Aborto post-amniocentesi: responsabilità medica e riparto dell’onere probatorio
di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., Sez. III, 29.03.2022, n. 10050 – Pres. Travaglino – Rel. Spaziani
Responsabilità professionale – Attività medico-chirurgica – Responsabilità contrattuale del professionista – Responsabilità medica (anteriormente alla l. n. 24 del 2017) – Onere probatorio – Ripartizione e contenuto – Impedimento imprevedibile ed inevitabile – Nozione
(art. 1176 c.c. – art. 1218 c.c.)
Massima: “Nell’ipotesi in cui il paziente faccia valere la responsabilità del medico e della struttura sanitaria per danni derivatigli da un intervento che si assume svolto in spregio alle leges artis, l’attore è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della salute e nelle altre lesioni ad essa connesse. Di contro, è onere del convenuto, ove il già menzionato nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso concreto, o che l’inadempimento (ovvero l’adempimento inesatto) è dipeso dall’impossibilità di eseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile”.
CASO
La sentenza in commento trae origine da una delicata e complessa vicenda processuale, relativa ad un intervento di amniocentesi eseguito in modo imprudente ed imperito dal medico, il quale, contrariamente alle indicazioni della letteratura medica, aveva proceduto a tre inserzioni consecutive dell’ago nell’utero della gestante, provocandole il pericolo di aborto.
A seguito dell’indagine, immediatamente dopo l’uscita della donna dalla struttura ospedaliera, si era verificata una perdita di liquido amniotico, nell’immediatezza della quale la stessa veniva ricoverata presso il medesimo ospedale; una seconda volta, veniva ricoverata dopo una settimana ed una terza dopo alcuni altri giorni. I primi due ricoveri venivano interrotti per dimissioni volontarie della paziente, nonostante il parere contrario dei sanitari.
Nel corso dell’ultima degenza, si verificava l’evento abortivo.
Pertanto, la paziente ed il marito convenivano in giudizio il medico esecutore dell’amniocentesi e la struttura sanitaria, chiedendone la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del feto e del danno biologico temporaneo patito dalla donna.
Il Tribunale accoglieva la domanda, ma, a seguito dell’impugnazione della sentenza di primo grado, la Corte d’Appello la riformava, ritenendo non dimostrata la condotta imprudente ed imperita del medico (per aver inserito tre volte l’ago nell’utero), essendo fondata sulla dichiarazione testimoniale non affidabile della madre della gestante, la quale aveva riferito di avere assistito all’amniocentesi dietro ad un paravento, grazie ad una fessura aperta nello stesso.
La Corte di merito aveva ritenuto non attendibile la dichiarazione testimoniale, in quanto – al di là del rapporto affettivo tra la paziente e la testimone, il quale poteva far presagire che la seconda, sostenendo la tesi della prima, volesse scaricare sul medico e sulla struttura la responsabilità per l’aborto subìto dalla gestante – non appariva credibile che il personale medico avesse consentito ad un familiare della paziente di assistere ad un’indagine da eseguirsi in ambiente sterile; ed ancor meno credibile risultava il fatto che la testimone, posizionata dietro ad un paravento, avesse potuto vedere con precisione la triplice inserzione dell’ago nell’addome della figlia, a sua volta circondata dall’equipe medica.
La Corte d’Appello, invece, muoveva dal dato certo (risultante dalla documentazione sanitaria) del comportamento scarsamente prudente della paziente, che aveva, volontariamente e contro il parere dei sanitari, interrotto i primi due ricoveri.
Pertanto, non avendo la paziente fornito la prova del fatto, il medico veniva ritenuto esente da responsabilità.
Gli attori in primo grado impugnavano la sentenza in Cassazione, contestando la violazione delle norme sul riparto probatorio in tema di responsabilità sanitaria da parte della Corte d’appello.
