Adulterio e revoca di donazione per ingratitudine
di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDFCassazione Civile, Sezione 3, ordinanza n. 19816 del 20 giugno 2022
Donazione – Revoca per ingratitudine – Ingiuria grave – Sussistenza dei requisiti – Adulterio – In genere – Adulterio maturato all’interno del rapporto famigliare
Massima: “Non basta ad integrare un’ingiuria grave tale da legittimare la domanda di revocazione di una donazione, una mera relazione extraconiugale. Tuttavia, la circostanza che l’adulterio sia maturato all’interno del nucleo familiare ristretto dei due coniugi ed il fatto che esso si sia sviluppato nella cornice di un comune ambiente lavorativo possono connotare in termini di gravità l’offesa all’onore patita dal coniuge e ad evidenziare, nell’altro, un atteggiamento di noncuranza e di assenza di rispetto nei confronti della dignità della coniuge predetto”*.
*Massima redazionale
Disposizioni applicate
Articolo 801 cod. civ.
[1] Tizia conveniva in giudizio il proprio marito Caio, al fine di ottenere la revoca – per ingratitudine – di alcune donazioni dalla stessa effettuate a favore del coniuge.
Ella, in particolare, riteneva che il comportamento di Caio, che aveva intrattenuto una relazione extraconiugale con la cognata Mevia (moglie di Tizio, fratello di Tizia), rientrasse nel concetto di ingiuria grave di cui all’art. 801 cod. civ. e ciò anche in ragione della circostanza che il rapporto adulterino si era sviluppato all’interno dell’azienda della famiglia di Tizia, ove tutti i soggetti coinvolti lavoravano.
Il giudice di primo grado accoglieva la domanda di Tizia, ritenendo provata l’ingiuria grave commessa nei confronti della donante.
Caio proponeva appello, ma vedeva confermata la sentenza a lui sfavorevole.
La Corte d’Appello affermava, sul punto oggetto della presente disanima, che, premesso che l’elemento dell’ingiuria grave non può essere ravvisato sic et simpliciter nell’adulterio, nella specie erano le modalità con cui esso era stato consumato a determinare la gravità dell’ingiuria. Nello specifico, la gravità conseguiva al fatto che la relazione extraconiugale era stata intrattenuta con la moglie del fratello della donante (in un contesto che andava a “minare, oltre alla stabilità del rapporto coniugale (…) anche quella familiare”, essendo evidente come “le conseguenze della scoperta del tradimento abbiano avuto ripercussioni estese a tutto il tessuto familiare di Tizia, non limitandosi al mero ambito matrimoniale”) e alla circostanza che l’adulterio si era sviluppato all’interno dell’azienda di famiglia, cosicché “la scoperta del tradimento è (…) inevitabilmente divenuta nota anche tra gli altri dipendenti e colleghi, riverberando l’infedeltà dell’appellante nell’ambito lavorativo, con evidente e innegabile ulteriore pregiudizio per la dignità della moglie”.
[2] Caio proponeva ricorso per cassazione, fondandolo su due motivi, dei quali è il primo a rilevare in questa sede.
Caio censurava la sentenza d’appello per avere ritenuto integrata una “ingiuria grave”, tale da giustificare la revocazione delle donazioni. Egli assumeva come il rapporto tra i due coniugi fosse già entrato in una crisi non più reversibile (sì che l’adulterio non era stato la causa della crisi, ma la sua conseguenza) e che la relazione extraconiugale era stata intessuta con modalità tali da essere mantenuta segreta. Ciò assunto, Caio rilevava che “si ha ingiuria grave quando si (è) tenuto pubblicamente un comportamento di disistima, avversione e irriconoscenza” nei confronti del donante e affermava come fosse “lampante l’errore commesso dal giudicante del secondo grado per non aver letto e ben valutato tutti gli atti, prove e testimonianze svoltesi durante i vari procedimenti” (compreso quello di separazione dei coniugi); deduceva, indi, che tale errore rileva sia sotto il profilo della violazione di legge – denunciabile “per violazione dell’articolo 116 c.p.c., (non in sé e per sé considerato) allorquando la “valutazione imprudente” della prova sia grave risolvendosi in una interpretazione logicamente insostenibile, ed abbia determinato una errata ricostruzione del fatto e quindi una erronea applicazione della norma di diritto, l’articolo 801 c.c.” – sia sotto il profilo della nullità della sentenza ex articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4), (per irriducibile contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione), sia – infine – per omessa valutazione di fatti storici decisivi.
