17 Settembre 2024

Abuso del diritto: la disciplina tributaria non rileva davanti al giudice ordinario

di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF

Corte di Cassazione, Ordinanza del 02.02.2023 n. 3170, Sez. II, Presidente Dott. M. Bertuzzi, Estensore Dott.ssa L. Varrone

«Le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni. Infatti, solo l’amministrazione finanziaria, quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, è legittimata a dedurre (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per frode alla legge, ivi compresa la legge tributaria (art. 1344 cod. civ.) e, in tal caso, la relativa prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, anche attraverso presunzioni. In altri termini, la frode fiscale, diretta ad eludere le norme tributarie sui trasferimenti dei beni, trova soltanto nel sistema delle disposizioni fiscali la sua sanzione, la quale non è sanzione di nullità o di annullabilità del negozio. Il divieto di abuso del diritto in materia tributaria pertanto si traduce in un principio generale che opera esclusivamente nei confronti del Fisco per individuare la base imponibile di una determinata operazione o il reddito di un determinato soggetto o il disconoscimento della possibilità di ottenere determinate deduzioni ma la sua affermazione non incide sulla validità del contratto nei rapporti tra le parti contraenti.».

CASO

Con atto di citazione, Tizio conveniva in giudizio innanzi il Tribunale di Bergamo, la società Gamma e la società Beta deducendo di aver concluso con Gamma un contratto preliminare di compravendita per l’acquisto di un complesso immobiliare, successivamente emendato da negozi integrativi e chiedendo che venisse accertato il collegamento negoziale tra i due negozi in vista del trasferimento in capo a Tizio del complesso Delta, in Cologno al Serio e venisse dichiarata la nullità del contratto del 22 dicembre 2006 con cui era stata costituita la società Delta per la violazione di norme imperative ovvero in via subordinata per difetto di causa ovvero che venisse dichiarata la simulazione assoluta del contratto e l’annullabilità per errore o l’inefficacia della scrittura privata del 3 novembre 2008 poichè conclusa in mancanza dei presupposti o nell’erronea supposizione della sussistenza in capo a Tizio di un obbligo non ancora sorto in conclusione del contratto definitivo

L’attore infine chiedeva la condanna delle convenute ai sensi dell’art. 2932 c.c., il trasferimento in suo favore della proprietà del complesso immobiliare determinando una somma dovuta per ogni giorno di ritardo nell’adempimento e, in via subordinata, la condanna della società Gamma a restituirgli la somma di 1.070.000 oltre interessi.

Le società Gamma e Delta, si costituivano in giudizio chiedendo il totale rigetto delle domande attoree in quanto infondate in fatto ed in diritto.

Il Tribunale di Bergamo adito rigettava le domande di parte attrice nonchè la domanda riconvenzionale di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c.

Il giudicante deduceva che i motivi di nullità avanzati dall’attore con riferimento all’atto di costituzione della Società Delta del 22 dicembre 2006 non rientrava tra quelli enumerati dall’art. 2332 c.c., applicabile alle società a responsabilità limitata ai sensi e per gli effetti dell’art. 2463 c.c..

Inoltre escludeva che potesse sussistere la nullità di tutti i negozi perfezionatisi tra le parti per mancanza di causa o per contrarietà a norme imperative sulla base del fatto che questi sarebbero stati strumentali alla cessione a favore dell’attore degli immobili beneficiando così di una indebita riduzione dell’imposizione fiscale a carico di Tizio.

Invero, il Tribunale rilevava che al giudice ordinario è precluso accertare la nullità per violazione delle norme tributarie considerata la non rilevanza delle norme tributarie in materia civilistica.

Escludeva altresì che l’operazione negoziale pattuita tra le parti fosse sfornita di causa perchè dal tenore letterale delle clausole emergeva che le parti perseguivano la comune volontà di scambio di beni con denaro, permettendo all’attore – promissario acquirente – di manifestare la volontà in un termine differito rispetto all’offerta, per mezzo dell’utilizzo dello schema negoziale del patto di opzione; ancora, nella scrittura del 3 novembre 2008, le parti avevano previsto un’ultima e definitiva proroga del termine per l’accettazione, ivi prevedendo, che nel caso in cui il negozio non fosse andato a buon fine entro il 30 novembre del 2008 il medesimo avrebbe perso di efficacia e si sarebbe considerato risolto per inadempimento del promissario acquirente essendo scaduto il termine essenziale determinato dalle parti.

Avverso detta sentenza, l’attore in primo grado proponeva appello innanzi alla Corte di Appello di Brescia.

Si costituivano la società Gamma e la società Delta per ottenere il rigetto delle domande dell’appellante.

Con sentenza n. 1618 del 2017 depositata il 30 novembre 2017, la Corte distrettuale rigettava il gravame confermando la decisione del giudice delle prime cure.

