Il bene comune può essere impiegato da ciascun condomino ma entro i limiti sanciti dall’art. 1102 c.c.
di Francesco Luppino, Dottore in legge e cultore della materia di diritto privato presso l'Università degli Studi di Bologna Scarica in PDFMassima: “In tema di condominio negli edifici, ai sensi dell’articolo 1102 c.c., è consentita al condomino la più ampia utilizzazione di un bene comune, ai fini della sistemazione di impianti diretti a soddisfare le esigenze di servizi indispensabili per il godimento di una propria unità immobiliare insistente nell’edificio condominiale, purché sia rispettata la proprietà esclusiva degli altri condomini e non sia violata la rispettiva sfera di facoltà e di diritti (Nel caso di specie, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto da un condomino, ritenendo incensurabile la sentenza impugnata con la quale il giudice d’appello aveva integralmente riformato la decisione del Tribunale il quale, a sua volta, aveva dichiarato, seppur in presenza di una delibera assembleare autorizzativa, l’illegittimità dell’allacciamento alla colonna condominiale della presa d’acqua e del relativo contatore realizzato dal dante causa del condomino convenuto in favore del proprio locale insistente nel medesimo edificio e conseguentemente aveva condannato questi ultimi alla rimozione)“.
CASO
La vicenda processuale in commento riguarda una controversia insorta tra alcuni condomini in virtù dell’allacciamento della presa d’acqua e del relativo contatore alla colonna condominiale ubicata nell’androne dello stabile ad opera di uno di essi.
Il condomino Tizio, proprietario di una unità immobiliare insistente nel condominio, ha citato a comparire dinanzi al Tribunale di Palermo il condomino Caio, proprietario di un locale ubicato al piano terra dell’edificio.
Nello specifico Tizio esponeva che l’assemblea condominiale aveva concesso al dante causa di Caio la mera facoltà di allacciare la presa dell’acqua del suo locale ed il relativo contatore alla colonna condominiale situata nell’androne del palazzo, ma con il preciso limite consistente nel fatto che tale concessione era comunque avvenuta a titolo di mera cortesia e sotto condizione di immediata rimozione dell’allacciamento, in ipotesi di vendita del suddetto locale.
L’attore esponeva, inoltre, che il convenuto non ha effettuato l’anzidetta rimozione nonostante si fosse verificata la condizione di cui sopra nonché fosse stato più volte invitato a rimuovere l’allacciamento.
Tizio ha chiesto al Tribunale adìto di dichiarare l’illegittimità dell’allacciamento e di condannare il convenuto alla rimozione.
Caio si è costituito in primo grado e ha chiesto di essere autorizzato a chiamare in causa Sempronio, dante causa del convenuto, nonché il rigetto della domanda attorea.
Anche Sempronio si è costituito in giudizio e ha dedotto che l’allacciamento contestato risaliva a parecchi anni prima e di essersi limitato solo di recente a collocare un autonomo contatore sulla colonna condominiale.
Sempronio ha chiesto di poter chiamare in causa anche il condominio medesimo, che però non si è costituito, rimanendo contumace.
All’esito dell’istruttoria, il Tribunale di Palermo ha accolto la domanda attorea, dichiarando l’illegittimità dell’allacciamento alla colonna condominiale della presa d’acqua e del relativo contatore del locale di proprietà del convenuto e conseguentemente ha condannato Caio e Sempronio alla rimozione.
Caio ha appellato la decisione del giudice di prime cure.
Si è costituito anche Sempronio.
Il condomino Tizio ha resistito in secondo grado per la conferma della decisione del Tribunale.
Invece, ancóra una volta non si è costituito il condominio.
La Corte d’Appello di Palermo ha accolto il gravame proposto da Caio e, in riforma dell’appellata statuizione del giudice di primo grado, ha rigettato le domande esperite in prime cure da Tizio, condannando quest’ultimo a rimborsare a Caio e Sempronio le spese del doppio grado.
In particolare, la corte del capoluogo siciliano ha evidenziato che dalle dichiarazioni testimoniali ha potuto desumere che il locale al piano terra è sempre stato munito di allacciamento idrico e che i contatori sono tutti collocati nell’androne condominiale.
Tizio, attore in primo grado, ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale sentenza sulla scorta di tre motivi.
Caio ha depositato controricorso chiedendo alla Suprema Corte di dichiarare inammissibile o comunque di rigettare il ricorso proposto da Tizio con il favore delle spese.
