28 Novembre 2017

Brevi note in tema di arbitrato rituale nelle controversie in materia di lavoro

di Ginevra Ammassari Scarica in PDF

App. Roma, sez. lav., 26 maggio 2017

ArbitratoLavoro parasubordinatoMediazione atipica Competenza funzionale Insussistenza (Cod. civ., art. 1754; cod. proc. civ., art. 409, 427, 817, 828, 829).

[1] Qualora sia controversa la qualificazione di un rapporto giuridico ai sensi dell’art. 409 c.p.c., sussiste la competenza funzionale del giudice del lavoro che, investito dell’impugnazione del lodo reso inter partes, è tenuto a vagliare la sussistenza degli indici del coordinamento, della continuità e della prevalente personalità della prestazione ivi disposti, anche ai fini dell’originaria compromettibilità in arbitri della controversia e del giudizio di ammissibilità dei motivi di appello formulati.

CASO

[1,] Nel caso in esame, la società Alfa impugnava innanzi alla seconda sezione Lavoro della Corte d’Appello di Roma il lodo che, reso ai sensi dell’art. 824 bis c.p.c., l’aveva condannata a corrispondere in favore di un procacciatore di affari il compenso pattuito tra le parti con apposita lettera di intenti.

Nell’articolare molteplici motivi di censura, la società ricorrente, in via preliminare, sosteneva la devoluzione del relativo giudizio di appello promosso ai sensi dell’art. 828 c.p.c. alla cognizione del giudice del lavoro, stante la natura lavorativa, seppur parasubordinata, del rapporto intercorso tra le parti; nel merito, deduceva l’erroneità del lodo impugnato in quanto aveva dichiarato la sussistenza del diritto al compenso del procacciatore d’affari nonostante quest’ultimo non fosse iscritto all’albo dei mediatori, così come prescritto dalla l. n. 39/1998. In ultimo, denunciava la nullità del lodo ai sensi dell’art. 829, 1° comma, n. 1, c.p.c., stante l’invalidità della relativa clausola compromissoria giacché inserita in un atto precontrattuale, in quanto tale non vincolante.

Resisteva in giudizio il procacciatore d’affari e, contestando la riconducibilità del rapporto dedotto in giudizio nell’alveo dell’art. 409, n. 3, c.p.c., concludeva per l’inammissibilità dei motivi di appello articolati dalla società, poiché volti al riesame nel merito della decisione assunta in sede arbitrale.

SOLUZIONE

[1] La Corte territoriale, nel vagliare la sussistenza degli indici della continuità, del coordinamento e del carattere prevalentemente personale dell’attività svolta dal procacciatore d’affari in favore della società appellante, esclude che il rapporto di mediazione atipica inter partes rechi natura lavorativa ex art. 409, n. 3, c.p.c. e, purtuttavia, se da un lato afferma la competenza funzionale del giudice del lavoro, dall’altro, riconosce l’originaria compromettibilità in arbitri della controversia ai sensi dell’art. 806, 2° comma, c.p.c.; pertanto, conclude per l’inammissibilità dei motivi di appello, giacché formulati dalla società ricorrente in violazione dell’art. 829, 1° comma, c.p.c.

QUESTIONI

Con la pronuncia in commento, la seconda sezione Lavoro della Corte di Appello di Roma, nel ritenere la corretta introduzione del giudizio de quo secondo le forme del rito lavoro, richiama quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che, seppur improntato alla risoluzione delle questioni di competenza ex art. 428 c.p.c., afferma che, qualora sia controversa la spettanza del compenso da corrispondere all’agente, ovvero al procacciatore d’affari, e, in ultimo, la stessa qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio alla stregua dell’art. 409 c.p.c., sussiste la competenza del giudice del lavoro, giacché tali questioni, attenendo al merito, sono irrilevanti ai fini processuali (così, Cass. 20 maggio 2013, n. 12188, Foro it., Rep. 2013, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 160).

