Soglie di non fallibilità. L’onere della prova “torna” sull’imprenditore quando i bilanci sono inattendibili
di Gian Luca Grossi - Studio Pirola Pennuto Zei & AssociatiMassimo Di Terlizzi - Studio Pirola Pennuto Zei e Associati Scarica in PDFParole chiave: soglie di fallibilità – non fallibilità – onere della prova dell’imprenditore – bilanci inattendibili – prudente apprezzamento del giudice
Massima: “In tema di fallimento, ai fini della prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità di cui all’art. 1, comma 2, l.fall., i bilanci degli ultimi tre esercizi che l’imprenditore è tenuto a depositare, ai sensi dell’art. 15, comma 4, l.fall., costituiscono strumento di prova privilegiato dell’allegazione della non fallibilità, in quanto idonei a chiarire la situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa, senza assurgere però a prova legale, essendo soggetti alla valutazione, da parte del giudice, dell’attendibilità dei dati contabili in essi contenuti secondo il suo prudente apprezzamento ex art. 116 c.p.c., sicché, se reputati motivatamente inattendibili, l’imprenditore rimane onerato della prova della sussistenza dei requisiti della non fallibilità”
Disposizioni applicate: artt. 1, 6 e 15 l.f. – art. 116 c.p.c – 2423 ss. e 2697 c.c..
La sentenza 25 ottobre 2018 n. 30516 della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione offre interessanti ed ulteriori spunti di meditazione sul tema del valore probatorio dei bilanci e sui relativi poteri “valutativi” del Giudice in ordine alla sussistenza delle soglie di non fallibilità (art. 1, comma 2, l.f.).
La vicenda traeva origine dal fallimento di una S.r.l. richiesto da un creditore (una lavoratrice che aveva proposto ricorso per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell’art. 6 l.f., per un credito derivante da rapporto di lavoro). A fronte della pronuncia di primo grado dichiarativa del fallimento, la fallita promuoveva reclamo alla Corte d’Appello la quale, a sua volta, avrebbe motivato il rigetto sulla base del fatto che “non vi fosse prova del ricorrere dei presupposti previsti dalla L. Fall., art. 1, comma 2, per escludere la declaratoria di fallimento, stante la totale inattendibilità dei bilanci prodotti, i quali non riportavano con la necessaria precisione l’entità dei debiti tributari di cui era stata accertata l’esistenza e il debito nei confronti della (OMISSIS) (n.d.r.: la lavoratrice) né trovavano riscontro nelle scritture contabili, che non erano state fornite al curatore”.
Avverso tale pronuncia della Corte territoriale, la società ricorreva pertanto per Cassazione sulla base di due motivi; resistevano il fallimento, in persona del Curatore nominato nonché la creditrice.
Con il primo motivo la fallita si doleva, in buona sostanza, della violazione dell’art 6 l.f. (legittimati a chiedere il fallimento), in quanto la Corte d’Appello “avrebbe avallato una declaratoria di fallimento pronunciata su sollecitazione di un soggetto che non poteva essere considerato creditore …, dato che il credito era contestato e la sentenza del Giudice del lavoro non era ancora passata in giudicato”.
La Prima Sezione della Corte precisa subito, con la pronuncia in commento, come il primo motivo di doglianza sia infondato infatti “la L. Fall., art. 6, laddove stabilisce che il fallimento è dichiarato, fra l’altro, su istanza di uno o più creditori, non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l’esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice, all’esclusivo scopo di verificare la legittimazione dell’istante ad assumere l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento”. E’ importante peraltro ricordare come tale principio fosse stato precedentemente affermato dalla Cassazione nella sua massima composizione (cfr., in tal senso, Cassazione, Sezioni Unite, 23 gennaio 2013 n. 1521).