SOLUZIONE
Una volta emerso e provato, sul piano presuntivo, il nesso causale tra il trattamento sanitario e l’evento dannoso, non spetta al paziente, che ha debitamente allegato l’errore del medico (asseritamente consistente, nella fattispecie, nell’indebita effettuazione di tre consecutivi prelievi di liquido amniotico, in contrasto con le indicazioni provenienti dalla letteratura medica), dimostrare tale circostanza, concretante l’inesatto adempimento della obbligazione professionale, ma spetta al professionista e alla struttura sanitaria dimostrare l’esatto adempimento, provando, in ossequio al parametro della diligenza qualificata di cui all’art. 1176 c.c., co. 2°, c.c., di avere eseguito la prestazione in modo corretto, attenendosi, anche in relazione al numero dei prelievi effettuati, alle regole tecniche proprie della professione esercitata.
QUESTIONI
Si premette che le conclusioni a cui giunge la Suprema Corte nella sentenza in commento sono parzialmente difformi – con riferimento alla responsabilità del medico, ma non a quella della struttura sanitaria – rispetto all’orientamento oggi maggioritario ed affermatosi a seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 24/2017 (c.d. Legge Gelli-Bianco), che ha stabilito, salvo casi particolari, la natura extracontrattuale della responsabilità del sanitario, conservando la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria.
Inoltre, la pronuncia in esame riafferma l’irretroattività della Legge Gelli-Bianco e conferma il corretto riparto dell’onere probatorio da applicarsi alle fattispecie precedenti al 2017, come quella in esame.
In tali casi, infatti, la Corte di Cassazione statuisce la necessità di applicare il disposto di cui all’art. 1218 c.c., escludendo l’inversione dell’onere della prova, che è caratteristica tipica della responsabilità extracontrattuale.
E veniamo all’esame della pronuncia n. 10050/2022.
La Suprema Corte accoglie il quinto motivo di ricorso, con cui i ricorrenti lamentavano la violazione delle regole del riparto dell’onere probatorio in tema di responsabilità sanitaria, sostenendo che, premessa la natura (allora) contrattuale sia della responsabilità del medico, sia di quella della struttura sanitaria (il caso, infatti, è anteriore all’entrata in vigore della legge n. 24/2017, e dunque la natura contrattuale della responsabilità vale sia per il medico, sia per la struttura), gravava su questi – in quanto debitori – la dimostrazione di aver fatto tutto il possibile per adempiere alla prestazione pattuita.
Tuttavia, erroneamente la Corte d’Appello avrebbe fatto dipendere il rigetto della domanda dalla mancata dimostrazione, da parte della paziente, del fatto colposo del medico, essendo gli attori danneggiati tenuti unicamente ad allegare, e non anche a provare, l’inadempimento o l’inesatto adempimento del medico e della struttura.
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte, riprendendo un consolidato orientamento, coglie l’occasione per chiarire che, nell’ipotesi in cui il paziente alleghi di aver subìto un danno in conseguenza di un’attività svolta dal medico (eventualmente, ma non solo, in base ad un vincolo di dipendenza con la struttura), in esecuzione della prestazione che forma oggetto del rapporto obbligatorio tra quest’ultima ed il paziente, sia la responsabilità della struttura, sia quella del medico vadano qualificate in termini di responsabilità contrattuale.
La struttura risponde a titolo contrattuale dell’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria concluso con il paziente, in conseguenza del suo ricovero presso la struttura. Corollario di siffatta impostazione è l’applicazione dell’ordinaria disciplina in tema di inadempimento di cui agli artt. 1218 c.c. (per la struttura sanitaria che deve adempiere personalmente) e 1228 c.c. (per il personale sanitario di cui la struttura si avvale).
Il medico risponde in via contrattuale, in conseguenza della violazione di un obbligo di comportamento fondato sulla buona fede e funzionale a tutelare l’affidamento sorto in capo al paziente, in seguito al “contatto sociale” avuto con il medico, che diviene quindi direttamente responsabile ex art. 1218 c.c. della violazione di siffatto obbligo.
