Appalto: la mera esecuzione materiale del progetto non solleva l’appaltatore dalla responsabilità, ne’ lo degrada a nudus minister
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDFCorte di Cassazione Sez. 2^, Ordinanza del 24.10.2022 n. 31273, Presidente Dott. M. Bertuzzi, Estensore Dott. A. Scarpa
Massima: «L’appaltatore che nella realizzazione dell’opera si attiene alle previsioni del progetto fornite dal committente può non di meno essere ritenuto responsabile per i vizi dell’opera stessa, valutandone la condotta secondo il parametro di cui all’art. 1176, comma 2, c.c. Tuttavia l’appaltatore deve segnalare al committente le carenze e gli errori progettuali per poter realizzare l’opera a regola d’arte. In caso contrario, egli è responsabile anche se ha eseguito fedelmente il progetto e le indicazioni».
CASO
La società Gamma, ingiungeva la Sig.ra Tizia al pagamento della somma di € 12.138,91, oltre interessi, a titolo di saldo del corrispettivo dell’appalto per la realizzazione di un impianto di climatizzazione, così pattuito con contratto stipulato nel maggio 2010 e successivamente modificato con scrittura del 7 dicembre 2010.
Tizia con atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo innanzi al Tribunale di Monza si opponeva, formulando altresì domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto per inadempimento della società Gamma, stante le difformità delle opere a quanto prescritto dal Decreto del Ministero dello sviluppo economico n. 37 del 2008[1].
La committente rilevava che in forza della scrittura privata anzidetta, nonché delle clausole contenute nel computo metrico, la società appaltatrice Gamma avesse iniziato ad eseguire i lavori in autonomia solo dall’agosto del medesimo anno, essendosi prima di allora unicamente limitata alla realizzazione di un progetto elaborato da soggetti terzi e sotto la direzione dei lavori di un tecnico incaricato dalla medesima committente.
Il Tribunale di Monza con sentenza del 2014 respingeva integralmente le domande dell’ingiunta-opponente.
Soccombente in primo grado, Tizia interponeva appello innanzi la Corte di Appello di Milano avverso la pronuncia del giudice di prime cure.
La Corte distrettuale respingeva l’appello di Tizia rilevando che quanto contenuto nell’accordo del 7 dicembre 2010, concluso nel momento in cui i lavori erano ancora in corso, risultasse di “estrema chiarezza”, nel senso che “il secondo pagamento doveva intervenire alla fine del gennaio 2011 e a esso si sottrasse la committente”, non essendo così possibile “ancorare quel pagamento alla fine dei lavori”,,come avanzato dalla committente.
In ordine alla domanda riconvenzionale, il giudice d’appello sottolineava che alla società Gamma non poteva addebitarsi “una autonomia tale da intervenire sul progetto che le era stato chiesto di realizzare”.
Inoltre, sempre il medesimo provvedimento, alla luce della “grande chiarezza” della scrittura per cui è causa, ha ritenuto che l’appaltatrice nell’esecuzione dei lavori avrebbe dovuto agire “nel rispetto delle caratteristiche tecniche, delle forniture di materiali e di apparecchiature indicate nel Progetto esecutivo illustrate nella documentazione di sviluppo”, disposto da due società di progettazione. Sempre la Società Gamma avrebbe dovuto attenersi al computo metrico e alle tavole degli impianti.
La Corte distrettuale richiamava, in ordine alla rilevabilità dei vizi progettuali, la Consulenza Tecnica d’Ufficio, parimenti ritenuta a tal punto chiara da non abbisognare di ulteriori chiarimenti interpretativi.
Sulla scorta di quanto anzidetto, il Collegio giudicante si pronunciava sulla legittimità della sospensione delle opere realizzande e del loro mancato completamento, così escludendo la possibilità di addebitare alla impresa appaltatrice alcuna sorta di responsabilità da inadempimento in conseguenza del mancato pagamento di quanto di spettanza della committente nel gennaio 2011.
Soccombente anche in secondo grado Tizia proponeva ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi.
Resisteva con controricorso la Società appaltatrice Gamma.