Sempronio e il condominio non hanno svolto difese.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 3890 dell’8 febbraio 2022, ha rigettato il ricorso, ritenendo i primi due motivi infondati e in conseguenza di tale conclusione non ha accolto neppure il terzo che essendo relativo alla liquidazione delle spese processuali risultava strettamente legato all’accoglimento dei primi due. Pertanto, la Corte ha condannato il ricorrente a rimborsare al controricorrente (il condomino Caio) le spese del giudizio di legittimità, rilevando, inoltre, la sussistenza in relazione al caso di specie, dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi dell’articolo 13, comma 1-bis, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, se dovuto.
QUESTIONI
Come si è avuto modo di anticipare, la controversia oggetto della sentenza in commento riguarda l’utilizzo, illegittimo a giudizio di Tizio, dell’allacciamento della presa d’acqua e del relativo contatore alla colonna condominiale ubicata nell’androne dello stabile ad opera di altro condomino, proprietario di un locale insistente al piano terra del medesimo edificio.
Nonostante il Tribunale di Palermo avesse inizialmente accolto le istanze di Tizio, la Corte d’Appello ha mutato radicalmente la decisione del giudice di prime cure, pertanto tale condomino ha proposto ricorso per Cassazione.
Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto che, in base al contenuto di alcune delibere assembleari, delle dichiarazioni rilasciate da alcuni testimoni nei precedenti gradi di giudizio e in virtù di alcuni contratti di fornitura d’acqua, in realtà il locale de quo non era inizialmente dotato di fornitura idrica ovvero allorquando era di proprietà di Sempronio. Da ciò l’errore in cui sarebbe incorsa la corte di merito; poichè secondo il punto di vista del ricorrente la corte avrebbe del tutto omesso l’esame di tali risultanze documentali e testimoniali, senza indicare quali dichiarazioni testimoniali ha reputato attendibili e quali no, omettendo, altresì, di indicare gli elementi sulla scorta dei quali ha ritenuto che il locale situato al piano terra fosse provvisto dell’allacciamento idrico.
Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto che la corte d’appello sarebbe incorsa in errore, allorché ha affermato che fosse Tizio il soggetto sul quale incombeva l’onere di provare che Sempronio e Caio avrebbero realizzato un nuovo allaccio idrico e che, sebbene quest’ultimo non si considerasse soggetto a tale onere probatorio, avrebbe comunque dato prova della realizzazione ex novo dell’allacciamento idrico nei precedenti giudizi di merito.
Con il terzo ed ultimo motivo il ricorrente ha denunciato la violazione o falsa applicazione dell’articolo 92 c.p.c. relativo alla condanna al rimborso alle spese del “doppio grado” sostenute dalle controparti.
I giudici del Supremo Collegio hanno ritenuto che i primi due motivi di ricorso fossero strettamente connessi tra di loro, perciò hanno svolto una disamina contestuale degli stessi.
Preliminarmente gli Ermellini hanno circoscritto il campo di indagine evidenziando che tanto nel giudizio di merito quanto in sede di legittimità non si disquisisca circa la contestazione della qualità di condomino di Caio, mentre, invece, il busillis della questione riguarda la possibilità del proprietario della porzione condominiale ubicata al piano terra ed ora di proprietà di Caio, di allacciarsi o meno alla colonna idrica dell’edificio condominiale.
Dunque, secondo i giudici di legittimità, la fattispecie in esame verte sul terreno dell’utilizzazione della cosa comune ai sensi dell’articolo 1102 c.c., riguardo i limiti dettatati dalla norma.
Tornando all’esame dei motivi di ricorso, più precisamente al primo motivo, ossia il fatto che Sempronio non abbia fornito alcuna prova del possesso ventennale della servitù di acquedotto e che in merito a ciò la corte territoriale non avrebbe in nessun modo motivato la propria decisione, gli ermellini hanno rammentato quello che ormai è un noto e più che consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in virtù del quale il riscontro dell’alterazione della cosa comune ovvero dell’impedimento per gli altri comunisti-condomini a farne pari uso secondo il loro diritto, è rimesso all’accertamento del giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità unicamente per omesso esame circa fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti[1].
Infatti, il principio insito nell’articolo 1102 c.c. prevede che il condomino, nell’uso della cosa comune non deve alterarne la destinazione ovvero impedire agli altri comunisti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; l’alterazione o la modificazione della destinazione del bene comune si ricollega all’entità e alla qualità dell’incidenza del nuovo uso, pertanto, l’utilizzazione anche particolare della cosa comune da parte del condomino è consentita quando la stessa non alteri l’equilibrio fra le concorrenti utilizzazioni, attuali o potenziali, degli altri comproprietari e non determini pregiudizievoli invadenze nell’ambito dei coesistenti diritti di costoro.
