15 Maggio 2018

Sui rapporti tra diritti autodeterminati e novità della domanda ex art. 345, comma 1 c.p.c.

di Marco Russo, Avvocato Scarica in PDF

I. La nozione di diritto autodeterminato.

Si intende per “diritto autodeterminato” il diritto individuabile in base alla «sola indicazione del relativo contenuto quale rappresentato dal bene che ne forma l’oggetto» (come da definizione resa da ultimo Cass., 23 febbraio 2017, n. 4681; in precedenza Cass., 22 gennaio 2013, n. 1495): appartengono a tale categoria la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, con l’effetto processuale che la causa petendi delle relative azioni (ossia uno dei tre elementi, insieme alle personae e al petitum) si identifica con il diritto stesso, e non con il titolo che ne costituisce la fonte.

Essi si distinguono dai diritti eterodeterminati, quali i diritti relativi (di obbligazione al pagamento di una somma di denaro o alla consegna di determinati beni fungibili), per la cui individuazione sono necessari sia l’indicazione del petitum, sia l’indicazione della causa petendi.

La principale conseguenza operativa della distinzione si manifesta, in primo grado, sul piano della possibile modifica della domanda nei limiti consentiti dall’art. 183 c.p.c.

Per i diritti eterodeterminati l’ampiezza di tale possibilità è stata ampliata dalle Sezioni Unite soltanto nel 2015, a revisione del precedente e più restrittivo orientamento,  con l’affermazione del principio di diritto per cui la modificazione è ammessa anche se riguarda due degli elementi identificativi della domanda sul piano oggettivo (e dunque petitum e causa petendi) quando la variazione costituisca la soluzione più adeguata agli interessi della parte in relazione alla vicenda sostanziale dedotta in lite e con il limite che quest’ultima sia uguale quella dedotta in giudizio con l’atto introduttivo, o quanto meno vi sia «connessa a vario titolo» (Cass., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310).

In materia di diritti autodeterminati la giurisprudenza ha tradizionalmente assunto un atteggiamento più permissivo, tanto da spingersi ad affermare che la predetta individuazione della causa petendi con il diritto stesso e non con la sua fonte comporta (i) l’assimilazione della specificazione dei fatti o atti da cui dipende l’acquisto del diritto vantato a meri «fatti secondari», come tali liberamente allegabili in prima udienza (Cass., 17 novembre 2014, n. 24400), e (ii) il potere-dovere del giudice, avanti al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale, di rilevare anche d’ufficio l’esistenza di una causa di nullità diversa da quella allegata dall’istante, «essendo quella domanda pertinente ad un diritto autodeterminato, sicché è individuata indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio».

Così da ultimo Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242 (con la precisazione che la rilevabilità d’ufficio per la prima volta in appello va intesa nel senso che il giudice di secondo grado ha il potere-dovere di esaminare la questione indipendentemente dall’allegazione soltanto se il giudice di prime cure ha radicalmente omesso di rilevare la diversa causa di nullità, mentre deve ritenersi formato il giudicato interno qualora il giudice l’abbia rilevata per escluderla e il soccombente non abbia appellato il relativo capo della sentenza).

Nello stesso senso, in applicazione del dictum delle sezioni unite, Cass., 4 maggio 2016, n. 8795 ha ritenuto il principio «suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, nell’ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti», e ne ha dedotto che deve essere riconosciuto al giudice il potere di rilevare d’ufficio la nullità di una delibera anche in difetto di un’espressa deduzione di parte o per profili diversi da quelli enunciati, purché desumibili dagli atti ritualmente acquisiti al processo e previa provocazione del contraddittorio sul punto, «trattandosi di potere volto alla tutela di interessi generali dell’ordinamento, afferenti a valori di rango fondamentale per l’organizzazione sociale, che trascendono gli interessi particolari del singolo», ritenendo conseguentemente non viziata da ultrapetizione la decisione di rigetto della domanda di pagamento del prezzo di un pacchetto azionario fondata su un vizio radicale della rappresentazione economico-finanziaria della società emergente dalla delibera di approvazione del bilancio annessa al contratto di compravendita, ancorché originariamente non contestato dall’acquirente.

