4 Luglio 2016

Alcune recenti decisioni delle Sezioni Unite in materia di impugnazioni

di Fabio Cossignani Scarica in PDF


La giurisprudenza delle Sezioni Unite in materia di impugnazioni è stata copiosa negli ultimi tempi. Si coglie in questa sede l’occasione per una breve rassegna di alcune recenti pronunce.
 

Cass., sez. un., 13 giugno 2016, n. 12084 (Pres. Rordorf, Rel. D’Ascola)
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ha ribadito il consolidato orientamento – rimesso in discussione dall’ordinanza di rimessione n. 9782/2015, segnalata in questa newsletter – secondo cui la notificazione dell’impugnazione fa decorrere per l’appellante il termine breve per impugnare. La questione è centrale, ad esempio, ai fini della tempestiva riproposizione dell’impugnazione inammissibile o improcedibile (art. 358 c.p.c.).

La Corte affronta di petto le contrarie tesi della dottrina, ritenendole non dirimenti. Viceversa, individua nell’ordinamento una serie di indici normativi che sarebbero espressione coerente di una favor legis per la formazione rapida del giudicato (ad es., l’art. 326 c.p.c.). Inoltre, ritiene che l’interpretazione tradizionale garantisca la parità delle parti.

Resta tuttavia il dubbio che la soluzione giurisprudenziale consolidata non sia quella più corretta. Ciononostante, non si può che convenire con le Sezioni Unite là dove affermano «il valore intrinseco della stabilità della giurisprudenza in materia processuale». 

 

Cass., sez. un. 9 giugno 2016, n. 11844 (Pres. Rordorf, Rel. Ambrosio)
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ha espresso il principio di diritto secondo cui «salvo il caso di rinvio improprio (cd. restitutorio), la sentenza emessa in sede di rinvio è soggetta ad impugnazione in via ordinaria unicamente con il ricorso per cassazione; e ciò in quanto il giudizio di rinvio conseguente a cassazione, pur dotato di autonomia, non dà luogo ad un nuovo procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario da ritenersi unico e unitario, che ha il suo “riferimento immediato” nel giudizio (rescindente) di cassazione. Di conseguenza tale regola di impugnazione si applica anche quando – avuto riguardo alla natura della controversia e al regime di impugnabilità vigente al momento della cassazione con rinvio – le parti siano state rimesse davanti al giudice di primo e unico grado e, nelle more, sia impugnato il regime di impugnabilità della sentenza cassata».

Nel caso di specie si discuteva dell’applicabilità dell’art. 616 c.p.c., nella versione risultante dalla novella del 2009 (art. 49, l. n. 69/2009, che ha reintrodotto l’appellabilità della sentenza resa nel primo grado di opposizione), a un giudizio di rinvio pendente, alla data di entrata in vigore della legge di riforma, dinanzi al tribunale quale giudice di pari grado (nella specie, primo ed unico grado) rispetto a quello che aveva pronunciato la sentenza cassata (art. 383, co. 1, c.p.c.). Infatti, la Corte aveva annullato una sentenza inappellabile, perché pronunciata dal tribunale nella vigenza del precedente art. 616 c.p.c.

L’art. 58, co. 2, della l. n. 69/2009 prevede che il nuovo art. 616 c.p.c. (e il relativo rinnovato regime di appellabilità della sentenza) si applica ai «giudizi pendenti in primo grado» alla data di entrata in vigore della legge.

Il che ha posto la questione della equiparabilità del giudizio di rinvio dinanzi al tribunale a un «giudizio pendente in primo grado».

La Corte esclude con fermezza tale equiparazione nelle ipotesi di rinvio “prosecutorio” ex art. 383, co. 1, c.p.c. (rinvio proprio). In tali casi il giudizio di rinvio non si atteggia come una rinnovazione del grado di giudizio in cui è stata emessa la decisione cassata, quanto piuttosto come la fase rescissoria che colma il vuoto lasciato dalla decisione rescindente della Cassazione. L’unico giudice deputato al controllo della corretta applicazione, da parte del giudice di rinvio, del principio di diritto fissato dalla pronuncia di annullamento, non può quindi che essere la stessa Cassazione.

Viceversa, in caso di rinvio “restitutorio” ex art. 383, co. 3, c.p.c. (rinvio improprio), la rimessione al «primo giudice» è funzionale alla reiterazione del giudizio di primo grado, a causa dei particolari vizi della sentenza cassata (art. 353 e 354 c.p.c.). In tal caso, quindi, può predicarsi l’applicabilità del nuovo regime impugnatorio e quindi l’onere di proposizione dell’appello.