[3] Per quanto qui di interesse, si evidenzia come La Suprema Corte abbia ritenuto inammissibile tale motivo. A parere degli Ermellini, invero, “la sentenza ha correttamente rilevato come non basti ad integrare tale ingiuria la mera relazione extraconiugale, ma ha ritenuto – con valutazione non manifestamente implausibile che non si presta a essere sindacata in sede di legittimità – che la circostanza che l’adulterio fosse maturato all’interno del nucleo familiare ristretto dei due coniugi e il fatto che si fosse sviluppato nella cornice di un comune ambiente lavorativo valessero a connotare in termini di gravità l’offesa all’onore patita da Tizia e ad evidenziare, in Caio, un atteggiamento di noncuranza e di assenza di rispetto nei confronti della dignità della moglie”.
[4] La pronuncia in commento permette di formulare alcune riflessioni in merito alla revocazione delle donazioni.
La possibilità di revocare un contratto che ha già interamente spiegato i suoi effetti e, per di più, in base alla volontà di solo una delle parti contrattuali, costituisce eccezione al generale principio di irrevocabilità dei negozi giuridici vigente nel nostro ordinamento.
Nell’ambito degli atti liberali, a norma dell’art. 800 c.c., una donazione può essere revocata per due soli motivi: ingratitudine o sopravvenienza di figli.
La giustificazione della deroga operata dal legislatore viene individuata nella necessità di tutelare interessi superiori, di ordine morale (nelle ipotesi di ingratitudine) o famigliare (nel caso di sopravvenienza di figli), che legittimano una rivalutazione da parte del donante circa l’opportunità della liberalità effettuata. La superiorità degli interessi tutelati viene confermata dall’art. 806 c.c. che, prevedendo la nullità di ogni rinunzia preventiva alla facoltà di revoca, implicitamente riconosce alla normativa in esame il rango di norme di ordine pubblico.
Limitando l’analisi all’ipotesi dell’ingratitudine, l’art. 801 c.c. dispone che la domanda di revocazione possa essere proposta solo in determinate ipotesi, con elencazione da ritenersi tassativa.
Opportuno preliminarmente precisare come, in realtà, l’espressione “revocazione per ingratitudine” appaia frutto di un retaggio storico. Il concetto di gratitudine, infatti, è connotato di una forte componente morale e non può assurgere ad un dovere giuridico: il donatario non ha alcun dovere giuridico positivo di gratitudine verso il donante.
Non potrà, quindi, revocarsi una donazione in ragione di un qualsivoglia atto o comportamento che dimostri irriconoscenza del donatario, ma solo al ricorrere di specifici presupposti. Il legislatore, infatti, per contemperare gli opposti interessi in gioco (da un lato quello del donante di eliminare gli effetti di un negozio a seguito di circostanze successive al negozio stesso; dall’altro l’esigenza di certezza delle relazioni giuridiche) ha limitato l’operare dell’istituto in esame ai soli casi più gravi. Si tratta, innanzitutto, di quei fatti che il codificatore ha preso in considerazione per le ipotesi di indegnità a succedere (espressamente richiamati dalla norma in esame) e sostanziantesi in comportamenti diretti contro l’integrità fisica o morale del donante o dei suoi congiunti più stretti. Viene poi prevista un’ulteriore ipotesi, genericamente indicata come “ingiuria grave verso il donante”.
La non specificità del riferimento, ha rimesso a dottrina e giurisprudenza il compito di circoscrivere l’ambito di tale nozione.[1]
Ed è proprio il richiamo generico alla gravità dell’ingiuria che ha più occupato gli interpreti. Può oggi dirsi consolidato l’orientamento che non ritiene sufficiente un qualsivoglia tipo di “offesa” al donante, ma postula la necessità di provare l’esistenza di un comportamento del donante che manifesti “un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante”.[2] La Suprema Corte ha avuto modo di affermare che l’ingiuria grave consiste in “un comportamento con il qual si rechi all’onore ed al decoro del donante un’offesa suscettibile di ledere gravemente il patrimonio morale della persona, sì da rilevare un sentimento di avversione che manifesti tale ingratitudine verso colui che ha beneficato l’agente, che ripugna alla coscienza comune”.[3] Anche in epoca meno recente, la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto che ricorresse ingiuria grave solo quando la lesione del patrimonio morale del donante fosse “avvenuta per effetto dell’animosità ed avversione nutrite dal donatario verso il donante”[4] e che il comportamento del donatario dovesse rivestire “manifestazioni e connotazioni di gravità e di potenzialità offensiva non soltanto oggettive, ma (soprattutto) disvelanti un reale e perdurante sentimento di avversione, espressione di una ingratitudine verso il beneficiario tale da ripugnare alla coscienza comune”.[5]
Sembra, dunque, evincersi che per aversi la gravità richiesta dal legislatore sia necessario rinvenire, nel donatario, un sentimento di profonda avversione verso il donante, ossia che vi sia dolo del donatario stesso nel compimento, volontario e consapevole, di atti o fatti, diretti nei confronti del donante, al solo o precipuo fine di ledere il patrimonio morale di questi.