La mancanza di contratto, infatti, non può neutralizzare la professionalità che qualifica ab origine l’opera del sanitario e che si traduce in obblighi di comportamento, la cui violazione fa sorgere una responsabilità a titolo contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Pertanto, sulla base di dette considerazioni, ne deriva l’applicabilità del criterio di riparto dell’onere della prova che presiede la responsabilità contrattuale, secondo il quale “il creditore che abbia allegato la fonte del suo credito e abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, spettando a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento” (Cass. civ., SS.UU., 30.10.2001, n. 13533).
Con particolare riferimento alla responsabilità medica, pertanto, il paziente è tenuto a provare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), anche il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della salute e nelle altre lesioni ad essa connesse (nella fattispecie, la perdita del concepito), con un grado prossimo al “più probabile che non”; mentre, è onere dei convenuti – ove venga dimostrato il suddetto nesso causale – provare o di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso concreto, o che l’inadempimento è dipeso dall’impossibilità di eseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile (cfr. Cass. civ., 26.11.2020, n. 26907), provando cioè che l’inadempimento (o inesatto adempimento) è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l’ordinaria diligenza.
Al riguardo, la Corte chiarisce che il concetto di imprevedibilità vada inteso come non imputabilità.
Viene, inoltre, specificato che, in caso di responsabilità professionale – e quindi anche medica –, è possibile identificare un evento di danno, quale lesione dell’interesse finale del creditore, ed un danno a seguito della lesione dell’interesse strumentale ex art. 1174 c.c., ovvero l’interesse all’esecuzione della prestazione richiesta secondo le leges artis. In virtù di tale distinzione, il creditore è chiamato a dimostrare il legame causale tra la condotta del professionista e il danno subìto, mentre il debitore resta gravato dalla prova dell’esistenza di un evento imprevedibile ed inevitabile.
Ora, a prescindere dal mancato accertamento della circostanza relativa alle tre inserzioni dell’ago nell’utero della paziente (mancato accertamento dovuto alla insindacabile valutazione delle risultanze istruttorie effettuata dalla corte territoriale, di esclusiva competenza del giudice di merito), la Suprema Corte ha concluso nel senso che la Corte territoriale non si è attenuta ai principi generali, sopra richiamati, in tema di riparto dell’onere della prova.
Infatti, la Corte d’Appello ha rigettato la domanda risarcitoria fondandola sull’omessa dimostrazione, da parte degli attori, dell’allegato errore del medico, confondendo la mancanza di prova, in relazione ad una prestazione eseguita senza attenersi alla letteratura medica, con l’onere probatorio a carico del debitore, posto che spettava a quest’ultimo fornire la prova liberatoria di avere adempiuto correttamente, dimostrando di non aver posto in essere una condotta imperita ed imprudente.
Secondo gli Ermellini, invece, nel caso di specie deve ritenersi provata, secondo i noti criteri presuntivi, il nesso causale tra il trattamento sanitario praticato dal medico ed il successivo evento abortivo (vista l’immediatezza temporale tra l’esecuzione dell’amniocentesi e la perdita del liquido amniotico, seguita a distanza di pochi giorni, dalla certificazione della rottura del sacco amniotico e dall’accertamento dell’avvenuto aborto). Ed in applicazione dei sopra menzionati criteri di riparto dell’onere probatorio, non sarebbe spettato (come la Corte territoriale aveva dichiarato) alla paziente provare la condotta imprudente ed imperita del medico, ma sarebbe spettato a quest’ultimo (ed alla struttura sanitaria) dimostrare che tale condotta non vi era stata, che la prestazione era stata eseguita con la diligenza professionale dovuta e che l’evento dannoso si era verificato per causa non imputabile al medico.
Ne consegue che la struttura sanitaria ed il professionista, al fine di andare esenti da responsabilità, avrebbero dovuto dimostrare l’esatto adempimento, provando in ossequio al parametro della diligenza qualificata di cui all’art. 1176, co. 2°, c.c., di avere eseguito il trattamento sanitario, l’amniocentesi, in modo corretto, attenendosi alle linee guida ed alle buone pratiche clinico-assistenziali adeguate alle specificità del caso concreto.
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