La trattazione del ricorso veniva fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, comma 2, c.p.c. e 380 bis.1 c.p.c.. Il controricorrente depositava infine memoria.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 31237 del 24 ottobre 2022, accolto il secondo motivo di ricorso, dichiarati assorbiti il primo ed il terzo, disponeva la cassazione della sentenza impugnata e rinviava la causa alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, per la decisione della controversia, nonché per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
QUESTIONI
Con il primo motivo la ricorrente denunciava l’omesso esame circa un fatto decisivo ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., rispetto alla clausola n. 2 della scrittura integrativa del 7 dicembre 2010, in forza della quale era evincibile che l’appaltatrice non potesse essere considerata alla stregua di un “nudus minister” nella realizzazione delle opere dedotte nel contratto di appalto, essendo la medesima chiamata all’osservanza delle leggi nonché regolamenti e norme in materia di appalto.
Con il secondo motivo deduceva la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. nonché il superamento dei “limiti” insiti nella CTU del merito, stante il richiamo da parte del giudicante del secondo grado alla stessa relazione tecnica a supporto della qualificazione giuridica della controparte quale nudus minister.
A tal fine, la ricorrente in Cassazione, menzionava la citata clausola n. 2 ed i relativi obblighi di funzionalità e conformità tecnica e giuridica degli impianti gravanti sulla società Gamma a prescindere da eventuali “omissioni, errori, imperfezioni, sviste o imprecisioni contenuti negli elaborati grafici e nei computi metrici”.
Con il terzo motivo censurava la violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 7 del D.M. 22 gennaio 2008, n. 37.
La Corte di Cassazione riteneva fondato il secondo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento dei restanti primo e terzo motivo di ricorso, “i quali rimangono privi di immediata rilevanza decisoria”.
Invero, nell’analizzare il motivo di ricorso, ove si censurava la mancanza di addebiti di responsabilità della società Gamma per i vizi di funzionamento dell’impianto di climatizzazione dedotto nel contratto oggetto di lite, la Corte di Cassazione rilevava che il giudice di seconde cure si fosse discostato dai “consolidati principi più volte ribaditi in materia”.
In primo luogo occorre premettere che il Codice civile disciplina all’art. 1655 ss il contratto di appalto.
In forza del presente contratto, un soggetto c.d. committente affida ad un altro soggetto c.d. appaltatore, la realizzazione di un’opera o di un servizio dietro il pagamento di un corrispettivo in denaro.
Il negozio in oggetto si caratterizza in quanto l’appaltatore assume su di sé la realizzazione dell’opera o del servizio, nonché dei relativi rischi, quale imprenditore e senza vincoli di subordinazione con la parte committente, nonchè mediante una organizzazione di media o grande impresa (elemento che peraltro lo distingue dal contratto di opera professionale ai sensi dell’art. 2222 c.c., rispetto al quale la realizzazione dell’opera avviene mediante prevalente lavoro autonomo del professionista d’opera).
Inoltre, in capo all’appaltatore, ai sensi dell’art. 1667 c.c., grava uno specifico onere di garanzia per i vizi e difformità dell’opera realizzanda, semprechè il committente sia a conoscenza dell’esistenza di quest’ultimi o siano dal medesimo riconoscibili e non sottaciuti dall’appaltatore in mala fede.
Per mero onere di completezza, devono intendersi per difformità le eventuali divergenze tra le caratteristiche dell’opera da realizzare in forza delle pattuizioni intercorse tra le parti contrattuali e quella concretamente eseguita; al contrario, per vizio si intende il caso in cui l’opera oggetto del contratto presenti dei difetti rispetto alla sua esecuzione secondo la regola d’arte.
Orbene, la Corte di legittimità ha rilevato come, in materia di appalto, non sussista una vera e propria disposizione normativa che preveda a carico di quale delle parti negoziali sia posto l’onere di redazione del progetto generale cui attenersi nell’esecuzione del contratto, nè che lo stesso sia indispensabile ovvero che sia obbligatorio che l’opera dedotta dalle parti venga determinata minuziosamente, essendo sufficiente a tal fine che vengano stabiliti unicamente gli elementi fondamentali della stessa.
Tuttavia, nel caso in cui il regolamento contrattuale richiami un progetto che ivi comprenda una “esatta descrizione dell’oggetto fondata su criteri tecnici”, l’appaltatore è tenuto alla realizzazione dell’opera attenendosi scrupolosamente al progetto stesso nonché ad eseguirlo secondo regola d’arte.
Sul punto, infatti, l’art. 1659 c.c., prevede specificamente che “l’appaltatore non può apportare variazioni alle modalità convenute dell’opera se il committente non le ha autorizzate” – autorizzazione che fra l’altro deve essere concessa in forma scritta – e che “anche quando le modificazioni sono state autorizzate, l’appaltatore, se il prezzo dell’intera opera è stato determinato globalmente, non ha diritto a compenso per le variazioni o per le aggiunte, salvo diversa pattuizione”.