 

Cass., sez. un., 4 marzo 2016, n. 4248 (Pres. Rovelli, Rel. D’Ascola),
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al fine di comporre un contrasto giurisprudenziale, ha precisato che il vizio o il difetto della rappresentanza processuale può essere eccepito o rilevato per la prima volta anche nei giudizi di impugnazione. La questione si consuma soltanto quando vi sia stata un’espressa statuizione da parte del giudice e la relativa parte di sentenza non sia stata impugnata. Non può quindi formarsi su di essa il giudicato implicito (interno).

In altri termini, contrariamente a quanto stabilito per il difetto di giurisdizione (Cass., sez. un., n. 24883/2008), ove il giudice abbia deciso nel merito senza affrontare la questione del vizio di rappresentanza e l’impugnante non abbia mosso alcuna censura al riguardo, la rilevabilità della nullità resta comunque ammissibile nel prosieguo del processo.

Il differente trattamento si giustifica sulla base del fatto che un conto è la carenza di competenza giurisdizionale, la quale dà luogo a un provvedimento viziato, ma che potrebbe essere in ipotesi emesso negli stessi termini anche dal giudice dotato di giurisdizione; altro è il vizio che impedirebbe a qualsiasi giudice di pronunciarsi sulla domanda, quantomeno nelle condizioni in cui si sta svolgendo il giudizio (ad es., in assenza del litisconsorte necessario). Vi sarebbero dunque delle questioni processuali “fondanti”, che, in quanto tali, non possono sottrarsi al controllo del giudice dell’impugnazione, perché la loro corretta individuazione e soluzione consente di evitare l’emissione di sentenze inutiliter datae.

Tale giustificazione, tuttavia, potrebbe indurre a ritenere che le medesime questioni non siano in nessun caso suscettibili di giudicato interno, neppure esplicito. Infatti, se vi è stata – ad esempio – una violazione del litisconsorzio necessario, neanche il rigetto esplicito della relativa eccezione è idonea a mettere al riparo la decisione di merito dalla successiva impugnazione del terzo pretermesso ai sensi dell’art. 404, co. 1, c.p.c. Quest’ultimo, infatti, non è in alcun modo vincolato dalla decisione.

Ad ogni modo, secondo la Corte, il vizio di rappresentanza processuale è sanabile anche in sede di impugnazione, indipendentemente dall’applicazione al caso concreto del novellato art. 182 c.p.c. (l. n. 69/2009) (Cass., sez. un., n. 9217/2010).

Ove, tuttavia, il vizio non sia rilevato d’ufficio ma eccepito dalla controparte, il giudice non è obbligato a concedere un termine per la sanatoria, salvo che la parte interessata non lo richieda. Nella specie la questione era stata sollevata per la prima volta col ricorso per Cassazione e il rappresentante privo di poteri si era difeso invocando esclusivamente il giudicato implicito sulla questione, senza invece chiedere un termine per la sanatoria del vizio. La Corte, accertata la mancanza di prova dei poteri rappresentativi, ha quindi cassato senza rinvio.

 

Cass., sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25774 (Pres. Rovelli, Rel. Giusti).
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Su sollecitazione dell’ordinanza n. 6127/2015, già segnalata in questa newsletter, le Sezioni Unite hanno espresso il seguente principio di diritto: «È immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione la sentenza con cui il giudice d’appello, nei casi previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c., riforma o annulla la sentenza di primo grado, rimettendo la causa al giudice a quo. Trattandosi di sentenza definitiva, essa non ricade nel campo di applicazione del divieto, dettato dal novellato art. 360 c.p.c., comma 3, di separata impugnazione in cassazione delle sentenze non definitive su mere questioni, per tali intendendosi le sentenze su questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito che non chiudono il processo davanti al giudice che le ha pronunciate, essendo la trattazione della causa destinata a proseguire dinanzi allo stesso giudice in vista della decisione definitiva».

La Corte ha quindi accolto le critiche che la dottrina aveva mosso all’orientamento contrario, che aveva individuato in tali pronunce delle sentenze non definitive su questioni. Oltre alle ragioni espressamente evocate nel principio, la soluzione si giustifica anche e soprattutto in forza del tenore letterale dell’art. 353, co. 3, c.p.c. il quale dispone che «se contro la sentenza d’appello» che dispone la rimessione al primo giudice (per aver questo erroneamente declinato la giurisdizione) «è proposto ricorso per cassazione, il termine» di riassunzione del processo in primo grado «è interrotto». L’art. 353 c.p.c. presuppone l’esperibilità del ricorso avverso la sentenza di rimessione al primo giudice. La disposizione non può peraltro ritenersi abrogata implicitamente dalla modifica dell’art. 360 operata dal d.lgs. n. 40/2006, in quanto tale riforma non ha fatto altro che ripristinare il sistema originario del codice di rito; va quindi esclusa l’abrogazione per incompatibilità tra le due disposizioni (artt. 353 e 360 c.p.c.).