È ammissibile il mantenimento di costruzioni poste a distanza inferiore a quella legale in presenza di usucapione della servitù
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDFSuprema Corte di Cassazione, Sez. II, Civile, Sentenza n. 3939 del 8 febbraio 2022, Presidente Dott. Manna Felice, Relatore Dott. Abete Luigi.
“In materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali”
FATTO
Caio, proprietario di un immobile, citava in giudizio dinnanzi al Tribunale di Savona Tizia e Sempronia in quanto proprietarie di un immobile confinante.
L’attore, tra le varie richieste, domandava che il Tribunale accertasse la violazione delle disposizioni in materia di distanze legali e condannasse le convenute: all’arretramento del muro di contenimento del giardino di pertinenza del loro immobile, costruito in prossimità del muro perimetrale dell’immobile di sua proprietà, fino al rispetto delle distanze legali stabilite dall’art.873 c.c.; alla rimozione della ringhiera posta sul margine del muro di contenimento e costituente veduta sul fondo i sua proprietà, in violazione delle distanze ex art.905 c.c.; ed infine al risarcimento del danno subito, da liquidarsi in via equitativa.
Le convenute si costituivano eccependo “l’intervenuto acquisto per destinazione del padre di famiglia della servitù di mantenere il muro di contenimento nella sua posizione”. Di fatti, specificavano che “la (OMISSIS) s.p.a., proprietaria in origine di ambedue i fondi limitrofi, aveva costruito il muro di contenimento in epoca antecedente al loro acquisto ed all’acquisto della dante causa dell’attore” e, pertanto, instavano per il rigetto della domanda attorea.
Con la sentenza n.862/2012, il Tribunale ligure disponeva il rigetto della domanda finalizzata all’arretramento del muro ed al risarcimento del danno subito, accogliendo tuttavia la richiesta di eliminazione della veduta.
Caio, parzialmente soddisfatto nelle proprie pretese, proponeva appello alla Corte territoriale di Genova; resistevano Tizia e Sempronia, proponendo appello incidentale avverso alla condanna all’eliminazione della veduta.
La Corte d’Appello di Genova[1] rigettava sia l’appello principale che quello incidentale, compensando integralmente le spese del grado. Nel formulare la propria contrarietà alle tesi proposte dalle parti in causa, i giudici di gravame evidenziarono come “nulla ostava a che alla distanza ex articolo 873 c.c., di certo derogabile in virtu’ di apposita convenzione, si derogasse altresì in virtu’ di servitù acquistata per usucapione o per destinazione del padre di famiglia” e che, inoltre, solamente in comparsa conclusionale nel giudizio di primo grado, tardivamente, l’attore-appellante aveva allegato l’applicabilità nella specie del regolamento di igiene comunale, sicché il tribunale non era tenuto ad acquisire e ad applicare d’ufficio il regolamento, ancorché’ contenente norme giuridiche.
Avverso tale giudizio, Caio proponeva ricorso, chiedendo la cassazione della sentenza sulla scorta di cinque motivi.
SOLUZIONE
La Suprema Corte accolse il terzo motivo di ricorso, cassando la sentenza della Corte d’Appello di Genova, in relazione e nei limiti del motivo accolto, e rinviando alla stessa in diversa composizione anche ai fini della regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
QUESTIONI
Con il primo motivo Caio denunciò, ex art.360 c.p.c., comma I, n.3, la violazione dell’art.873 c.c., deducendo che la Corte d’Appello ligure avrebbe errato a reputare che le distanze prefissate dalla legge possano essere suscettibili di deroga in virtù dell’acquisizione di servitù per destinazione del padre di famiglia.
Il ricorrente dedusse in particolare come le distanze prefissate dall’art. 873 c.c. fossero dettate a tutela dei coincidenti interessi generali e pubblici posti a salvaguardia dei quali operano le inderogabili distanze, previste anche dai regolamenti locali, e che la lapidarietà delle disposizioni codicistiche risulterebbe rinvenibile nel divieto imposto agli enti di locali di stabilire distanze inferiori a quelle del codice civile.
Tale motivo di denuncia venne tuttavia respinto dalla Suprema Corte in quanto, per insegnamento consolidato e condiviso dalla giurisprudenza di legittimità, “in materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali“[2].
Tanto specificato, gli Ermellini ritennero inevitabile rilevare come ai fini della possibilità di acquisto per usucapione della servitù di mantenere una costruzione a distanza dal fondo limitrofo inferiore a quella prescritta, non distingue tra norme del codice civile e norme dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali, motivo per cui il ricorrente non avrebbe avuto motivo per prospettare ragioni di presunta contraddizione nell’elaborazione della stessa Suprema Corte. Inoltre, giusta precisazione ai fini del quibus agitur, non venne rilevato alcun motivo per distinguere la servitù acquistata per usucapione dalla servitù acquistata per destinazione del padre di famiglia, in quanto entrambe si acquisirebbero a titolo originario e sono accomunate dall’esser circoscritte alle sole servitù apparenti.
Con il secondo motivo, invece, il ricorrente denunciò, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma I, n.4, la nullità dell’impugnata pronuncia in relazione agli artt. 112,183 e 345 c.p.c., rimarcando in particolare come la corte di merito avrebbe errato nel ritenere preclusa l’allegazione del regolamento di igiene comunale, vigente all’epoca di costruzione del muro di contenimento e prefigurante la distanza di almeno un metro delle costruzioni da rilievi montuosi e terrapieni, in quanto tardiva. La paventata erroneità procedurale deriverebbe dalla circostanza che il regolamento in questione costituirebbe una vera e propria fonte normativa, altresì per sua natura inderogabile ed idonea in ogni caso ad impedire l’acquisto di una servitù per destinazione del padre di famiglia, di cui il giudice sarebbe stato tenuto a conoscere ex officio indipendentemente dalle allegazioni delle parti.
