29 Giugno 2021

Caducazione del titolo esecutivo e ricorso monitorio del debitore esecutato per la ripetizione delle somme

di Valentina Scappini, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione civile, terza sez., sentenza, 9 luglio 2020, n. 14601, Pres. De Stefano; Rel. D’Arrigo.

Nel caso di azione esecutiva intrapresa in forza di un titolo giudiziale provvisoriamente esecutivo, la caducazione dello stesso in epoca successiva alla fruttuosa conclusione dell’esecuzione forzata legittima il debitore che l’abbia subita a promuovere nei confronti del creditore procedente un autonomo giudizio per la ripetizione dell’indebito che, avendo ad oggetto un credito fondato su prova scritta, può assumere le forme del procedimento d’ingiunzione.

CASO

Il Tribunale di Rieti concedeva un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo del valore di lire 142.188.305,00 (oggi € 73.434,13) a favore di P.G. e nei confronti di un condominio, che proponeva opposizione.

Nel frattempo, P.G. procedeva ad eseguire detto decreto instaurando due procedure esecutive presso terzi, fruttuosamente portate a termine e che facevano conseguire al creditore la somma complessiva di € 83.671,55.

All’esito del giudizio di opposizione, il Tribunale di Rieti diminuiva il credito di P.G. ad € 40.000,00, statuizione che era confermata anche in grado d’appello.

Per conseguire la differenza ingiustamente pagata in sede esecutiva, il condominio, a sua volta, promuoveva ricorso monitorio ed otteneva un decreto ingiuntivo avverso P.G., che veniva – inutilmente – opposto da quest’ultimo.

P.G. impugnava la sentenza del Tribunale di Rieti e la Corte d’Appello di Roma, prendendo atto dell’adempimento nel frattempo intervenuto, revocava il decreto ingiuntivo opposto emesso a favore del condominio, compensando le spese legali.

P.G. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.

SOLUZIONE

La Suprema Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso, tutti incentrati sulla pretesa illegittimità dell’azione di ripetizione di indebito per il recupero delle somme già corrisposte al creditore procedente di un’azione esecutiva fondata su un titolo monitorio, che si rivelino non dovute solo in seguito alla revoca del decreto a conclusione del giudizio di opposizione.

Vengono, invece, accolti il quarto e quinto motivo di ricorso, in ordine al malgoverno, da parte della Corte di merito, dei principi dell’onere della prova nell’azione di ripetizione e nell’applicazione degli interessi di mora.

La Corte di Cassazione stabilisce che la revoca del decreto ingiuntivo opposto non determina la cessazione degli effetti dell’espropriazione presso terzi già fruttuosamente compiuta, ma dà luogo ad un distinto obbligo restitutorio, azionabile anche in via monitoria, in relazione al quale l’onere della prova del pagamento e dell’assenza di causa dello stesso è in capo a chi chiede la restituzione.

QUESTIONI

Con i primi tre motivi di ricorso, P.G. ha dedotto la pretesa inammissibilità dell’azione di ripetizione proposta dal condominio sulla base di molteplici ragioni.

Anzitutto, P.G. ripropone l’eccezione, non accolta dalla Corte di merito, secondo cui l’unico rimedio esperibile dal condominio sarebbe stata l’opposizione agli atti esecutivi avverso le ordinanze di assegnazione, mentre la domanda restitutoria sarebbe stata preclusa dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata.

P.G. sostiene che la definitività dell’ordinanza di assegnazione sarebbe incompatibile non solo con la revocabilità della stessa, ma anche con qualsiasi azione autonoma di restituzione, mentre l’unico rimedio sarebbe, come detto sopra, la tempestiva opposizione ex art. 617 c.p.c.

La Suprema Corte avalla, invece, la decisione della Corte d’Appello, che ha respinto la suddetta eccezione, ritenendo che le ordinanze di assegnazione non potessero essere opposte, dato che, al tempo, erano perfettamente congruenti con il titolo azionato in executivis e, quindi, legittime.

La Suprema Corte premette di essere ben consapevole del noto principio – adottato proprio dalla terza sezione – secondo cui il debitore espropriato non può esperire, dopo la chiusura dell’espropriazione, l’azione di ripetizione dell’indebito contro il creditore procedente per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità, per motivi sostanziali, dell’esecuzione forzata, dato che la legge, pur non attribuendo efficacia di giudicato al provvedimento conclusivo del procedimento esecutivo, sancisce tuttavia la irrevocabilità dei relativi provvedimenti, una volta che essi abbiano avuto esecuzione (art. 487 c.p.c.). Con il corollario che la proposizione dell’azione di ripetizione dopo la conclusione dell’esecuzione e la scadenza dei termini per le relative opposizioni sarebbe in contrasto con i principi ispiratori del sistema e con le regole specifiche sui modi e sui termini delle opposizioni esecutive, cosicché l’eventuale restituzione, successivamente all’esecuzione forzata, è correlabile solo ad una perdita di validità della procedura esecutiva legalmente accertata (cfr. ex multis, n. 2434/1969; n. 29347/2019; n. 4263/2019; n. 26927/2018; n. 20994/2018; n. 17371/2011; n. 26078/2005; n. 7036/2003).

