Aspetti patrimoniali della famiglia in crisi: assegno di divorzio e non solo…
di Sara Scola Scarica in PDFLa “rivoluzione” giurisprudenziale in tema di assegno di divorzio rappresenta senz’altro una delle più importanti questioni che agitano l’odierno panorama dottrinale e giurisprudenziale all’interno del diritto di famiglia.
Così, se da lungo tempo le nostri corti, chiamate a verificare la sussistenza dei presupposti per accordare l’assegno di cui all’art. 5, co. 6, l. 898/1970, hanno accolto un concetto di “inadeguatezza dei mezzi” inteso come inadeguatezza «a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza che sia necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto, il quale può essere anche economicamente autosufficiente» (così Cass. Civ., S.U., 29.11.1990, n. 11490), è a tutti noto come, a maggio del 2017, la prima Sezione della Corte di Cassazione si sia discostata frontalmente e clamorosamente dalla pronuncia delle S.U., provocando un vero e proprio terremoto (v. U. Roma, Assegno di divorzio: dal tenore di vita all’indipendenza economica, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1003, nonché C. Rimini, Il nuovo assegno di divorzio: la funzione compensativa e perequativa, in Giur. it., 2018, 1855).
Difatti, la sentenza Cass. Civ., 10.5.2017, n. 11504, riferendosi a quanto statuito dalle S.U. nel 1990, afferma chiaramente che «a distanza di quasi ventisette anni, il Collegio ritiene tale orientamento (…) non più attuale», tenuto conto che il «parametro di riferimento (…) – cui rapportare il giudizio sull’“adeguatezza-inadeguatezza” dei “mezzi” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio e sulla “possibilità-impossibilità “per ragioni oggettive”” dello stesso di procurarseli – vada individuato nel raggiungimento dell’“indipendenza economica” del richiedente: se è accertato che quest’ultimo è “economicamente indipendente” o è effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto il relativo diritto».
Invero, già qualche anno prima una corte di merito (Trib. Firenze ord. 22.5.2013, n. 239) aveva tentato di “scardinare” il sistema, sollevando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, co.6, l.898/1970 (in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost.) proprio per la sua interpretazione di diritto vivente secondo cui al coniuge più debole dovrebbe essere garantito il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; tuttavia la questione era stata poi rigettata dalla Corte Costituzionale in considerazione del fatto che il parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio rileva per determinare in astratto il tetto massimo della misura dell’assegno (in termini di tendenziale adeguatezza al fine del mantenimento del tenore di vita pregresso), ma, in concreto, quel parametro concorre, e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso denunciato art. 5 (condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisione) (Corte Cost., 11.2.2015, n. 11).
Ad ogni buon conto, la questione torna a riproporsi poco tempo dopo, quando la Cassazione, con la succitata pronuncia del 2017, rompe con il passato e tenta di indicare una diversa via interpretativa per la corretta applicazione dell’art. 5, co. 6, l. 898/1970.
Peraltro, l’arresto della S.C. suscita interesse non solo per gli aspetti strettamente giuridici, ma anche per le affermazioni di carattere “etico” che ne fungono da presupposto e da ragionevole premessa.
Il matrimonio, ribadisce la Corte, non è una sistemazione per la vita, ma un atto di libertà e di autoresponsabilità: ciò implica l’accettazione da parte dei coniugi di tutte le conseguenze, anche economiche, di un eventuale divorzio, sicché risulta del tutto coerente individuare nell’indipendenza economica il criterio per la determinazione dell’assegno (ferma restando la natura assistenziale dello stesso). In particolare, il criterio dell’“autoresponsabilità” viene per così dire mutuato dalla disciplina in tema di mantenimento dei figli maggiorenni (art. 337 septies c.c.), ove, come da tempo chiarito in giurisprudenza, l’assegno è rimesso alla verifica che la mancanza di indipendenza economica non dipenda da un’inerzia del figlio nel procurarsi un reddito che gli consenta di mantenersi autonomamente (v. tra le molte pronunce, Cass. Civ., 20.8.2014, n. 18076, ove si nega il diritto al mantenimento a due figli ultraquarantenni sul rilievo che «la situazione soggettiva fatta valere dal figlio che, rifiutando ingiustificatamente in età avanzata di acquisire l’autonomia economica tramite l’impegno lavorativo, chieda il prolungamento del diritto al mantenimento da parte dei genitori, non è tutelabile perché contrastante con il principio di autoresponsabilità»; v. anche Cass. Civ., ord. 21.11.2019, n. 30491, ove è stata confermata la riduzione dell’assegno in favore di un trentaduenne laureato, pur tenendo conto delle difficili condizioni di salute dello stesso, afflitto da una sindrome ansiosa-depressiva, nonché C. App. Catania, Decr. 13.7.2017, ove si è accertata la colpevole inerzia della figlia, ventisettenne, che, dopo dieci anni, non aveva ancora conseguito la laurea triennale in psicologia e aveva anche rifiutato una congrua offerta di lavoro procuratale dal padre, onerato dell’assegno, oltretutto compatibile con la prosecuzione degli studi).
Nel solco aperto dalla S.C. nel 2017 si innesta dunque la nota pronuncia delle Sezioni Unite dell’anno successivo (Cass. Civ., S.U., 11.7.2018, n. 18287), la quale funge – almeno per il momento – da criterio di riferimento per la determinazione dell’assegno di divorzio.