In particolare, il giudice del gravame rilevava che in mancanza di uno specifico motivo di appello si era formato il giudicato sul rigetto della domanda relativa al difetto di causa e sulla decisione mediante la quale il giudice delle prime cure aveva rigettato la domanda di nullità dell’atto costitutivo della società perchè fondata sulla base di motivi estranei alle ipotesi tassative enumerate all’art. 2332 c.c..

Per tale ragione doveva essere ritenuta inammissibile la richiesta di dichiarazione di nullità per mancanza di causa – elemento del contratto espressivo della funzione economico sociale del negozio che l’attore in primo grado aveva formulato nella comparsa conclusionale ai sensi dell’art. 190 c.p.c.

Peraltro, la Corte d’Appello riteneva che la sentenza impugnata dovesse essere confermata relativamente alla impossibilità di accogliere la domanda di nullità ai sensi e per gli effetti dell’art. 1418 c.c., per la violazione di norme imperative – quali nel caso di specie norme tributari.

Segnatamente l’attore richiamava con il suo atto dei casi in cui la nullità per violazione delle norme tributarie era espressamente prevista dal legislatore e per questa ragione detti principi non potevano essere analogicamente estesi alla fattispecie del caso concreto trattandosi – tra l’altro – di una presunta ipotesi di elusione fiscale.

Per onere di completezza la Corte di secondo grado rilevava che non vi fosse alcuna prova della finalità elusiva della operazione commerciale mediante la costituzione della società Delta e la prova sul punto era onere dell’attore. Al contrario Tizio si era unicamente limitato ad argomentazioni prive di un riscontro documentale di tipo contabile e da considerarsi quali “mere illazioni”.

Lo stesso con riferimento alle istanze istruttorie, a prescindere dalla loro inammissibilità per mancanza di illustrazione dei motivi di rilevanza non potevano essere ammessi perchè non idonei a dimostrare la asserita elusione fiscale.

Soccombente anche in secondo grado Tizio proponeva ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi.

Le parti con memoria depositata insistevano con le rispettive richieste.

SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 3170 del 2 febbraio 2023, integralmente rigettato il ricorso condannava il ricorrente alla rifusione a favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 7.655,00 per esborsi oltre il 15% dei compensi a titolo di rimborso forfettario delle spese, iva e c.p.a. ex lege.

Dichiarava che sussistenti ex art. 13 co. 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del co.1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

QUESTIONI

Con il primo motivo il ricorrente denunciava la violazione degli artt. 342, 345 e 346 c.p.c., per avere la Corte distrettuale con sentenza dichiarato inammissibile, per intervenuto giudicato, la richiesta volta alla dichiarazione di nullità dei contratti oggetto di lite per difetto di causa.

La difesa di Tizio, infatti, sosteneva di aver devoluto alla cognizione del giudice di appello la censura sulla nullità per mancanza di causa e a tal fine richiamava l’atto di appello rilevando come la Corte abbia errato nell’aver ritenuto sussistente il giudicato interno su un capo della sentenza oggetto di specifica impugnazione da parte del ricorrente.

La Corte di Cassazione riteneva detto motivo inammissibile.

A fondamento di tale dichiarazione la Corte di legittimità evidenziava che la Corte di Appello di Brescia avesse ritenuto inammissibile la richiesta di declaratoria di nullità per mancanza di causa – quale funzione economico sociale che il contratto concluso tra le parti persegue – e che il diritto “riconosce rilevante ai fini della tutela apprestata come formulata nella comparsa conclusionale”.

Tuttavia, veniva precisato che il ricorrente Tizio avesse riportato uno stralcio del motivo di appello dal quale, al contrario, era evincibile una censura circa il difetto di causa in concreto e l’abuso di diritto stante la violazione delle norme tributarie, per la finalità elusiva dell’atto di costituzione della società Delta nonché dei contratti ad esso collegati.

Inoltre, con il detto motivo non indicava alcun altro motivo di nullità per mancanza di causa dei ridetti contratti diverso da quello relativo all’abuso del diritto e della asserita elusione delle norme in materia fiscale rispetto alle quali si è pronunciata la Corte del secondo grado.

Con il secondo motivo il ricorrente denunciava la violazione degli artt. 53 Cost., e 1418, comma 1, c.c. per avere la Corte d’Appello di Brescia escluso la sussistenza della nullità di contratti conclusi con finalità elusiva di norme tributarie in mancanza di una specifica normativa.

A fondamento del secondo motivo, il ricorrente riteneva che con la Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 23601 del 2017 avesse già smentito quanto per errore dedotto dalla Corte d’Appello sulla non rilevanza della violazione di norme tributarie con elusione in sede di giudizio civile.

Per la Corte di legittimità, anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

Innanzitutto occorre specificare cosa si intenda per elusione fiscale, ovvero per abuso del diritto (termini tra di loro sinonimi e riferibili alla medesima fattispecie).

