16 Ottobre 2018

La revocatoria delle rimesse su conto corrente scoperto

di Massimo Di Terlizzi - Studio Pirola Pennuto Zei e Associati Scarica in PDF

Corte di Cassazione Ordinanza n. 21694 del 6 settembre 2018

Parole chiave: Revocatoria fallimentare – Rimesse bancarie – Anticipo su fatture – Mandato all’incasso – Cessione del credito

Deve ritenersi legittima la revocatoria fallimentare delle rimesse effettuate nel periodo sospetto in quanto aventi natura solutoria laddove l’anticipazione dell’importo delle fatture da parte della banca non è stata accompagnata dalla cessione dei crediti a garanzia dei relativi finanziamenti ma solo dal conferimento di un mandato all’incasso: la carenza di ritrascrizione, almeno per punti essenziali, delle singole pattuizioni consente di ritenere che quegli incassi da terzi in realtà siano stati direttamente utilizzati dalla banca per ridurre l’esposizione generale ed unitaria raggiunta dal cliente e contabilizzata in altra sede, dunque a prescindere dalla vicenda della singola sovvenzione di provvista.”

Disposizioni applicate: art 67 L.F. – artt. 1260, 1264, 1265 c.c.

La Sesta Sezione della Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 21694 del 6 settembre 2018, ha deciso sul ricorso proposto da un istituto bancario avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari n. 1700/2015 che aveva dichiarato l’inefficacia ex art. 67 l.f. delle rimesse compiute nel biennio precedente da una S.a.s. poi fallita, resistente in sede di ricorso per cassazione, sul proprio conto corrente non assistito da affidamento.

Nella parte motiva dell’ordinanza la Suprema Corte ha osservato, accogliendo favorevolmente il ragionamento della Corte d’Appello di Bari, che: i) la Banca non ha dato prova dell’esistenza di un rapporto di conto corrente, ii) ai fini della loro revocabilità, i pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili prescindono dai negozi giuridici sottostanti i pagamenti stessi, iii) ancora, ai fini della revocatoria, bisogna considerare anormali le operazioni di anticipazioni su fatture non in quanto tali, ma per lo scopo da queste perseguito, ovvero l’eliminazione della scopertura del c/c, iv) infine, l’istituto bancario non ha dato prova di non essere a conoscenza dello stato di crisi della società successivamente fallita (c.d. scientia decoctionis).

L’istituto bancario ha proposto ricorso per due motivi, entrambi dichiarati infondati dalla Corte di Cassazione, in base ai quali ha sostenuto che, da un lato, le rimesse in pagamento delle anticipazioni costituiscono mezzi normali di pagamento di contestuali cessioni di credito e, dall’altro, la Corte di Appello di Bari non si è pronunciata sulla revocabilità dei negozi di cessione, ma ha provveduto solo a revocare le rimesse per le anticipazioni contro cessioni di credito.

Quanto al primo motivo di ricorso la Corte di Cassazione ha sostenuto che la banca ricorrente ha introdotto solo innanzi ad essa, per la prima volta, la tesi per la quale le rimesse dovrebbero esser qualificate come adempimenti di cessioni di credito, peraltro non indicando quando avrebbe introdotto la questione innanzi ai giudici di merito.

Quanto al secondo motivo del ricorso, la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la ricostruzione del rapporto compiuta dai giudici di merito, i quali escludendo la sussistenza di un rapporto di conto corrente tra la banca e la società, nel quale la prima era tenuta ad eseguire operazioni di credito passive in favore della seconda, tenendo ferma la disponibilità per un dato periodo di tempo, ed hanno preferito altresì un’interpretazione del rapporto come orientato alla restituzione ad nutum delle somme. D’altronde, lo ribadisce la Corte stessa, l’istituto bancario ricorrente non trascrivendo nuovamente la regolamentazione pattizia del rapporto, o anche solo una sua parte, con la precisa indicazione circa la reale natura dei pagamenti, non ha fatto altro che convincere i giudici che quegli incassi siano stati direttamente utilizzati dalla banca per ridurre l’esposizione debitoria generale, a prescindere dalla singola sovvenzione di provvista sottostante.