II.I riflessi sul concetto di novità della domanda in appello.

La possibilità di allegare il nuovo titolo nel corso del giudizio di primo trova riscontro, sul versante delle impugnazioni, nell’affermazione per cui il soggetto che agisce a tutela di un diritto autodeterminato è ammesso a dedurre un titolo diverso rispetto a quello inizialmente posto a fondamento della propria pretesa, senza che ciò comporti profili di novità ex art. 345, co. 1, c.p.c. neanche nell’ipotesi in cui risulti che il fatto nuovo (si pensi all’usucapione del bene da parte di colui che in primo grado ha proposto una domanda di rivendica fondata sul fatto costitutivo dell’acquisto del bene per contratto) non aveva trovato alcun accenno nelle difese in primo grado.

È consolidato infatti in giurisprudenza l’orientamento per cui in materia di diritti autodeterminati non viola il divieto di ius novorum in appello la deduzione per la prima volta in sede d’impugnazione di un titolo d’acquisto del diritto di proprietà diverso rispetto a quello che, in primo grado, era stato posto dalla stessa parte a fondamento della domanda (da ultimo, v. la recentissima Cass., 24 aprile 2018, n. 10074, che ha ritenuto ammissibile l’allegazione in appello dell’acquisto della proprietà a titolo derivativo a fronte dell’originaria prospettazione che voleva il diritto acquistato per usucapione; Cass., 17 ottobre 2017,  n. 24435).

L’ammissibilità della deduzione in appello di un nuovo titolo d’acquisto della proprietà è affermata da Cass., 19 dicembre 2011, n. 27521, secondo cui «introdotto il giudizio per il riconoscimento dell’usucapione abbreviata di cui all’art. 1159 bis c.c., il giudice, ove ne sussistano i presupposti, può accogliere la domanda di usucapione ordinaria senza incorrere nel vizio di extrapetizione, né tale domanda può ritenersi inammissibile ove sia proposta per la prima volta in grado di appello, se il decorso del più ampio termine sia stato oggetto di specifiche allegazioni e prove ufficialmente introdotte in causa»; Cass., 24 maggio 2010, n. 12607; Cass., 4 marzo 2003, n. 3192; Cass., 22 giugno 1995, n. 7074, secondo cui in materia di diritti autodeterminati i diversi titoli «costituiscono la prova del diritto del quale si chiede l’accertamento e danno luogo sempre ad un’unica azione, sicché essi possono essere indifferentemente adottati in primo ed in secondo grado, senza trovare ostacolo nel divieto delle nuove domande in appello» (nella fattispecie, la Corte ha ritenuto che, fondata la domanda nel giudizio di primo grado sulla titolarità di una servitù in forza di usucapione, fosse deducibile in appello la costituzione della medesima servitù per destinazione del padre di famiglia ex art. 1062 c.c., «restandosi pur sempre nell’ambito dell’actio confessoria servitutis, che può essere fondata su una molteplicità di titoli»); Cass., 5 ottobre 1993, n. 9838, secondo cui «con riguardo al giudizio instaurato per la declaratoria dell’acquisto per usucapione di un bene (nella specie, sepolcro), la deduzione in appello di un ulteriore modo di acquisto (nella specie diritto di sepolcro) non configura una domanda nuova inammissibile ex art. 345 c.p.c.»; Cass., 28 agosto 1993, n. 9134, ha ammesso la deduzione in appello dell’usucapione ordinaria in luogo di quella decennale (mentre il passaggio inverso era stato ritenuto inammissibile dalla meno recente Cass., 11 aprile 1991, n. 3815).

La soluzione adottata dalla giurisprudenza incontra in realtà non poche critiche in dottrina.