L’abuso del diritto, accanto al fenomeno evasivo, è una fattispecie ugualmente riprovata da parte dell’ordinamento, tant’è vero che l’attività dell’Amministrazione finanziaria è finalizzata al contrasto sia dell’una che dell’altra ipotesi.

Ciò che distingue l’elusione dall’evasione fiscale è che la fattispecie evasiva si caratterizza per un comportamento illegittimo ed illecito direttamente in contrasto con una specifica previsione normativa che viene violata.

In sostanza la condotta evasiva è diretta alla sottrazione della materia imponibile, occultandola alle ragioni dell’Amministrazione tributaria, ed in quanto posta in essere in violazione di legge è contrastata dal legislatore mediante la previsione di specifiche fattispecie sanzionatorie sia di natura amministrativa che penale.

Al contrario la fattispecie elusiva – o di abuso del diritto – si caratterizza per la presenza di condotte assolutamente lecite, cioè non in contrasto con espresse previsioni legislative, pur perseguendo tuttavia un risultato disapprovato dall’ordinamento. Per l’effetto le medesime sono da ritenersi lecite ma non legittime.

La disciplina dell’abuso del diritto è attualmente contenuta nell’art. 10 bis, L. n. 212/2000 (cd. Statuto dei diritti del Contribuente) così come introdotto dal D.Lgs. n. 128/2015. Detta normativa è intervenuta per ripristinare un livello di prevedibilità degli effetti derivanti dalle scelte effettuate dal contribuente onde perfezionare la trasparenza del sistema fiscale italiano.

Secondo la ridetta norma l’abuso del diritto si configura come “una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.

La norma precisa altresì che “non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo e gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”.

In definitiva il legislatore ha individuato quelli che sono gli elementi costitutivi della fattispecie elusiva che sono: l’assenza di sostanza economica delle operazioni poste in essere; la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; la circostanza che il vantaggio è l’effetto essenziale dell’operazione economica eseguita dal contribuente.

In mancanza di uno dei presupposti, viene meno la fattispecie di abuso del diritto, secondo quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 93 del 2016.

Secondo altra risoluzione, n. 101, del medesimo anno dell’Agenzia delle Entrate, il giudizio deve essere effettuato procedendo: in primo luogo alla verifica dell’esistenza dell’indebito vantaggio fiscale, in difetto del quale l’analisi deve ritenersi perfezionata; al contrario, ove il detto presupposto sussista si prosegue nell’analisi circa la sussistenza degli ulteriori requisiti. Solamente laddove si riscontrasse la coesistenza di tutti gli elementi citati, allora, sarà possibile per l’Amministrazione finanziaria procedere alla verifica della fondatezza e non marginalità delle ragioni extrafiscali.

Orbene, posta la precisazione in ordine ai concetti di evasione fiscale ed elusione fiscale, la Corte di legittimità ha confermato quanto argomentato da parte della Corte distrettuale.

Il precedente richiamato da parte del ricorrente riguardava la materia delle locazioni, specificamente il caso di omessa registrazione dei contratti di locazione e i rispettivi principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, i quali, in verità, non sono minimamente applicabili in via analogica al caso dell’abuso del diritto per elusione.

Secondo la Corte di Cassazione è orientamento consolidato che “le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni[1].

La sola Amministrazione finanziaria, in quanto terzo interessato alla corretta applicazione delle imposte, è legittimata a rilevare la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal privato contribuente[2] – questo prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede di contenzioso tributario – ovvero la loro nullità per frode alla legge (anche tributaria). Peraltro, in detta ipotesi la prova può essere formulata con qualsiasi mezzo istruttorio, anche per mezzo di presunzioni.

Invero, la frode fiscale, volta all’elusione delle norme tributarie in ordine ai trasferimenti di beni (nel caso per cui è lite solo presunta e non altrimenti provata), trova solo nell’ordinamento tributario la propria disciplina sanzionatoria, che non comporta che la nullità ovvero l’annullabilità del negozio.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, “il divieto di abuso del diritto in materia tributaria si traduce in un principio generale che opera esclusivamente nei confronti del fisco per individuare la base imponibile di una determinata operazione o il reddito di un determinato soggetto o il disconoscimento della possibilità di ottenere determinate deduzioni ma la sua affermazione non incide sulla validità del contratto nei rapporti tra le parti contraenti”.

Sul punto, il richiamato art. 10 bis della l. n. 212/2000, prevede il generale principio secondo cui l’abuso del diritto per violazione della tributaria non comporta la nullità ma unicamente l’inefficacia relativa del negozio giuridico, oppure la sua inopponibilità all’Amministrazione finanziaria che può non riconoscerne i vantaggi, individuando i tributi in base alle norme e ai principi elusi e tenuto in considerazione di quanto versato dal contribuente in conseguenza delle operazioni economiche del caso concreto.

