Peculiarità del riconoscimento del debito in sede di fallimento: il creditore resta sempre onerato di dare la prova del proprio credito al curatore
di Gian Luca Grossi - Studio Pirola Pennuto Zei & AssociatiMarcello Guerzoni - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati Scarica in PDFCorte di Cassazione Civile, Sez. I, Sentenza 14 febbraio 2019 n. 10215 (pubblicata in data 11 aprile 2019)
Parole chiave: riconoscimento del debito – verifica stato passivo – curatore fallimentare “terzo” – credito ipotecario – libero convincimento – efficacia probatoria – confessione stragiudiziale
Massima: “Nell’ambito del procedimento di verifica del passivo fallimentare, il riconoscimento di debito, posto in essere dall’imprenditore poi fallito, è liberamente apprezzabile dal giudice, al pari di quanto accade per la confessione stragiudiziale”
Disposizioni applicate: artt. 1988, 2697, 2735, 2901 c.c. artt. 93, 98 e 99 L.F.
La Prima Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza pubblicata in data 11 aprile 2019 n. 10215 si occupa del tema dell’efficacia probatoria del riconoscimento del debito nell’ambito del procedimento di verifica del passivo fallimentare e della sua “opponibilità”, ai fini dell’ammissione allo stato passivo.
La decisione a cui perviene la Suprema Corte origina da un ricorso promosso dal fallimento di una società (S.r.l.), avverso il Decreto con il quale il Tribunale competente si era pronunciato in ordine all’opposizione allo stato passivo promossa da una banca (esclusa per non avere debitamente provato l’esistenza del proprio credito).
In sede di verifica dei crediti, infatti, la Banca aveva chiesto l’ammissione al passivo, quale creditore privilegiato ipotecario, in forza di atto unilaterale di costituzione di ipoteca volontaria autenticato. Il Giudice Delegato aveva respinto la richiesta dell’istituto di credito in ragione dell’incompletezza della documentazione fornita e della mancanza di data certa anteriore al fallimento, aggiungendo peraltro che “a tale mancanza non può sopperire il riconoscimento del debito di cui all’atto di concessione di ipoteca volontaria del 22.12.2011 poiché tale riconoscimento non è opponibile al fallimento”.
A seguito dell’esclusione dallo stato passivo, la Banca proponeva quindi opposizione al Tribunale che l’avrebbe invece accolta, in quanto “il credito risultava provato – nonostante l’intempestività della produzione degli estratti conto – dall’atto di ricognizione contenuto nella scrittura privata autenticata” (i.e. l’atto di costituzione di ipoteca volontaria del dicembre 2011) posto che inoltre l’autentica di firma “attribuisce anche al detto atto data certa”.
Il Decreto del Tribunale, invero, citando in un passaggio la sentenza n. 27406 del 2008 della Corte di Cassazione osservava come la “ricognizione del debito non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha solo il più limitato effetto di sollevare il creditore di provare il proprio diritto”, fatto salvo il caso in cui il debitore deduca e dimostri in giudizio la nullità o l’inesistenza del rapporto obbligatorio.
Pertanto il fallimento ricorreva per Cassazione lamentando la violazione e/o la falsa applicazione non solo del combinato disposto dagli artt. 1988 e 2697 c.c. per avere “ritenuto efficace il contenuto dell’atto di ricognizione di debito … nei confronti del curatore fallimentare …”, ma anche della normativa fallimentare concernente la procedura di formazione dello stato passivo (in particolare artt. 93, 95 e 99 L.F.) con “conseguente illegittima ammissione al passivo fallimentare della Banca in via privilegiata”.
La Prima Sezione si interroga subito sul tema del valore da assegnare al riconoscimento di debito fatto dal fallito, in relazione alla prova del credito da parte del beneficiario il quale faccia domanda di insinuazione al passivo. Devesi in proposito ricordare come la ricognizione di debito sia secondo la disciplina civilistica un autonomo negozio giuridico unilaterale e recettizio che determina un’ipotesi di astrazione processuale (in tal senso la Relazione al codice civile n. 782) la quale “esonera dall’onere di provare il rapporto fondamentale il soggetto al quale è stata indirizzata” (cfr. in tal senso Cassazione civ., Sez. I, 20 dicembre 2016 n. 26334).
In particolare, osserva la Suprema Corte, il curatore – secondo un indirizzo ormai consolidato in seno alla stessa Giurisprudenza di Legittimità – è da considerarsi come “terzo qualificato di fronte al tema della prova del credito in sede di accertamento del passivo” (cfr. in tal senso anche Cassazione 22 novembre 2007 n. 24320), rappresentando gli interessi dei creditori e svolgendo una funzione di gestione temporanea del patrimonio del fallito. Posizione di terzietà anche nei confronti della confessione stragiudiziale emessa dall’imprenditore in epoca antecedente alla dichiarazione del suo fallimento (cfr. di recente Cassazione 19 ottobre 2017 n. 24690).
Prosegue la Corte osservando come “alla dichiarazione confessoria resa dall’imprenditore avanti al suo fallimento viene dunque negato – in ragione della presenza del curatore, soggetto considerato terzo – il valore di piena prova”. Tuttavia al pari di ogni altra prova desumibile dal processo resta comunque “liberamente apprezzabile dal giudice” (art. 2735 c.2 c.c.), non potendone conseguire, per converso, una deprivazione di ogni efficacia probatoria.
La Corte ha così ritenuto errata la decisione del Tribunale, in quanto fondata su di un’acritica applicazione della regola di diritto comune (i.e. il riconoscimento del debito come meccanismo di astrazione processuale che dispensa il creditore dall’onere di provare l’an del proprio credito) “così trascurando di considerare la posizione di terzo che il curatore viene ad assumere nell’ambito del procedimento di verifica dello stato passivo fallimentare; e così pure non facendo corretta applicazione della regola per cui, in tale contesto, il creditore rimane in ogni caso onerato di dare la prova del proprio diritto; in punto di quantum, non meno che in punto di an”.
Dunque, il principio di diritto espresso dalla Cassazione attiene alla necessità, ontologicamente contenuta nel procedimento di verifica concorsuale dei crediti, di far sì che il soggetto onerato di dar prova del proprio credito resti comunque il creditore della società dichiarata fallita, nonostante in precedenza fosse intervenuto un riconoscimento del debito. Tale principio, a ben vedere, consegue ed è intimamente connesso alla regola secondo la quale in sede di accertamento del passivo il curatore deve considerarsi quale soggetto terzo rispetto alla prova del credito.
Ulteriore aspetto di particolare interesse attiene alla precisazione da parte della Suprema Corte in merito alla possibilità del curatore, nell’ambito della redazione del progetto di stato passivo di cui all’art. 95 c.1 L.F., di “eccepire fatti modificativi, estintivi o impeditivi del diritto fatto valere, nonché l’inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione” invero “l’inefficacia” a cui fa riferimento l’art. 95 L.F., precisa la Prima Sezione, non è soggetta ad interpretazioni restrittive andando a ricomprendere anche l’azione revocatoria ordinaria di cui all’art. 2901 c.c. (eventualmente anche in riconvenzionale) nel ventaglio di azioni che il curatore, in qualità di rappresentante degli interessi di tutti i creditori, è legittimato a proporre.
La Prima Sezione ha di conseguenza accolto il ricorso del fallimento, cassando il Decreto del Tribunale impugnato dal ricorrente.