Nella facoltà, accordata a chi agisca a tutela di un diritto autodeterminato, di fondare le proprie ragioni in appello su un titolo d’acquisto diverso rispetto a quello posto a fondamento della domanda proposta in primo grado si è infatti ravvisata la violazione di uno dei principi cardine del processo civile uscito dalla riforma del 1990, quale l’inammissibilità di deduzioni di merito successive al maturare delle preclusioni previste nel giudizio davanti al primo giudice.

Corollario di questo principio è la centralità del giudizio di primo grado, la quale, secondo la stessa dottrina, risulta irrimediabilmente pregiudicata da un orientamento che sostanzialmente consente l’aggiramento della barriera preclusiva alle nuove deduzioni e, così operando, legittima lo stravolgimento in appello delle prospettazioni in fatto e in diritto che pure, salvo la disciplina delle domande e delle eccezioni nuove in appello di cui ai primi due commi dell’art. 345 c.p.c., avrebbero dovuto trovare tendenziale cristallizzazione negli atti del primo grado di merito (in questo senso Chiarloni, Appello. I – Diritto processuale civile, in Enc. giur., II, Roma, 1995, 12, secondo cui il primo comma della stessa disposizione non ha il solo scopo di «garantire il rispetto del doppio grado di giurisdizione», ma «ha altresì la funzione di riaffermare in appello un’importante preclusione, nell’ambito di strutture generalmente congegnate in modo da garantire che le difese delle parti non vengano a loro arbitrio diluite nei due gradi del giudizio di merito, ma vengano tutte quante avanzate in limine in primo grado»).

III. L’argine (sul piano della prova) offerto dall’art. 345, co. 3, c.p.c.

In realtà, un temperamento al regime di libera deducibilità in appello di nuovi titoli fondanti il diritto autodeterminato trova la premessa (come rilevato implicitamente anche dalla giurisprudenza e, expressis verbis, da Cass., 23 dicembre 2010, n. 26009, ancora in applicazione dell’art. 345, co. 3, c.p.c. antecedente alla riforma operata dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) non tanto sul fronte dell’allegazione, quanto su quello della prova e, in particolare, nella sempre più stringente disciplina delle prove nuove in appello nel rito ordinario, che, nell’attuale versione del secondo capoverso del citato art. 345, ammette le sole prove che la parte non abbia potuto proporre in primo grado per causa a sé non imputabile, con esclusione dell’ultima valvola di sfogo del sistema, contenuta nella formulazione previgente, delle prove ritenute «indispensabili» dal collegio.

Sotto la formulazione della norma precedente alla novella del 2012 infatti la preclusione alla proposizione di nuovi mezzi istruttori a dimostrazione del nuovo fatto costitutivo del diritto autodeterminato era più apparente che reale: l’apertura del secondo grado di giudizio alle nuove prove «indispensabili» permetteva alla parte, la quale avesse dedotto soltanto nell’atto introduttivo d’appello il nuovo fatto costitutivo del diritto, di essere ammessa a provare l’esistenza del diverso titolo; la sua pretesa, infatti, avrebbe potuto trovare soddisfazione tramite l’invocazione dell’astratta idoneità del mezzo a determinare un diverso accertamento dei fatti di causa e, con esso, l’ipotetico travolgimento della decisione di primo grado.

Il limite all’introduzione di nuovi mezzi di prova in appello, in altre parole, non poneva un concreto argine al sostanziale aggiramento delle preclusioni d’allegazione (e istruttorie) in primo grado derivante dalla deduzione (e dimostrazione) del nuovo titolo del diritto autodeterminato nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado. Al contrario, proprio la chiave dell’indispensabilità del mezzo di prova consentiva il perfezionamento – anche dal punto di vista della prova – di quel meccanismo di superamento delle barriere inaugurato – dal punto di vista dell’allegazione – dalla possibile deduzione per la prima volta in appello del nuovo titolo.