Infatti sempre ad avviso della Corte di Cassazione “gli atti negoziali compiuti dal contribuente a fini antielusivi per beneficiare di un trattamento fiscale più vantaggioso non sono nulli (salvo diversa previsione di legge) ma l’Amministrazione finanziaria ha il potere di riqualificarli prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle stesse per assoggettarli ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello altrimenti applicabile”.

Il ricorrente Tizio, pertanto, è caduto in confusione, scambiando l’abuso del diritto affermatosi nel tempo all’interno della materia fiscale con quello, diverso, da ricollegarsi ai rapporti tra le parti private.

I due concetti non sono minimamente sovrapponibili e l’abuso del diritto in ambito tributario non ha effetti sul piano dell’efficacia delle pattuizioni negoziali a meno che la legge non disponga diversamente.

E’ fermo, il principio in forza del quale non è possibile configurare la nullità contrattuale per le violazioni delle norme fiscali, così come stabilito dall’art. 10 bis l.n. 212/2000 e dall’art. 37 bis D.P.R. n. 600/1973.

Nell’ambito contrattuale, il concetto di abuso del diritto è configurabile laddove il titolare di un diritto soggettivo, anche in mancanza di divieti formali, lo eserciti in maniera tale da porsi in contrasto con i noti obblighi di correttezza e buona fede onde conseguire risultati diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti per un determinato potere o facoltà.

Lo conferma un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, che, con la pronuncia n. 10568 del 2013 disponeva che: “l’abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti”.

Nella materia civilistica, l’abuso del diritto inerisce ai rapporti intercorrenti tra le singole parti private, rilevando solo l’utilizzo distorto delle facoltà discendenti da un diritto di cui un soggetto ne è titolare diversamente dalla materia fiscale, ove si tutela un interesse di natura pubblica proprio dell’Amministrazione finanziaria.

Con il terzo motivo il ricorrente censurava la violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., per avere la Corte d’Appello di Brescia escluso la prova del carattere elusivo dell’operazione.

Secondo il ricorrente, lo stesso aveva fornito la prova che la società Delta fosse un soggetto sfornito autonomia patrimoniale e capacità operativa e imprenditoriale, creato all’uopo e consapevolmente con finalità di elusione.

Il ricorrente, pertanto, richiamava con il ricorso in Cassazione, tutti le produzioni e gli atti di causa a sopporto di tale argomentazione “a fronte del quale la corte territoriale si sarebbe limitata a rilevare l’assenza di riscontri documentali di natura contabile e riducendo le prove a mere illazioni”, con la conseguenza che “tale ultima affermazione non sarebbe supportata da alcuna argomentazione incorrendo nella violazione delle norme indicate in rubrica”.

La Corte di Cassazione riteneva, da ultimo, anche il terzo motivo di ricorso inammissibile.

Le deduzioni in ordine alla manza di prova dell’elusione asseritamente perpetrata dal controricorrente è elaborata dal giudice delle seconde cure ad abundatiam e per mera completezza di motivazione ad avviso dei giudici di legittimità.

Il rigetto del secondo motivo di ricorso rende a cascata inammissibile anche la terza ed ultima censura.

Sul punto il Supremo collegio riteneva di pronunciarsi dovendo ricorrere al consolidato principio di diritto secondo il quale “è inammissibile, in sede di giudizio di legittimità, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta “ad abundatiam”, e pertanto non costituente una “ratio decidendi” della medesima. Infatti, un’affermazione siffatta, contenuta nella sentenza di appello, che non abbia spiegato alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva di effetti giuridici non può essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto di interesse[3].

Così in definitiva pronunciandosi, la Corte di legittimità rigettava integralmente il ricorso proposto da Tizio.

[1] Cass. Civ. n. 4785/07

[2] Cass. Civ. n. 11055/21: “in tema di accertamento dei redditi, la disciplina antielusiva di cui all’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, non distingue tra interposizione fittizia – la quale ricorre quando, in forza di accordo simulatorio intercorrente tra interponente, terzo e interposto, si finge di contrarre con una persona, ma, in realtà, si vuole che gli effetti del negozio si producano nei confronti di un’altra persona diversa da quella che appare nell’atto – e interposizione reale – nella quale non vi è un accordo simulatorio tra le persone che prendono parte all’atto, il quale è effettivamente voluto; neppure presuppone necessariamente un comportamento fraudolento del contribuente, ma postula l’uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, tale da consentire di eludere l’applicazione del regime fiscale costituente il presupposto di imposta, essendo finalizzata a stigmatizzare operazioni volte ad aggirare la normativa fiscale alla luce del più generale principio del divieto di abuso del diritto”.

[3] Cass. Civ. n. 8755/18.

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