In altre parole, la norma in questione ha l’obiettivo di garantire la conformità dell’opera – anche nei particolari – a quanto stabilito dalle parti in forza del contratto concluso tra le stesse, in tal senso salvaguardando l’opera da eventuali illegittime iniziative modificative eventualmente adottate da parte dell’appaltatore.
Ciò posto la possibile previsione di una clausola contrattuale che imponga all’appaltatore di realizzare i lavori “nel rispetto delle caratteristiche tecniche, delle forniture di materiali e di apparecchiature indicate nel Progetto esecutivo ed illustrate nella documentazione di sviluppo” nonché di osservare “il computo metrico delle tavole degli impianti”, non costituisce una ipotesi eccezionale bensì ne costituisce ad avviso della Corte di legittimità il proprium.
Pertanto, il solo fatto che la società appaltatrice realizzi l’opera in forza di un progetto realizzato dal committente ovvero fornito dal medesimo non lo degrada a nudus minister, considerando che la fase progettuale non influisce rispetto al negozio concluso tra le parti, né realizza la struttura sinallagmatica[2].
In tal senso si inserisce il principio consolidato e più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità rispetto al quale “l’appaltatore che, nella realizzazione dell’opera, si attiene alle previsioni del progetto fornito dal committente può non di meno essere ritenuto responsabile per i vizi dell’opera stessa, valutandone la condotta secondo il parametro di cui all’art. 1176, comma 2, del codice civile”.
Così argomentando, benchè l’impresa appaltatrice assuma il ruolo di esecutrice materiale del progetto, non viene meno il suo rispettivo obbligo di denuncia nei confronti della committenza di eventuali “carenze e gli errori progettuali al fine di poter realizzare l’opera a regola d’arte, con la conseguenza che, in caso contrario, egli è comunque responsabile anche se ha eseguito fedelmente il progetto e le indicazioni”.
L’appaltatore ha perciò l’onere di controllare entro quanto di sua competenza e conoscenza “la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirli”.
Ove in denegata ipotesi manchi detta allegazione da parte dell’appaltatore, il medesimo continua ad essere esposto a responsabilità contrattuale – nello specifico derivante da obbligazione di risultato – a titolo di intera garanzia per i vizi dell’opera ed escludendo il concorso di colpa del progettista[3].
In ordine alla rilevabilità dei vizi progettuali da parte dell’appaltatore, la Corte di Appello di Milano richiamava la C.T.U. espletata in sede di giudizio di primo grado.
A fronte di detto richiamo, tuttavia, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il consulente d’ufficio nel supplice ad eventuali carenze di competenze tecniche dell’autorità giudiziaria, non può ingerirsi né nella qualificazione giuridica dei fatti dedotti in giudizio né nella valutazione circa il rispetto delle norme di determinati comportamenti.
La Consulenza tecnica d’Ufficio, infatti, ha una finalità deducente– il giudicante del merito affida al perito il solo compito di valutare fatti già acclarati o dati preesistenti – non residuando, ad avviso d alcun potere in capo all’ausiliare di “svolgere accertamento o formulare valutazioni circa la legittimità di condotte umane, o di opere materiali, né di ricostruire il contenuto e la portata di una norma o di un negozio[4]”.
Nel caso di specie, onere del consulente era quello di verificare in che termini la società resistente, considerata la propria organizzazione di mezzi, dovesse sincerarsi della bontà del progetto commissionato da Tizia e delle istruzioni impartite dalla medesima, quali fosse, in sostanza, le conoscenze di natura tecnica effettivamente esigibili dalla società Gamma in forza della lettera dell’art. 1176, comma 2, c.p.c.
Tutto quanto premesso, la Corte di Cassazione, riteneva addebitabile all’appaltatrice l’inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c., relativamente alla obbligazione di corrispondere quanto residuante nonchè fondata la conseguente domanda di risoluzione del contratto.
[1] Regolamento concernente l’attuazione dell’art. 11 quaterdecies, comma 13, lett. A), della L. n. 248 del 2005, contenente il riordino delle norme in materia di attività di installazione degli impianti all’interno degli edifici.
[2] Cass. Civ. n. 6754/03.
[3] Ex multis Cass. Civ. n. 23594/17.
[4] Cass. Civ. n. 1186/16.
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