La vigente formulazione dell’art. 345, co. 3, c.p.c. offre un argomento alla tesi che, limitando gli effetti (distorsivi sul sistema delle preclusioni di allegazione e istruttorie in primo grado) dell’orientamento prevalente in giurisprudenza sulla libera allegabilità in appello di nuovi fatti costitutivi del diritto autodeterminato, vorrebbe almeno preclusa, per quegli stessi fatti, la proponibilità di nuovi mezzi di prova rispetto a quelli già richiesti avanti il primo giudice.

Valorizzando l’evidente volontà del legislatore del 2012 di ridurre l’ambito delle prove nuove in appello, perseguita attraverso l’eliminazione del riferimento all’indispensabilità del mezzo, si impone infatti un’interpretazione rigorosa della disposizione come preclusiva di qualsiasi strumento istruttorio che potesse essere proposto in primo grado, anche se relativo ad un fatto (quale il nuovo titolo fondante il diritto autodeterminato) allegabile per la prima volta in appello.

In quest’ottica, la norma – che condiziona oggi l’eccezionale ammissione del nuovo mezzo alla sola impossibilità di servirsene davanti al giudice di prime cure – potrebbe valere a ottenere indirettamente (quanto meno nelle ipotesi in cui il fatto nuovo poteva essere dedotto e provato in primo grado, in quanto preesistente al maturare delle preclusioni in quel giudizio) quell’argine alla libertà di deduzione del nuovo titolo in appello che il primo comma dell’art. 345, nell’orientamento giurisprudenziale dominante, continua a garantire in materia di diritti autodeterminati: a nulla varrebbe infatti allegare per la prima volta in appello il nuovo titolo qualora l’invalicabile limite della sua dimostrabilità con i soli mezzi di prova già proposti (o con quelli che non potevano essere proposti) davanti al primo giudice escludesse ogni utilità alla sua possibile deduzione oltre il maturare delle preclusioni nel giudizio di primo grado.

IV. Cenni bibliografici.

In dottrina, l’opinione che il richiamo alla natura autodeterminata non basti a consentire a chi invoca il diritto in contesa di derogare al divieto di nuove domande in appello allegando per la prima volta in sede di impugnazione un titolo d’acquisto diverso rispetto a quello su cui si erano fondate le difese in primo grado è sostenuta anche da Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2017, I, 505, nel testo aggiornato da Carratta, secondo cui anche «con riguardo ai casi di domande autodeterminate, rispetto alle quali il mutamento dei fatti potrebbe non implicare il mutamento della domanda, la nuova disciplina introdotta dalla L. 353/1990 esclude comunque il riferimento a nuovi fatti, per effetto delle barriere preclusive già operanti in primo grado»; e Sassani, Modificazioni della domanda, diritti autodeterminati, litisconsorti necessari e altro ancora nel giudizio arbitrale, in Riv. arb., 2013, 883 ss., che parla di «equivoco successo della formula dell’autodeterminazione».

In precedenza si esprimevano in contrasto con la tesi dominante in giurisprudenza anche Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova, 1991, 157; Cecchella, Le attività delle parti: il divieto dei nova, in Il processo civile dopo le riforme, a cura di Cecchella – Vaccarella – Capponi, Torino, 1992, 293; Micheli, Corso di diritto processuale civile, Milano 1959, I, 34.

Sul tema dei diritti autodeterminati, v. anche, ex multis, Consolo, Domanda giudiziale (diritto processuale civile), in Dig. civ., VII, Torino, 1991, 44 ss.; Di Marzio, L’appello civile dopo la riforma, Milano, 2013, 191 e ss.; Hmeljak, Diritti autodeterminati e oggetto del giudizio di appello, in ilprocessocivile.it; Palma, Brevi note in tema di domande autodeterminate, eterodeterminate e oggetto del giudizio d’appello, in Giust. civ., 2000, 2979 ss.