Le S.U., recependo le sollecitazioni di autorevole dottrina (v., ad es., M. Sesta, La solidarietà post-coniugale tra funzione assistenziale ed esigenze compensatorie, in Fam. e dir., 2018, 514-516, nonché C. Rimini, Verso una nuova stagione per l’assegno divorzile dopo il crepuscolo del fondamento assistenziale, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1280-1282), intendono bilanciare l’esigenza di non rendere l’assegno di divorzio una sorta di “diritto acquisito” per il solo fatto di essersi sposati, con l’altrettanto rilevante necessità di tenere conto di ciò che è avvenuto nel corso della vita matrimoniale e, in particolare, dei sacrifici compiuti da ciascuno degli sposi in favore dell’altro e/o a beneficio della famiglia.
Così viene precisato che all’assegno di divorzio «deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa» al fine di rimuovere quello squilibrio patrimoniale cagionato dalle scelte assunte in modo condiviso dalla coppia e che hanno avvantaggiato economicamente l’uno rispetto all’altro. Per tale ragione, dovrà quindi compiersi, rispetto ai coniugi, una «comparazione effettiva delle condizioni economico-patrimoniali alla luce delle cause che hanno determinato la situazione attuale di disparità».
Indubbia la rilevanza pratica di tale nuovo e diverso criterio.
Se prima il coniuge economicamente indipendente, ma più debole all’interno della coppia, aveva diritto all’assegno di divorzio in ragione del mutamento del tenore di vita rispetto a quello goduto in costanza di matrimonio, ora detto assegno dovrà essere negato, salvo venga fornita la prova che l’eventuale rilevante disparità della situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi sia riconducibile a scelte di conduzione della vita familiare adottate in modo condiviso in costanza di matrimonio e che abbiano comportato sacrifici delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti a beneficio del patrimonio comune e/o dell’altro coniuge.
Tra le recenti applicazioni del dettato delle S.U. può menzionarsi anche il celebre divorzio Berlusconi-Lario (Cass. Civ. 30.8.2019, n. 21926): la S.C., infatti, ha negato l’assegno di divorzio alla moglie, poiché, pur riconoscendo alla stessa «un ruolo prevalente se non esclusivo nella conduzione della vita familiare» doveva «escludersi l’inferenza causale prevalente o decisiva di questa comune determinazione sulla condizione economico patrimoniale della ricorrente», così come doveva escludersi che lo squilibrio tra i patrimoni degli (ex) coniugi dipendesse dall’impostazione di vita coniugale, «godendo il controricorrente di una condizione di enorme ricchezza personale acquisita ben prima del matrimonio (…) e non influenzata dalla conduzione della vita familiare» (per un approfondimento v. E. Al Mureden, Le nuove funzioni dell’assegno divorzile nello specchio dei big money cases, in Fam. e dir., 2019, 1088; per un caso in cui, invece, l’assegno di divorzio è stato accordato, v., ad es., Trib. Parma, 12.11.2019 n. 1479, ove si è ritenuto che l’analisi comparativa della situazione economico reddituale degli ex coniugi avesse evidenziato una rilevante disparità tra gli stessi e, in particolare, la posizione deteriore della moglie trovasse la sua causa diretta nel ruolo endo-familiare trainante assunto dalla donna, la quale aveva sacrificato le proprie aspettative reddituali, dedicandosi alla gestione del ménage familiare e alla cura dei figli e consentendo al marito di dedicarsi alle proprie attività imprenditoriali).
Nel quadro testé enunciato non resta che vedere quali saranno gli scenari futuri.
È indubbio che da più parti si invoca una riforma legislativa. Da un lato, v’è chi ritiene che l’orientamento inaugurato dalle S.U. nel 2018 porti con sé taluni rischi che devono essere arginati, quali ad esempio l’eccessiva discrezionalità lasciata al giudice, o gli automatismi risarcitori che potrebbero ingenerarsi a favore del coniuge economicamente più debole a causa delle notevoli difficoltà di ordine probatorio (v. S. Patti, Assegno di divorzio: il “passo indietro” delle Sezioni Unite, in Corr. giur., 2018, 1200-1203; approfondisce questi temi anche C. Benanti, La «nuova» funzione perequativo-compensativa dell’assegno di divorzio, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1605-1607).
Per altro verso, v’è chi, pur condividendo l’orientamento giurisprudenziale qui enunciato, ritiene necessario disciplinare taluni aspetti dell’assegno di divorzio non ancora contemplati dal legislatore (v., ad es, C. Rimini, Il nuovo assegno di divorzio: la funzione compensativa e perequativa, cit., 1861, il quale evidenzia la necessità di una riforma che preveda la possibilità per il giudice, anche in assenza di accordo delle parti, di sostituire l’assegno periodico con un assegno in un’unica soluzione, e che consenta di disporre un assegno di divorzio a termine, finalizzato a lasciare al coniuge più debole il tempo per il reinserimento nel mondo del lavoro).
Peraltro, accanto all’assegno di divorzio, molti altri temi affiorano nel contesto sociale attuale (solo per citare alcuni esempi, la questione dell’individuazione dei beni spettanti a ciascun coniuge in sede di scioglimento della comunione legale, le problematiche legate alla cointestazione di un conto corrente bancario tra i membri della coppia, la questione dell’ammissibilità di accordi tra coniugi in vista del successivo divorzio, etc.): ciò dimostra ancora una volta come la famiglia, ivi compresi i nuovi modelli familiari che caratterizzano la società contemporanea (si pensi, in primo luogo, alle unioni civili e le convivenze, che oggi trovano un riconoscimento legislativo nella l. 76/2016 e nei D. lgs. 5, 6 e 7 del 2017), oltre a rappresentare un nucleo intangibile di diritti inviolabili della persona tutelati dal nostro ordinamento, attragga attorno a sé, con sempre maggior vigore, una serie di rilevanti interessi economici che devono poter trovare una chiara e univoca disciplina legislativa e un’efficiente applicazione da parte della giurisprudenza.
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