Orbene, tale postulato va, secondo gli Ermellini, armonizzato con i principi in tema di esecuzione forzata in base a titolo giudiziale non definitivo, quale era il decreto ingiuntivo ottenuto da P.G. ed azionato esecutivamente, seppur nella sua provvisorietà e che, infatti, in seguito all’opposizione del condominio, è stato revocato dal Tribunale, che ha diminuito il debito dagli originari € 73.434,13 ad € 40.000,00.

Pertanto, la Suprema Corte afferma che qualora un titolo, solo provvisoriamente esecutivo ma ugualmente azionato a rischio del creditore procedente, venga meno in un momento successivo alla conclusione dell’espropriazione, gli atti esecutivi compiuti perdono efficacia in conseguenza della nullità che si determina con riguardo alla stessa esecuzione fondata sul titolo rivelatosi illegittimo.

Tuttavia, essendosi l’espropriazione, per quanto illegittima, già conclusa, non vengono in rilievo né il potere del giudice dell’esecuzione di revocare i propri provvedimenti ai sensi dell’art. 487, co. 1, c.p.c., né la necessità di proporre opposizione ex art. 617 c.p.c., i cui termini sono, ovviamente, già scaduti.

Ciò che si ha in questi casi è, invece, una sorta di “neutralizzazione” degli effetti dell’ordinanza di assegnazione, che legittima l’esperimento, da parte del soggetto passivo dell’esecuzione che voglia recuperare quanto gli è stato ingiustamente espropriato, dell’azione di ripetizione di indebito.

Ecco che, quindi, la Suprema Corte formula il seguente principio di diritto: “Soltanto in caso di azione esecutiva intrapresa in forza di un titolo giudiziale provvisoriamente esecutivo la caducazione dello stesso in un momento successivo alla fruttuosa conclusione dell’espropriazione forzata legittima il debitore che l’abbia subita a promuovere nei confronti del creditore procedente un autonomo giudizio di ripetizione di indebito, che, essendo fondato su prova scritta, può avere inizio anche mediante la presentazione di ricorso per decreto ingiuntivo”.

La stessa sorte (rigetto) ha il terzo, complesso, motivo di ricorso, con il quale P.G. ha censurato la violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., affermando, da una parte, che il condominio avrebbe dovuto formulare domanda di restituzione già in sede di opposizione al decreto ingiuntivo che ha originato la procedura esecutiva e che, non avendolo fatto, la domanda di ripetizione sarebbe preclusa, dall’altra, che tale domanda sarebbe stata implicita nella proposizione dell’opposizione e che, non essendosi il giudice di primo grado pronunciato sulla stessa e non avendola, il condominio, espressamente riproposta in appello (con conseguente formazione del giudicato interno), l’azione di ripetizione autonomamente intrapresa sarebbe ugualmente inammissibile.

Una simile argomentazione non trova il conforto della Suprema Corte, che ricorda come il diritto alla restituzione delle somme pagate in esecuzione di una sentenza provvisoriamente esecutiva, poi riformata in appello, sorge, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., per il solo fatto della riforma della sentenza e può essere fatto valere immediatamente, se del caso anche con procedimento monitorio. Questo principio trova applicazione, in via estensiva, anche nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, che si concludono con la revoca del decreto provvisoriamente esecutivo. In tali ipotesi, la domanda di restituzione può essere formulata davanti al giudice dell’opposizione, ovvero anche separatamente, come fatto dal condominio. In quest’ultimo caso, il relativo giudizio non deve essere sospeso in attesa della definizione di quello di opposizione, perché la restituzione non è subordinata al passaggio in giudicato della revoca del decreto (cfr. n. 30389/2019).

Il quarto e quinto motivo di ricorso, concernenti la violazione e falsa applicazione degli artt. 2033, 2697 e 2928 c.c. in tema di onere della prova, nonché degli artt. 1206, 1207, 1210, 1297 e 2033 c.c. sul decorso degli interessi di mora, sono, invece, accolti dalla Corte.

Ed infatti, la Corte d’Appello di Roma ha accolto la domanda di ripetizione d’indebito formulata dal condominio esclusivamente sulla base della (falsa) presunzione dell’effettivo incasso delle somme assegnate in sede esecutiva a P.G., il quale, dal canto suo, non aveva offerto la prova contraria di non aver mai percepito tali somme.

Gli Ermellini censurano tale capo della sentenza impugnata, evidenziando che l’ordinanza di assegnazione non ha efficacia solutoria e che la Corte di merito, imponendo a P.G. una sorta di onere negativo, ha illegittimamente sovvertito l’onere della prova e lo stesso principio di vicinanza alla prova, secondo cui negativa non sunt probanda.

Nella ripetizione di indebito opera, invero, il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore (il condominio) che è tenuto a dimostrare tanto l’avvenuto pagamento, quanto la mancanza di una causa che lo giustifichi (cfr. n. 30713/2018).

La natura pro solvendo dell’ordinanza di assegnazione (che si evince dall’art. 553, co. 1, c.p.c., secondo cui le somme sono assegnate al creditore procedente “salvo esazione”) non genera, dunque, alcuna presunzione di effettivo incasso.

Ne consegue, così, anche l’illegittimità della statuizione della Corte d’Appello di Roma sul diritto del condominio agli interessi moratori, dato che non risulta provato, da parte del condominio, che P.G. abbia effettivamente riscosso le somme poi rivelatesi non dovute.

La Corte di Cassazione, quindi, ha accolto il ricorso nel senso sopra precisato, rinviando alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, che dovrà pronunciarsi secondo i principi di diritto precisati nel presente arresto.

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