Rebus sic stantibus, gli Ermellini non hanno potuto che constatare come tali pagamenti siano stati utilizzati per ridurre l’esposizione debitoria generale del soggetto fallendo nei suoi confronti, obbligando alla rigida applicazione dell’art. 67 l.f.

Ancora, la Corte di Cassazione, concordando con l’interpretazione dei giudici di merito, ha individuato uno dei punti chiave del proprio ragionamento nel mancato conferimento dell’idonea garanzia della cessione del credito da affiancarsi all’anticipazione degli importi su fatture, non ritenendo sufficiente, a tal fine, il solo conferimento di mandato all’incasso.

Ebbene, la differenza tra la figura del mandato all’incasso e la cessione del credito è da individuarsi nella sostanziale titolarità del credito, la quale, nel caso della cessione del credito, trasla in capo al soggetto cessionario, con conseguente legittimazione di questo di pretendere la prestazione del debitore ceduto, mentre nel caso del mandato all’incasso la titolarità del credito resta unicamente in capo al mandante ed al mandatario spetta la sola legittimazione alla riscossione del credito.

Ancora, la Corte precisa che nel caso del mandato all’incasso la funzione di garanzia comunque si realizza, seppur in via unicamente empirica, in virtù del fatto che al momento dell’incasso della fattura, l’istituto bancario trattiene le somme riscosse mettendo in atto una semplice differenza tra l’anticipo su fattura concesso e la somma appena incassata.

Pertanto la Cassazione, richiamando il proprio consolidato orientamento, ha concluso che “le rimesse effettuate sul conto corrente scoperto del fallito, nel periodo in cui questi era ‘in bonis’, da parte di terzi debitori del medesimo sono revocabili anche qualora siano inerenti ad anticipazioni su fatture esibite dal fallito in quanto, in mancanza della cessione di detti crediti alla banca e dell’assunzione da parte del terzo di obbligazioni nei confronti della medesima, le rimesse hanno funzione satisfattoria, in quanto riducono l’esposizione debitoria del cliente nei confronti della banca” (Cass. n. 23261/2014 e Cass. n. 9387/2011).

Infatti la Suprema Corte ha ritenuto che tali pagamenti, ancorché fondati su obbligazioni preesistenti, non fossero qualificabili “né come adempimento da parte del terzo di obbligazioni del correntista verso la banca, né come adempimento di obblighi di garanzia (Cass. n. 7074/2005), integrando invece la fattispecie di atto revocabile ai sensi dell’art. 67 l.f., in quanto tali versamenti sono stati utilizzati dall’istituto bancario per ridurre l’esposizione debitoria del cliente.

In conclusione, la funzione ultima svolta da tali versamenti in virtù del mandato all’incasso, individuata nella natura satisfattiva e solutoria di tali pagamenti, integra il requisito dell’anormalità del pagamento attraverso quei “mezzi diversi dal denaro”, idoneo a configurare la revoca di tali atti ai sensi dell’art. 67 l.f., in quanto considerabili pregiudizievoli per il ceto creditorio. La Corte ha chiarito che la revocabilità di tali atti solutori non necessita della contestuale revoca del mandato, ma è necessaria una attenta indagine della funzione effettiva del negozio impiegato, che in questo caso non può non integrare gli estremi della fattispecie revocatoria.

L’ordinanza in commento conferma l’orientamento evolutivo della Cassazione in fatto di interpretazione della funzione autentica o “ratio economico sociale” sottostante i negozi giuridici. Solo un’indagine condotta in tal senso può, infatti, condurre ad una corretta qualificazione del negozio ai fini dell’applicabilità o meno dell’art. 67 l.f.

Le rimesse bancarie così come sono state considerate dall’interpretazione dei giudici di merito prima e della Corte di Cassazione poi, hanno ridotto nei fatti in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria della società fallita, violando così il requisito richiesto dalla legge fallimentare per evitare l’assoggettabilità di tali atti al regime della revocatoria.