, la possibilità di nominare un arbitratore, con la conseguenza che: se il prezzo indicato dal proponente sia superiore al valore stabilito dall’arbitratore, la proposta si intenderà fatta per un prezzo pari a quest’ultimo valore; se il prezzo indicato dal proponente sia inferiore, la proposta si intenderà fatta per tale prezzo”.
Disposizioni applicate: art. 2355 bis c.c. – art. 1349 c.c. – art. 2437 ter, co. 2°, c.c..
Danno impulso al giudizio de quo due soci di una società di capitali chiedendo l’annullamento di 4 delibere assembleari, in relazione ad ognuna vengono addotti motivi di invalidità a sé stanti.
Per quanto qui di interesse, gli attori hanno chiesto (anche) la declaratoria di nullità di una delibera assembleare, adottata con la partecipazione ed il voto favorevole del socio (società di capitali) titolare del 55% del capitale sociale, con la quale è stata introdotta nello statuto una clausola di prelazione avente la seguente struttura:
A. in ipotesi di disaccordo tra i soci circa il prezzo di trasferimento della quota è prevista la possibilità di nominare un arbitratore;
B. l’arbitratore dovrà determinare il prezzo con esclusivo riferimento al valore effettivo della società;
C. se il prezzo indicato dal socio proponente sia superiore al valore stabilito dall’arbitratore la proposta si intende fatta per un prezzo pari a quest’ultimo valore.
D. se il prezzo indicato dal socio proponente sia inferiore al valore stabilito dall’arbitratore la proposta si intende fatta per tale prezzo.
La clausola di prelazione si inseriva in un contesto statutario nel quale era altresì previsto un meccanismo tale per cui:
1. la proposta del socio alienante sarebbe stata irrevocabile ma, una volta ricevuta la decisione dell’arbitratore, allo stesso sarebbe stato consentito di revocarla;
2. il perfezionamento del trasferimento sarebbe avvenuto con comunicazione da dare agli amministratori della società entro 30 giorni dalla comunicazione della proposta;
3. il potenziale acquirente avrebbe potuto richiedere la nomina di un arbitratore entro 60 giorni dal ricevimento della proposta da parte dell’alienante.
In questo scenario, gli attori hanno sostenuto in giudizio che la clausola introdotta nello statuto dovesse intendersi di mero gradimento, quindi inefficace poiché non erano previsti i correttivi indicati ex art. 2355 bis c.c., co. 2°, in tema di limiti alla circolazione delle azioni.
Ad avviso degli attori, peraltro, sarebbe risultata incongruente e contraddittoria la contestuale previsione statutaria di (i) un termine di 30 giorni (decorrente dal momento della proposta) per la conclusione del negozio traslativo e la previsione di (ii) un termine di 60 giorni entro il quale il socio avrebbe potuto nominare un arbitratore; ciò avrebbe comportato una violazione dei principi generali in materia di conclusione ed efficacia del contratto, ex artt. 1321 e 1372 c.c..
Orbene, ad avviso del Tribunale la previsione della facoltà di demandare la determinazione del prezzo della cessione ad un arbitratore, vincolante nell’ipotesi di individuazione di un importo inferiore a quello indicato dal proponente, avrebbe messo al riparo i soci titolari del diritto di prelazione da eventuali operazioni fraudolente, impedendo al proponente di concordare simulatamente con un terzo offerente un prezzo artatamente sopravvalutato, così vanificando l’esercizio del diritto di prelazione da parte degli altri soci.
Il Tribunale rileva poi che, attesa la formulazione della clausola, la determinazione del prezzo da parte dell’arbitratore sarebbe avvenuta secondo un metodo conforme a quello legale di cui all’art. 2437 ter, co. 2°, c.c. (richiamato dall’art. 2355 bis) e non rimessa al suo mero arbitrio. Una previsione in questo senso sarebbe dunque di per sé sufficiente ad arginare il rischio di una determinazione del prezzo manifestamente iniqua o erronea, che, anche in ipotesi, troverebbe rimedio ai sensi dell’art. 1349 c.c..[1]
Anche la lettura della clausola nella parte in cui concede, una volta ricevuta la comunicazione della decisione dell’arbitratore, la facoltà di revocare l’offerta, porta i giudici concludere per la sua legittimità.
Quanto ai motivi di biasimo dei termini per la conclusione del negozio e per la nomina dell’arbitratore, i giudici osservano che tale previsione non avrebbe comportato una violazione della disciplina relativa alla conclusione del contratto, né il meccanismo sarebbe contraddittorio o illogico.
Nel pieno rispetto della previsione codicistica di cui all’art. 1326 c.c. (“il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione. L’accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito”), l’esercizio della prelazione entro il termine di 30 giorni comporta il perfezionamento del contratto al prezzo indicato dall’alienante[2]. Tuttalpiù, il termine di 60 giorni entro cui richiedere la nomina di un arbitratore sarebbe a disposizione di quei soci che, non essendosi avvalsi del diritto di prelazione, potranno, solo laddove non vi sia stato un preventivo accordo di trasferimento già concluso, invocare la determinazione del prezzo.
Accertata la legittimità della clausola, il Tribunale rigetta la richiesta di annullamento della delibera avanzata dagli attori.
Probabilmente si sarebbe giunti a conclusioni di segno opposto (rectius: alla qualificazione della clausola come di mero gradimento e conseguentemente alla sua soggezione ai limiti imposti dall’art. 2355 bis c.c.), laddove si fosse specificato un prezzo di trasferimento tale per cui il socio, intenzionato ad uscire dalla società, avesse dovuto scegliere tra non cedere, o cedere a prezzo vile. Infatti, il fatto che una clausola imponga un significativo sacrificio economico al socio che voglia cedere la propria partecipazione non vale a differenziarla in modo giuridicamente rilevante da quelle clausole che subordinano la cessione di quote o di azioni al mero gradimento degli altri soci[3].
[1] La conclusione è analoga a quella già espressa nella Massima n.13 del Consiglio Notarile di Firenze, Pistoia e Prato, con la quale si era disposto che “una clausola che limiti significativamente, o addirittura vieti, l’alienazione delle azioni e la cui efficacia temporale non sia limitata o superi i cinque anni, è efficace solo qualora assicuri al socio la possibilità di realizzare per le sue azioni almeno il valore che deriva dall’applicazione dei criteri di cui all’art.2437 ter o, allorchè essa precluda un progettato trasferimento a terzi, quando assicuri al socio la possibilità di realizzare lo stesso prezzo eventualmente offerto dal terzo, anche se in ipotesi inferiore al valore di cui all’art.2437 ter”.
[2] In argomento, il Tribunale di Venezia (con sentenza del 23 settembre 2010, in Giur. It., 2011) ha precisato che l’eventuale variazione del prezzo susseguente all’attivazione della procedura arbitrale non incide sull’esercizio del diritto di prelazione, già perfettamente compiutosi prima della richiesta stima del valore delle quote.
[3] Sul punto, Massima n. 85 del Consiglio Notarile di Milano, 15 novembre 2005.