Nel divorzio su domanda congiunta il coniuge non può revocare il consenso nel corso del procedimento
di Giuseppina Vassallo, Avvocato Scarica in PDFCass. Civ. VI sez. Ordinanza n. 19540 del 24 luglio 2018
Divorzio su domanda congiunta – irrevocabilità consenso – emissione sentenza – (legge 1 dicembre n. 898/1970 art. 4 comma 16)
In materia di divorzio su domanda congiunta, la revoca del consenso da parte di uno dei coniugi è irrilevante perché non impedisce al giudice di verificare la sussistenza dei presupposti di legge per l’emissione della sentenza di divorzio, per la quale è stato adito il Tribunale.
La revoca è inoltre inammissibile poiché la natura negoziale e processuale dell’accordo intervenuto tra le parti in ordine alle condizioni del divorzio ed alla scelta dell’iter processuale, non consente ripensamenti unilaterali.
CASO
In seguito al deposito di ricorso congiunto per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, la moglie, in sede di comparizione in udienza presidenziale, non conferma il suo consenso agli accordi.
Il tribunale di Pescara ritiene, per tale motivo, improcedibile la domanda congiunta dei coniugi.
Il marito ricorre in appello ma la Corte territoriale dell’Aquila conferma la decisione del tribunale, con la necessaria conseguenza di dover introdurre una domanda di divorzio giudiziale.
In cassazione, il ricorrente ritiene violate le norme sulla legge divorzile, facendo rilevare che a differenza della separazione consensuale, la revoca unilaterale del consenso, non è di ostacolo all’emissione della sentenza da parte del giudice, che dovrà verificare soltanto l’esistenza dei presupposti richiesti dall’art. 3 di cui alla legge sul divorzio.
SOLUZIONE
L’ordinanza della Corte n. 19540 del 24 luglio 2018, ribadisce la diversa efficacia della revoca del consenso all’ accordo nel giudizio di omologa della separazione e nel giudizio di divorzio su domanda congiunta e conferma il recente orientamento in materia.
La sentenza della Corte territoriale aveva concordato con il giudice di prime cure, circa l’improcedibilità della domanda, in forza dei principi applicabili in materia di revocabilità del consenso nel giudizio di separazione consensuale.
La separazione consensuale, secondo l’orientamento dominante soprattutto nella giurisprudenza di merito, trova la sua unica fonte nel consenso manifestato dai coniugi di fronte al presidente del tribunale, poiché l’art. 158 c.c., fa dipendere la separazione dal solo consenso dei coniugi.
La successiva omologazione si pone come mera condizione di efficacia dell’accordo, che di per sé è già un negozio giuridico perfetto e autonomo (Cass. Civ. 30 aprile 2008 n. 10932).
Il decreto di omologazione è emesso nell’ambito di un procedimento di volontaria giurisdizione ed è un provvedimento con il quale il tribunale, esercitato il controllo sull’osservanza del rito e sulla conformità delle clausole convenzionali alle norme imperative che regolano la materia e all’ordine pubblico, attribuisce efficacia giuridica all’accordo già intervenuto tra le parti.
L’accordo di separazione costituisce pertanto un atto essenzialmente negoziale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, mentre al giudice è attribuito il potere/dovere di controllo nell’ambito della procedura di omologazione, destinata a concludersi con un decreto che è condizione di efficacia del consenso già manifestato e non con una sentenza costitutiva dei rapporti tra i coniugi separati.
Di conseguenza, se il dissenso unilaterale è manifestato dopo che i coniugi hanno confermato di fronte al presidente la propria volontà di separarsi alle condizioni contenute nel ricorso, ma prima dell’emissione del decreto di omologa, la revoca è considerata irrilevante poiché l’accordo si considera già perfezionato.
Nell’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione afferma che nel divorzio congiunto, la domanda contenente l’accordo ha una duplice natura: ricognitiva, con riferimento ai presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale, che sono soggetti a verifica da parte del tribunale, e negoziale, per quanto riguarda le condizioni relative ai figli, i rapporti economici ecc.., nel cui merito il tribunale non entra, a meno che le clausole pattuite non siano in contrasto con l’interesse dei figli minori o di soggetti deboli.
Inoltre, diversa è la natura e diverse sono le caratteristiche dei due tipi di procedimenti.
Mentre il procedimento di separazione consensuale è compreso tra quelli di giurisdizione volontaria, il procedimento di divorzio su domanda congiunta appartiene alla categoria della giurisdizione contenziosa.
La conclusione è che il ritiro della dichiarazione ricognitiva non preclude al tribunale il controllo dei presupposti necessari per la pronuncia del divorzio, ed è pertanto irrilevante.
E’ invece inammissibile in relazione al consenso prestato nel “negozio”, dal momento che la natura negoziale e processuale dell’accordo tra le parti in ordine alle condizioni del divorzio ed alla scelta dell’iter processuale, non permette ripensamenti unilaterali.
Come già affermato dalla stessa Corte – con la sentenza del 13 febbraio 2018 n. 10463 – poiché la fattispecie non è da considerarsi come somma di distinte domande di divorzio o come adesione di una delle parti alla domanda dell’altra, ma come iniziativa comune e paritetica, la domanda è rinunciabile soltanto da parte di entrambi i coniugi.
La Cassazione ha pertanto accolto il ricorso censurando la sentenza impugnata per essersi limitata a dare atto della revoca del consenso da parte della moglie, senza esaminare il contenuto della relativa dichiarazione, e per aver omesso di pronunciare sul merito della domanda, nonostante la sussistenza dei presupposti per lo scioglimento del vincolo coniugale e la rispondenza dell’accordo agli interessi dei minori coinvolti.
QUESTIONI
La Cassazione ha escluso, quindi, nel giudizio di divorzio su domanda congiunta, la possibilità di ripensamenti unilaterali, una volta scelto l’iter processuale, perché fondato su “iniziativa comune e paritetica”, rinunciabile soltanto da parte di entrambi i coniugi.
Nel caso in cui il consenso sia stato prestato per errore, violenza o dolo, tali vizi della volontà possono essere fatti valere in un separato giudizio ordinario finalizzato alla dichiarazione di nullità degli accordi.
Nel caso in cui ci siano fatti sopravvenuti alla prestazione del consenso, il coniuge può domandare la modifica degli accordi ai sensi dell’art. 710 c.p.c. o dell’art. 9 della legge sul divorzio.