In relazione al caso oggetto della sentenza in commento, i giudici di legittimità hanno escluso che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato in virtù di quanto statuito nella sentenza n. 8053/2014 delle Sezioni Unite della Cassazione[2] possa sussistere rispetto alle motivazioni cui la corte del capoluogo siciliano ha ancorato il proprio dictum.
Per quanto, invece, riguarda il secondo motivo di impugnazione – asserita omessa erronea valutazione delle risultanze probatorie costituite e precostituite – gli ermellini hanno evidenziato che il mancato esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, nel caso in cui il fatto storico, rilevante al fine del decidere, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice del merito, anche se la sentenza da questi pronunciata non abbia poi dato conto di tutte le risultanze probatorie[3].
D’altra parte i giudici del Supremo Collegio hanno elogiato l’iter motivazionale che sorregge il dictum della Corte siciliana, considerato ineccepibile sul piano della correttezza giuridica.
L’orientamento preponderante della Cassazione sostiene ormai da tempo che «al singolo condomino è consentita l’esecuzione di un’opera implicante un maggior suo godimento della cosa comune soltanto se la realizzazione di essa non impedisca – e nella specie gli ermellini non hanno riscontrato alcun impedimento – agli altri condomini il compimento di opere, già previste o ragionevolmente prevedibili in base alla destinazione attuale della cosa comune ed alle prospettive offerte dalla sua natura, le quali permettano ai medesimi lo stesso od altro miglior uso di tale cosa, a vantaggio delle loro proprietà esclusive»[4].
Inoltre, è altrettanto noto e consolidato il principio per cui ai sensi dell’articolo 1102 c.c., è consentita al condomino la più ampia utilizzazione del bene comune, ai fini della collocazione di impianti diretti a soddisfare le esigenze di servizi indispensabili per il godimento di una propria unità immobiliare, purchè sia rispettata la proprietà esclusiva degli altri condomini e non sia violata la rispettiva sfera di facoltà e diritti (Cass. n. 2697/1982).
All’esito delle considerazioni logico-giuridiche sopra riportate, gli Ermellini hanno concluso per l’infondatezza e, pertanto, il rigetto del primo e del secondo motivo.
Conseguentemente non hanno neppure accolto il terzo motivo, ossia quello inerente le spese del “doppio grado” di giudizio, in quanto strettamente dipendente dall’accoglimento dei primi due.
Invero, a tal proposito, hanno evidenziato la regola atta all’individuazione del soccombente e alla conseguente pronuncia sulle spese in base alla quale tale operazione si compie applicando il principio di causalità, con la conseguenza che la parte tenuta a rimborsare alle altre le spese che sono state da queste anticipate nel processo è quella che, con il proprio comportamento tenuto fuori dal processo stesso, ovvero col dare corso al giudizio «o resistervi in forme e con argomenti non rispondenti al diritto, abbia dato causa al processo o al suo protrarsi»[5].
Pertanto, nel caso oggetto della sentenza in commento, in forza del principio sopra richiamato, che di pari passo con il principio della soccombenza regola il riparto delle spese di lite, il rimborso delle spese sostenute in giudizio dal terzo chiamato in causa (Sempronio) in garanzia dal convenuto è stato posto dai giudici della Cassazione a carico della parte attrice (Tizio), nel rispetto dell’orientamento giurisprudenziale in base al quale «qualora la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall’attore stesso e queste siano ritenute infondate, a nulla rilevando che l’attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda», mentre «il rimborso rimane invece a carico della parte che ha chiamato o fatto chiamare in causa il terzo, qualora – non è ciò che si è verificato nel caso di specie – l’iniziativa del chiamante, rivelatasi manifestamente infondata o palesemente arbitraria, concreti un esercizio abusivo del diritto di difesa»[6].
[1] Cass. civ., sez. II, sentenza 19 gennaio 2005, n. 1072.
[2] In tale pronuncia i giudici delle Sezioni Unite hanno espressamente escluso il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.
[3] Addirittura secondo Cass. n. 27415/2018 e Cass. n. 11892/2016, «il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legale da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione».
[4] Cass. civ., sez. II, sentenza 5 aprile 1982, n. 2087.
[5] Cass. civ., sez. III, sentenza 30 marzo 2010, n. 7625; Cass. civ., sez. III, sentenza 27 novembre 2006, n. 25141; Cass. civ., sez. III, sentenza 15 ottobre 2004, n. 20335.
[6] Cass. civ., sez. III, ordinanza 6 dicembre 2019, n. 31889; Cass. civ., sez. II, ordinanza 17 settembre 2019, n. 23123; Cass. civ., sez. II, sentenza 25 settembre 2019, n. 23948.
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