Ed è, probabilmente, questo l’aspetto in merito al quale la sentenza in commento assume maggiore rilevanza. L’attenzione della giurisprudenza prevalente, infatti, sembrava indirizzata alla necessità di rinvenire, ai fine della revocatoria, quel durevole sentimento di disistima e avversione del donatario nei confronti del donante ritenuto presupposto indefettibile che “non può essere desunto da singoli accadimenti che, pur risultando di per sé censurabili, per il contesto in cui si sono verificati e per una situazione oggettiva di aspri contrasti esistenti tra le parti, non possono essere ricondotti ad espressione di quella profonda e radicata avversione verso il donante che costituisce il fondamento della revocazione della donazione per ingratitudine.”[6]
Non era sufficiente, seppur necessario, che il donante si fosse sentito offeso dal comportamento del donatario, essendo altresì indispensabile individuare anche un ulteriore elemento che potesse far ritenere, oggettivamente, che quanto compiuto dal donatario trovasse fondamento nel risentimento che quest’ultimo provava nei confronti del donante.
Proprio in forza di tali argomentazioni si addiveniva alla generale esclusione dell’adulterio quale causa sufficiente a giustificare la revocazione di un atto liberale: non sempre una relazione extraconiugale è manifestazione oggettiva di risentimento nei confronti del donante.[7]
Tuttavia, come già precisato in diversi precedenti dalla giurisprudenza di legittimità, l’emersione di tale sentimento di disistima ben può desumersi da comportamenti del donatario “contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero invece improntarne l’atteggiamento, e costituisce, peraltro, formula aperta ai mutamenti dei costumi sociali.”[8]
Tale affermazione sembra in realtà sconfessare il punto di partenza del ragionamento di dottrina e giurisprudenza, ossia che non vi sia spazio per valutazioni prettamente morali e che dal punto di vista giuridico non possa rinvenirsi alcun dovere di gratitudine. Diversamente ragionando ben potrebbe assumersi che l’adulterio sia sempre una mancanza di riconoscenza verso chi ha effettuato una liberalità; ma la giurisprudenza stessa, come detto, non è di tale avviso riscontrando i presupposti per la revocazione solo allorché al tradimento si accompagni un ulteriore atteggiamento del fedifrago, tale da configurare un vero sentimento di disistima.[9]
Come può facilmente evincersi dall’esame, forzatamente sintetico, dei precedenti giurisprudenziali il campo è dominato da mutevolezza ed incertezza, venendo troppo spesso in rilievo valutazioni di tipo morale che non possono che lasciare dubbi all’interprete.
[1] Giova precisare come, sebbene il sostantivo utilizzato dal legislatore rimandi istintivamente alle figure dell’ingiuria e diffamazione di cui alle norme in materia penale, da queste si distingua nettamente, già solo per la necessità in ambito civilistico di una valutazione della gravità della lesione, del tutto estranea al campo penale. Il parallelo con la disciplina penalistica si rivela utile al solo fine dell’individuazione del bene leso, che consiste “nell’onore o nel decoro della persona”.
[2] Cass. Civ., Sez. 2, n. 17188 del 24/06/2008
[3] Cass. Civ., Sez. 2, n. 13632 del 05/11/2001
[4] Cass. Civ., Sez. 2, n. 5310 del 29/05/1998
[5] Così Cass. Civ., sez. 2, n. 8165 del 28/08/1997
[6] Così Cass. Civ., n. 17188/2008 cit.
[7] Non fuori luogo il parallelo con l’ambito delle separazioni, ove al tradimento non consegue automaticamente l’addebito.
[8] Così Cass. Civ., Sez. 2, Sentenza n. 22013 del 31/10/2016. Si veda, nello stesso senso, Cass. Civ., Sez. 2, Ordinanza n. 20722 del 13/08/2018
[9] Si veda la citata Cass. 22013/2016, ove la Suprema Corte ha confermato la decisione impugnata che aveva ravvisato la ragione dell’ingratitudine non nella relazione extraconiugale in sé intrattenuta dal coniuge donatario, bensì nella circostanza che tale relazione era stata ostentata, anche fra le mura della casa coniugale, in presenza di una pluralità di estranei e, talvolta, anche del marito.
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