Atto processuale con estensione «p7m»: la Cassazione conferma che l’avvocato «non telematico» è fuori gioco
di Andrea Ricuperati Scarica in PDFCass. civ., Sez. VI – 3, ord., 25.9.2017, n. 22320 – Pres. Amendola – Rel. De Stefano
[1] Notificazioni in materia civile – a mezzo posta elettronica certificata – documento informatico – estensione «p7m» – mancata apertura del relativo file – irrilevanza (c.p.c. artt. 121 e 125 – l. 21.1.1994, n. 53, art. 3-bis – provv. d.g.s.i.a. 16.4.2014, artt. 12 e 19-bis)
[2] Notificazioni in materia civile – a mezzo posta elettronica certificata – documento informatico allegato all’atto del processo – originale formato su supporto analogico – firma digitale – CAdES – necessità (c.p.c., art. 125 – l. 21.1.1994, n. 53, art. 3-bis – provv. d.g.s.i.a. 16.4.2014, artt. 12, 13 e 19-bis)
[3] Giudizio di cassazione – ricorso – notificazione entro 60 giorni dalla pubblicazione della sentenza impugnata – copia autentica di quest’ultima, con la relazione di notifica – deposito in cancelleria – tardività – irrilevanza (c.p.c., artt. 325 e 369)
[1] È perfettamente valida la notificazione telematica di un atto redatto in forma di documento informatico con estensione «p7m», essendo onere dell’avvocato destinatario dotarsi degli strumenti necessari per aprire il relativo file e leggerne il contenuto.
[2] Il documento informatico risultante dalla trasformazione di un originale analogico ed allegato all’atto processuale, da notificarsi con modalità telematica, deve essere munito di firma CAdES e recare l’estensione «p7m».
[3] Il tardivo deposito della copia autentica notificata della sentenza impugnata non osta alla procedibilità del ricorso per cassazione, quando quest’ultimo sia stato notificato entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione di detta sentenza.
CASO
[1-2-3] L’avvocato Tizio interponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Lecco che aveva respinto la sua opposizione ex art. 617 c.p.c. relativa alla notificazione telematica di due precetti su sentenza esecutiva; opposizione, questa, incentrata sull’illeggibilità degli allegati al messaggio PEC di notifica, in quanto aventi estensione «p7m»; il ricorrente deduceva la violazione dell’articolo 3 della Costituzione, sotto il profilo dell’asserita disparità di trattamento fra le notifiche cartacee e quelle telematiche (queste ultime conoscibili solo ove il destinatario si doti di programmi di lettura/decodifica non imposti da alcuna norma), nonché dell’art. 24 della stessa Carta fondamentale, sul piano della lesione del diritto di difesa.
Veniva formulata proposta di decisione del procedimento in camera di consiglio ai sensi del primo comma dell’art. 380-bis c.p.c..
SOLUZIONE
[1-2-3] La Corte di Cassazione, dopo aver ritenuto procedibile il ricorso (giacché notificato entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza impugnata, pur avendo Tizio depositato la copia notificata di quest’ultima oltre il termine di cui ai commi l e 2 dell’art. 369 c.p.c.), lo ha respinto per manifesta infondatezza, alla luce delle seguenti osservazioni:
- il compendio delle disposizioni – anche di rango secondario – disciplinanti il processo civile telematico (“PCT”) ha reso in taluni casi indispensabile, per la formazione dell’atto, la sua notifica o lo sviluppo della fase processuale, l’impiego di particolari hardware e software; ciò ad esempio vale quando si debba notificare via PEC un documento formato in origine su supporto analogico e da firmarsi digitalmente, previa trasformazione in documento informatico: in tal caso esso dovrebbe avere la struttura CAdES e di conseguenza l’estensione «p7m», a garanzia della sua genuinità;
- il professionista legale, che sia destinatario di una notificazione telematica rispettosa delle regole legali e tecniche vigenti, è tenuto a dotarsi di mezzi idonei a consentire l’apertura e la lettura dei file contenenti i relativi atti; se non lo fa, imputi a sé le conseguenze dell’omissione, salva la prova – da fornirsi con rigore – del caso fortuito insito nell’incolpevole ed imprevedibile (malgrado l’uso della qualificata diligenza) malfunzionamento degli strumenti informatici in questione
- l’onere de quo è implicito – perché funzionale alla stessa operatività del nuovo regime – nella normativa sulle notifiche via PEC, costituente l’adeguamento della disciplina di quelle “tradizionali” al mutato contesto tecnologico.
