Accordo per la manleva del nuovo socio dalle eventuali conseguenze negative del conferimento
di Massimo Di Terlizzi - Studio Pirola Pennuto Zei e Associati Scarica in PDFCassazione civile ordinanza n. 17500 del 4 luglio 2018
È lecito e meritevole di tutela l’accordo concluso tra soci di società per azioni, con il quale, in occasione del finanziamento partecipativo di uno di essi, gli altri si obblighino a manlevare il nuovo socio dalle eventuali conseguenze negative del conferimento, mediante attribuzione a quest’ultimo del diritto di vendere (c.d. put), entro un determinato termine, e agli altri dell’obbligo di acquistare la partecipazione a un prezzo prefissato – pari a quello iniziale, con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società – ponendosi il meccanismo sul piano della circolazione delle azioni, piuttosto che su quello della ripartizione degli utili e delle perdite, la cui meritevolezza è insita nell’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario.
L’ordinanza n. 17500 del 4 luglio 2018 della Prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione offre un valido spunto per analizzare, in chiave “attuale” l’istituto del patto leonino (art. 2265 c.c.), secondo cui sono nulli gli accordi in base ai quali un socio venga escluso da ogni partecipazione agli utili o alle perdite.
In particolare, la pronuncia affronta un caso specifico, dal quale trarre alcuni principi generali, che riguarda la possibilità di considerare valido l’accordo parasociale in base al quale al nuovo socio, in sede di conferimento, sia concesso un diritto di vendere la propria quota di partecipazione (cd. opzione put), entro un dato termine e ad un prezzo fisso, corrispondente a quello pagato, oltre agli interessi, con il correlativo obbligo di acquisto a carico degli altri soci; sollevandolo, conseguentemente, da possibili perdite subite dal proprio “investimento”.
Anche se si sarebbe portati a propendere per una soluzione negativa, la pronuncia in commento arriva a conclusioni diverse e lo fa, prevalentemente, alla luce di una concezione della “causa concreta” o della “funzione concreta” del negozio posto in essere fra le parti.
Anche se la ratio del patto leonino è quella di evitare un’alterazione della causa del contratto di società, ontologicamente connaturato dal rischio d’impresa: investire capitale di rischio può comportare utili o perdite, sulla base dell’ordinanza in commento, si giunge ad affermare che il principio non può e non deve essere osservato in senso assoluto ed acritico allorquando i contingenti interessi della società, nel bilanciamento, appaiano limitati nel tempo e soprattutto prevalenti rispetto a quelli dei singoli soci.
Invero, con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte ha sostenuto la piena validità di un siffatto accordo parasociale, massimando il principio di diritto secondo cui: “È lecito e meritevole di tutela l’accordo concluso tra soci di società per azioni, con il quale, in occasione del finanziamento partecipativo di uno di essi, gli altri si obblighino a manlevare il nuovo socio dalle eventuali conseguenze negative del conferimento, mediante attribuzione a quest’ultimo del diritto di vendere (c.d. put), entro un determinato termine, e agli altri dell’obbligo di acquistare la partecipazione a un prezzo prefissato – pari a quello iniziale, con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società – ponendosi il meccanismo sul piano della circolazione delle azioni, piuttosto che su quello della ripartizione degli utili e delle perdite, la cui meritevolezza è insita nell’operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario”.
Il tema deve dunque essere posto e valutato su un duplice piano.
Sotto il profilo “strutturale” l’accordo si pone nell’ambito della circolazione delle azioni che, salvo limiti statutari o di legge, è in linea di principio del tutto libera, e non incorre di per sé nel divieto del patto leonino; invero quest’ultimo concerne la suddivisione dei risultati dell’impresa “con rilievo reale verso l’ente collettivo; mentre nessun significato in tal senso potrà assumere il trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo, allorché non alteri la struttura e la funzione del contratto sociale, né modifichi la posizione del socio in società, e dunque non abbia nessun effetto verso la società stessa: la quale continuerà ad imputare perdite ed utili alle proprie partecipazioni sociali”.
Nel caso di specie, infatti, la società è del tutto indifferente alle vicende giuridiche che si attuano in conseguenza dell’esercizio dell’opzione put a prezzo prefissato. Tali conseguenze si configurano come neutrali ai fini della realizzazione della causa societatis già solo per “la presenza di elementi negoziali idonei a condizionare il potere di ritrasferimento a circostanze varie, capaci di orientare la scelta dell’oblato nel senso della vendita, ma anche della permanenza in società; onde non ne viene integrata l’esclusione da ogni partecipazione assoluta e costante dalle perdite”.
Sotto il profilo della “funzione” concreta il patto viene ritenuto lecito, in quanto sorretto da una valida causa di finanziamento dell’impresa e di espansione dell’attività sociale (causa mista: associativa e di finanziamento), finanche più meritevole dei diritti dei soci intesi uti singuli, specie se contenuta entro il perimetro di un’operazione di “finanziamento” che, come nel caso di specie, ha finalità e tempistiche predeterminate.
E’ appena il caso di notare come la Prima Sezione, obiter dictum, accolga la teoria della causa in “concreto”, ossia della valutazione degli interessi perseguiti dalle parti nella loro oggettività; superando definitivamente la tradizionale teoria della causa negoziale come funzione economico-sociale.
La valutazione della causa concreta appare infatti molto più idonea ed efficace nel vaglio delle complesse figure elaborate dall’odierna prassi commerciale. In particolare l’ opzione put a prezzo prefissato sarà perfettamente lecita laddove la “ragione pratica del meccanismo (…) è proprio quella di finanziamento dell’impresa, anche indirettamente, mediante il finanziamento ad altro socio, nell’ambito di operazioni di alleanza strategica tra vecchi e nuovi soci”.
A ciò deve aggiungersi che il favor legislativo e la prassi sono peraltro da tempo allineate per la creazione di strumenti e tecniche di reperimento di capitale presso terzi volto all’incentivazione dell’attività d’impresa (strumenti finanziari partecipativi; obbligazioni, nelle varie tipologie; azioni di riscatto e di risparmio; pegno di azioni e/o quote ecc.), alternative al ricorso al tradizionale prestito bancario e per le quali risulta ormai superato il dogma della indissolubilità del nesso potere-rischio (si pensi, in particolare, agli strumenti finanziari partecipativi ecc.).
Da un punto di vista economico, infine, i benefici integrati dall’accordo in questione hanno un duplice effetto: da un lato, l’impresa è riuscita nell’intento di reperire capitale finanziario a condizioni ragionevolmente più favorevoli di quanto il sistema bancario potrebbe concederle (minor tasso d’interesse, assenza di costituzione di garanzie sulle partecipazioni ecc.), coinvolgendo peraltro un nuovo soggetto nella “vita” societaria; dall’altro, la partecipazione del socio acquista un carattere di maggiore flessibilità, vantaggiosa sia in caso di permanenza nella compagine sia in caso di eventuale dismissione.
La Corte ha pertanto ritenuto meritevole di tutela, ai sensi dell’art. 1322 c.c., lo schema così delineato di opzione put – anche considerata la difficile contingenza economica che, sempre più, mette a repentaglio il principio costituzionale di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., considerata la finalità di finanziamento, sottesa ad una operazione strategica di potenziamento ed incremento del valore societario, seppure realizzata con modalità atipiche.