A ben vedere la Corte territoriale aveva fatto rigorosa applicazione proprio del detto principio; osserva infatti la Cassazione, in merito, come la pubblicazione del dispositivo della sentenza da parte del Giudice del lavoro costituisca un titolo esecutivo idoneo a fondare l’esecuzione (ai sensi dell’art. 431 c.p.c.) nonché “accertamento incidentale” sufficiente ad attestare la legittimazione del creditore istante, ai sensi dell’art. 6 l.f..
Acclarata quindi l’infondatezza della prima doglianza della ricorrente la Corte si addentra nella disamina del secondo motivo con il quale la società lamentava, essenzialmente, la violazione dell’art. 1 comma 2 l.f.: la Corte territoriale infatti “avrebbe trascurato di considerare le risultanze dei bilanci degli esercizi 2011, 2012, 2013 e 2014 ritenendoli inattendibili”.
In proposito la Cassazione ricorda preliminarmente come il bilancio di esercizio assolva, prima di tutto, ad una funzione informativa (di pubblicità-notizia) della “stato di salute” della società, dovendone rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria ed il risultato economico dell’esercizio (art. 2423 c.c.). Funzione questa comune sia alla prospettiva “civilistica” sia a quella “fallimentare” del bilancio. Ed infatti, prosegue la Prima Sezione, “i bilanci degli ultimi tre esercizi che l’imprenditore è tenuto a depositare, ai sensi della L. Fall., art. 15, comma 4, sono quelli approvati e depositati nel registro imprese, ai sensi dell’art. 2435 c.c.”.
A questo punto la Corte ricorda come, conformemente ai principi generali in tema di onere della prova, anche la Legge Fallimentare ponga a carico dell’imprenditore la dimostrazione di essere esente da fallimento “non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento … gli imprenditori … i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti”, ossia di non aver superato le così dette soglie di fallibilità (art. 1 comma 2 l.f.). A tal fine la Corte rammenta come “i bilanci degli ultimi tre esercizi costituiscono la base documentale imprescindibile, ma non anche prova legale”. Ne consegue che essi sono sottoposti al vaglio del giudice secondo il criterio del libero apprezzamento, valendo il principio di cui all’art. 116 c.p.c..
Peraltro è la stessa Corte a evidenziare come in materia fallimentare vi sia parimenti “un ampio potere di indagine officioso in capo allo stesso organo giudicante, nient’affatto limitato dall’avvenuta o meno produzione dei bilanci, tenuto conto, da una parte, che il Tribunale, ai sensi della L. Fall., art. 15, comma 4, dopo aver ordinato al debitore fallendo il deposito dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi nonché di atti da cui risulti una situazione economica aggiornata, può comunque chiedere informazioni urgenti e avvalersi a tal fine di ogni organo pubblico a ciò competente, dall’altra che la L. Fall., stesso art. 1, comma 2, lett. b), chiarisce che i dati relativi all’ammontare dei ricavi lordi realizzati dal debitore nel triennio antecedente alla data di deposito della istanza di fallimento sono utilizzabili in “qualunque modo risulti” e quindi non soltanto sulla base delle allegazioni probatorie del debitore”.
Secondo il giudizio della Corte di Cassazione “nel caso di specie la corte territoriale, con motivazione senz’altro ragionevole e ispirata ai principi sopra illustrati, ha ravvisato l’inattendibilità dei bilanci prodotti dalla società debitrice per una pluralità di motivi”.
Pertanto sarebbe a questo punto spettato all’imprenditore “provvedere altrimenti alla dimostrazione del mancato superamento dei limiti dimensionali che escludevano la sua fallibilità”. Infatti a fronte del giudizio espresso dalla Corte territoriale circa l’inattendibilità dei bilanci prodotti e la mancata circostanziata contestazione da parte del ricorrente, l’imprenditore avrebbe dovuto dimostrare aliunde il mancato superamento dei detti limiti dimensionali.
La Corte ha così rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al rimborso in favore di ciascuno dei controricorrenti delle spese del giudizio.