Anche in questo caso la Suprema Corte decise di respingere il motivo proposto in quanto, come venne dato conto nella motivazione di rigetto del primo, è stato reputato ammissibile l’acquisto per usucapione (e per destinazione del padre di famiglia) di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore sia rispetto a quella fissata dalle norme del codice civile sia rispetto a quelle fissate dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali. Tanto precisato, si ritenne necessario aggiungere come “seppure avesse reputato rituale l’allegazione del regolamento d’igiene del Comune di Albissola vigente all’epoca della costruzione del muro di contenimento, la corte di seconde cure avrebbe dovuto comunque opinare per la legittimità della deroga pur con riferimento alla distanza prefigurata dal medesimo regolamento”.
In suddetti termini, non può applicarsi l’insegnamento della Corte secondo cui le norme dei regolamenti comunali edilizi e i piani regolatori sono, per effetto del richiamo contenuto negli articoli 872 ed 873 c.c., integrative delle norme del codice civile in materia di distanze tra costruzioni, sicché’ il giudice deve applicare le richiamate norme locali indipendentemente da ogni attività assertiva o probatoria delle parti, acquisendone conoscenza attraverso la sua scienza personale, la collaborazione delle parti o la richiesta di informazioni ai comuni[3]. Per altro verso, venne ritenuto doveroso operare una correzione, nelle forme suindicate, “ in parte qua del secondo dictum (cfr. Cass. (ord.) 6.9.2017, n. 20806, secondo cui, affinché’ la Corte di cassazione possa procedere alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c., è necessario che la sostituzione della motivazione sia solo in diritto e non comporti indagini o valutazioni di fatto, e che essa non importi violazione del principio dispositivo, ossia non pronunci su eccezioni non sollevate dalle parti e non rilevabili d’ufficio)”.
Con il terzo motivo, Caio denunciò la violazione dell’articolo 2043 c.c., deducendo che la Corte territoriale avrebbe errato a disconoscere la natura in re ipsa del danno invocato a causa dell’illegittima imposizione della servitù di veduta e che il danno sussisterebbe per il solo fatto dell’asservimento ed è liquidabile in via equitativa .
La Corte giudicò il motivo come fondato e meritevole di accoglimento.
Di fatto, i giudici di Cassazione statuirono che fosse sufficiente il rinvio all’elaborazione della stessa giurisprudenza di legittimità a tenore della quale la lesione del diritto di proprietà, conseguente all’esercizio abusivo di una servitù di veduta, sarebbe di per se’ produttiva di un danno, il cui accertamento non richiederebbe, pertanto, una specifica attività probatoria e per il risarcimento del quale il giudice dovrà unicamente procedere ai sensi dell’articolo 1226 c.c., adottando eventualmente, quale parametro di liquidazione equitativa, una percentuale del valore reddituale dell’immobile, la cui fruibilità sia stata temporaneamente ridotta[4].
Con gli ultimi due motivi presentati, entrambi rigettati, Caio dedusse la nullità della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 132 c.p.cc., n.4, per l’apparenza della motivazione e nullità in relazione all’articolo 116 c.p.c., comma 1 e articolo 61 c.p.c..
In riferimento al quinto ed ultimo motivo, il ricorrente denunciò che la Corte ligure avrebbe errato a non tener conto della relazione di c.t.u. e del supplemento alla stessa svolta nel giudizio in precedenza instaurato nei confronti delle stesse controparti, documenti aventi dignità di vere e proprie prove ancorché’ liberamente valutabili, nonché’ a disattendere, senza motivazione alcuna, l’istanza del tecnico incaricato volta a dimostrare il pregiudizio e le cause del pregiudizio sofferto.
A tali deduzioni di parte ricorrente, gli Ermellini ritennero sufficiente sottolineare come l’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.Lgs. n. 83 del 2012, articolo 54, convertito in L. n. 134 del 2012, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo; pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per se’, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, qualora, come nel caso in esame, il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché’ la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie[5]. Di fatti, in tema di ricorso per la cassazione della sentenza, la violazione dell’articolo 116 c.p.c., salva diversa previsione legale, è idonea ad integrare il vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 4[6], solo laddove il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, alternativamente, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime[7].
Tanto precisato, la consulenza tecnica d’ufficio deve essere qualificata come mezzo istruttorio, e non come vera e propria prova, sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel potere discrezionale di quest’ultimo la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario e la motivazione dell’eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal medesimo giudice del merito[8].
[1] Con sentenza n. 321/2016.
[2] Così risultante in motivazione Cass. 22.2.2010, n. 4240. Cfr. altresì Cass. 12.12.2012, n. 22824; Cass. 18.2.2013, n. 3979; Cass. (ord.) 19.1.2017, n. 1395.
[3]Cfr. Cass. 29.7.2009, n. 17692; Cass. 18.2.1987, n. 1755.
[4]Cfr. Cass. (ord.) 13.5.2019, n. 12630.
[5] Così Cass. (ord.) 29.10.2018, n. 27415.
[6] Ossia “per nullità della sentenza o del procedimento”.
[7] Cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892.
[8] Cass. 5.7.2007, n. 15219; Cass. (ord.) 13.1.2020, n. 326.
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