Sul tema, occorre ribadire l’ontologica differenza che, nelle controversie in materia di lavoro, intercorre tra questioni di competenza e quelle relative al rito applicabile, seppur talvolta sovrapponibili e inevitabilmente connesse al merito delle controversia: mentre la prima è disciplinata dall’art. 828 c.p.c. che, secondo la giurisprudenza prevalente, riguarda il solo profilo della incompetenza per territorio inderogabile a norma dei criteri dettati dall’art. 413 c.p.c. (cfr. Cass. 12 gennaio 1998, n. 180, Foro it., 2000, I, 603, con nota di B. Capponi e 1° febbraio 1985 n. 1156, id., 1985, I, 689, con nota di C.M. Barone, nonché, in dottrina, F.P. Luiso, Il processo del lavoro, Torino,  1992, 79 e F. Carpi, Il regime dell’eccezione di incompetenza per materia ed il nuovo rito del lavoro, in Giur.it., 1977, 455; contra, v. L. Montesano- R. Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, 245 e A. Proto Pisani, Le controversie individuali di lavoro, Torino, 1993, 332, i quali estendono l’applicabilità dell’art. 428 c.p.c., in luogo dell’art. 38 c.p.c., anche alle questioni di competenza per materia); invece, l’errore sul rito applicabile – che si determina in base a quanto prospettato dall’attore nell’atto introduttivo (così, in giurisprudenza, Cass. 16 febbraio 1993, n. 1916, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 97; contra, in dottrina, v. A. Proto Pisani, Questioni di rito, in Le controversie in materia di di lavoro, Bologna, 1987, p. 353, il quale ritiene dirimente la qualificazione giuridica fornita dal giudice in ordine all’oggetto della controversia) – è disciplinato dagli artt. 426 e 427 c.p.c., i quali dispongono il mutamento dal rito ordinario al quello speciale e viceversa.

E ancora, mentre l’incompetenza deve eccepirsi, ovvero va rilevata ex officio dal giudice entro gli stringenti termini di cui all’art. 428 c.p.c., la cui operatività è subordinata all’applicabilità del rito speciale, il mutamento del rito, a norma del combinato disposto degli artt. 426, 427 e 439 c.p.c., può disporsi in ogni stato e grado del processo e, se omesso, non comporta la nullità della sentenza, né può integrare autonomo motivo di impugnazione, il quale è inammissibile per carenza di interesse, salvo che l’errore abbia determinato un concreto pregiudizio sul piano processuale (così Cass. 17 ottobre 2014, n. 22075, id., Rep. 2014, voce Procedimento civile, n. 83 e, nella giurisprudenza più risalente, 23 maggio 1983 n. 3570, Foro it., 1984, I, 226).

Pertanto, il mutamento del rito può intervenire anche in appello, così come l’errore sulle forme del procedimento ben può riguardare l’instaurazione del relativo giudizio di secondo grado, ponendosi la questione della tempestività dell’impugnazione introdotta con citazione in luogo del ricorso e viceversa, risolta secondo il principio di ultrattività del rito (sul tema, v. G. Costantino, L’appello, in AA.VV. Processo del lavoro, diretto da P. Curzio-L. Di Paola-R. Romei, 2017, 235).

Tanto premesso, la qualificazione del rapporto dedotto in giudizio alla stregua di un rapporto di mediazione atipica, ovvero di un rapporto di lavoro parasubordinato ex art. 409, n. 3, c.p.c., nel caso in esame, rileva non solo con riguardo alla competenza del giudice del lavoro, bensì al fine di vagliare l’originaria compromettibilità in arbitri della controversia e, dunque, la stessa ammissibilità dei motivi di appello articolati dalla società.

Infatti, a seguito della L. n. 40/2006 – che ha innovato il precedente assetto codicistico delineato dalla L. n. 25/1994 in tema di arbitrato in materia di lavoro – il 2° comma dell’art. 806 c.p.c., testualmente, dispone che le controversie ex art. 409 c.p.c. possono essere devolute alla cognizione arbitrale solo se previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva; tale disposizione deve leggersi congiuntamente al 4° e al 5° comma dell’art. 829 c.p.c., i quali ammettono la sindacabilità del lodo per violazione di norme di diritto attinenti al merito della controversia in materia di lavoro (rectius: ex art. 409 c.p.c.), altrimenti preclusa, nonché per violazione dei contratti collettivi.