QUESTIONI
[1] L’ordinanza in commento si colloca nel solco di una precedente pronunzia dello stesso Supremo Collegio (Cass., 20 luglio 2016, n. 14827, in questa Rivista, ed. 15.11.2016), la quale ha ritenuto inescusabile l’errore del difensore incorso in una decadenza processuale per non aver potuto – a causa della difettosa configurazione del proprio computer – aprire il file contenente un provvedimento allegato ad una comunicazione di cancelleria in formato ammesso dalle specifiche tecniche del processo civile telematico.
In quella vicenda, come nella presente, la Corte considera – ineccepibilmente, ad avviso di chi scrive – il possesso di nozioni istituzionali di informatica giuridica e degli annessi strumenti hardware e software un bagaglio ineludibile dell’avvocato contemporaneo, costituente elemento imprescindibile della sua professionalità.
V’è da chiedersi se un simile know-how sia esigibile anche dai soggetti diversi dai legali; al quesito ha dato risposta positiva una recente sentenza (Cass., 7 luglio 2016, n. 13917, in questa Rivista, ed. 30.8.2016), là ove ha giudicato regolare la convocazione del debitore in sede di istruttoria prefallimentare, eseguita via PEC, affermando che ogni imprenditore (individuale o collettivo), in quanto tenuto per legge a dotarsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, ha l’onere di provvedere con idonei strumenti e programmi alla diligente gestione e manutenzione della propria casella PEC, non potendosi altrimenti censurare la validità ed efficacia delle notificazioni telematiche a lui destinate né invocare la cd. forza maggiore per chiedere fondatamente la rinnovazione delle medesime.
Non constano invece precedenti di legittimità a proposito della posizione di chi – tipicamente il privato cittadino – non abbia l’obbligo di munirsi e mantenere attivo un indirizzo PEC inserito in pubblici elenchi; anche se è lecito ipotizzare che la crescente (con progressione geometrica) diffusione dell’uso di internet e dell’informatica abbia reso agevole anche per le persone tecnologicamente più arretrate l’accesso a strumenti in grado di aprire e leggere file di non immediata intelligibilità (si pensi, ad esempio, all’elenco dei programmi di verifica della firma digitale, reperibile all’indirizzo http://www.agid.gov.it/agenda-digitale/infrastrutture-architetture/firme-elettroniche/software-verifica).
[2] Il provvedimento qui commentato incorre nel medesimo errore commesso dall’ordinanza interlocutoria di rimessione al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite (Cass. civ., ord., 31 agosto 2017, n. 20672, in questa Rivista, ed. 31.8.2017), in quanto non è vero che l’estensione «p7m» sia imposta per quegli allegati informatici – la procura ad litem, ma pure la copia per immagine di un atto processuale formato in origine su supporto analogico (tale può essere quello introduttivo di una causa di cognizione, per il quale la forma «nativa digitale» non è obbligatoria nemmeno dinanzi al tribunale ed alla corte d’appello) – nascenti dalla conversione di documenti originali analogici: il combinato disposto degli articoli 12, comma 2, e 19-bis del provvedimento del 16 aprile 2014 (adottato dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia [“d.g.s.i.a.”] e contenente le specifiche tecniche previste dall’articolo 34, comma 1 del decreto del Ministro della giustizia in data 21 febbraio 2011 n. 44 [“regolamento PCT”]) è chiaro nell’ammettere la firma PAdES con pari valenza rispetto a quella CAdES; né è vero che l’estensione «p7m» offra maggiori garanzie di autenticità del documento, essendo assai semplice attribuire il suffisso «p7m» ad un file in realtà privo della firma digitale.
[3] Senz’altro condivisibile, infine, appare l’esclusione della sanzione dell’improcedibilità ex art. 369, primo e secondo comma, c.p.c. del ricorso, pur in mancanza di tempestivo deposito della copia autentica notificata del provvedimento impugnato, quando fra la pubblicazione di quest’ultimo e la notifica dell’impugnazione siano decorsi non più di sessanta giorni: in tal caso, infatti, «il collegamento tra la data di pubblicazione (indicata nel ricorso) e quella della notificazione del ricorso (emergente dalla relata di notificazione dello stesso) assicura comunque lo scopo, cui tende la prescrizione normativa, di consentire al giudice dell’impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività in relazione al termine di cui all’art. 325, secondo comma, cod. proc. civ.» (così, da ultimo, Cass., 14 luglio 2017, n. 17450; nello stesso senso si vedano Cass. civ., ord., 22 settembre 2015, n. 18645, e Cass., 10 luglio 2013, n. 17066).