L’interpretazione di tali norme pone numerose questioni, a cominciare dall’individuazione dell’ambito oggettivo di relativa applicazione, rappresentato da tutte le controversie di cui all’art. 409 c.p.c., ivi comprese, per ciò che qui rileva, quelle aventi ad oggetto rapporti di proccacciamento d’affari, qualora, a norma del n. 3, rechino i caratteri del coordinamento, della continuità e della prevalente personalità della prestazione (così, Cass. 8 agosto 1998, n. 7799, Foro it., Rep. 1998, Voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 71; con riguardo alla differenza tra il rapporto di procacciamento di affari e quello di agenzia, si segnala altresì Cass. 6 aprile 2000, n. 4327, Foro it., 2001, I, 607, n. G. Caputi; in dottrina, sul tema, v. C. Cecchella, L’arbitrato nel rapporto di lavoro, in L’arbitrato: profili sostanziali a cura di G.Alpa-F. Benatti, Torino, 1999, 960).

In secondo luogo, occorre ricostruire la portata del 2° comma dell’art. 806 c.p.c. là dove impone che la contrattazione collettiva contempli espressamente la deferibilità in arbitri delle suddette controversie: tale previsione rappresenta, infatti, un pre-requisito necessario, cui deve corrispondere una clausola compromissoria inserita nel contratto di lavoro individuale, ovvero un compromesso sottoscritto a lite già iniziata. Inoltre si discute in merito alla possibilità che le parti manifestino tale volontà (a formazione progressiva) attraverso lo scambio degli atti introduttivi del giudizio arbitrale, giacché l’art. 817, 2° comma, c.p.c. applicabile all’arbitrato rituale, nell’esigere il rilievo dell’inesistenza dell’accordo arbitrale nella prima difesa utile, sembrerebbe ammettere l’arbitrato per fatti concludenti (così F.P. Luiso, l’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro dopo la riforma del 1998, in Riv. arb., 1998, 434); diversamente, in tema di arbitrato irrituale, si pone l’opposto problema dell’ammissibilità di un recesso ex lege anche dopo l’introduzione del giudizio arbitrale (sul tema v. E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: bilancio e prospettive di riforma, in Riv. arb., 2008, 467).

Pertanto, la previsione richiesta dal 2° comma dell’art. 806 c.p.c. non si traduce nella necessità di una clausola compromissoria collettiva che, peraltro, non sarebbe di per sé idonea e sufficiente a fondare la compromettibilità in arbitri della controversia individuale, stante il difetto di legittimazione a disporre del diritto di azione dei singoli in capo alle associazioni sindacali, salvo l’espresso conferimento degli iscritti (cfr., in tal senso D. Borghesi, in Arbitrati speciali a cura di F. Carpi, Bologna, 2008, p. 11 e P.L. Nela, in Le recenti riforme del processo civile a cura di S. Chiarloni, Bologna, 2007, 1595; contra, v. C. Cecchella, L’arbitrato, Torino, 2005, 54).

Quid iuris, invece, se, a fronte di una convenzione arbitrale sottoscritta tra lavoratore e datore di lavoro, manchi tale previsione in sede di contrattazione collettiva? Sul tema, a seconda che si accolga l’impostazione che ritiene la naturale indisponibilità di tali diritti – che, in ragione della prevalente inderogabilità delle norme poste a presidio di questi ultimi, sembrerebbe confortata dalla giurisprudenza maggioritaria (contra, in dottrina, v. F. Santoro Passarelli, La transazione, Napoli, 1971, 123) – ovvero si ritenga l’operatività di un divieto in ordine alla compromettibilità di tali diritti, altrimenti disponibili, si registrano due diverse soluzioni: infatti, mentre taluni commentatori, in difetto di tale condizione di legittimità dell’arbitrato, convengono che l’invalidità di quest’ultimo debba eccepirsi entro il termine di cui all’art. 817, 2° comma c.p.c., pena la sanatoria del vizio (così E. Zucconi Galli Fonseca, cit., 464 e M. Bove, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, in Riv. arb., 2006, 225), altra parte della dottrina ritiene che la convenzione di arbitrato sottoscritta in assenza della relativa previsione in sede di contrattazione collettiva sia affetta da nullità assoluta e si traduca, non già nella nullità del lodo, bensì nella sua inesistenza in ragione della sostanziale equiparazione disposta dal 2° comma dell’art. 806 c.p.c. tra tali ipotesi e le controversie non arbitrabili (in tal senso cfr. G. Trisorio Liuzzi, L’arbitrato, in AA.VV. Processo del lavoro, diretto da P. Curzio-L. Di Paola-R. Romei, 2017, 600 e D. Borghesi, in D. Borgesi, L. De Angelis, Il processo del lavoro e della previdenza, Torino, 2013, 25).