27 Marzo 2018

L’oggetto del giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel c.d. rito Fornero

di Ginevra Ammassari Scarica in PDF

App. Roma, sez. lav, 1° febbraio 2018

Lavoro e previdenza (controversie in tema di) – Licenziamento – Procedimento in materia di licenziamento – Procedimento, domande ed eccezioni, modificazioni, novità – Procedimento, licenziamento (aspetti processuali) (l. 28 giugno 2012, n. 92, Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, art. 1, commi 49, 50 e 51).

Lavoro (rapporto) – Licenziamento, giustificato motivo oggettivo – Illegittimità – Tutela reale – Tutela indennitaria – Applicabilità (l. 28 giugno 2012, n. 92, Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita, art. 1, comma 42; l. 20 maggio 1970, n. 300, Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento, art. 18, commi 4, 5 e 7).

[1] Nel procedimento bifasico previsto per l’impugnazione del licenziamento, il giudizio di opposizione avverso l’ordinanza di cui all’art. 1, comma 49, l. n. 92/2012 non ha natura di gravame, sicché l’oggetto della cognizione può investire profili soggettivi e oggettivi nuovi rispetto a quelli affrontati nella precedente fase sommaria.

[2] L’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno della compagine aziendale integra uno degli elementi costitutivi della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sicché, qualora il datore di lavoro ometta di fornirne la prova, trova applicazione la c.d. tutela reale attenuata introdotta dalla l. n. 92/2012 e prevista in ipotesi di «manifesta infondatezza del fatto» posto a fondamento del recesso datoriale.

CASO

[1,2] Con ricorso ex art. 1, comma 47, l. n. 92/2012, un lavoratore impugnava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli dalla società Alfa in ragione della cessazione dell’appalto presso cui lo stesso era impiegato; all’esito della fase sommaria, il Tribunale di Frosinone annullava il recesso datoriale e, in applicazione dell’art. 18, 7° comma, St. Lav., condannava la società alla reintegrazione del dipendente nel proprio posto di lavoro, oltre al pagamento di un indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

L’ordinanza veniva confermata dal giudice dell’opposizione, il quale, nell’emendare l’originaria motivazione sulla scorta delle ulteriori deduzioni articolate dal lavoratore, dichiarava l’illegittimità del licenziamento giacché il datore di lavoro, pur gravato del relativo onere probatorio, non aveva dimostrato l’impossibilità di ricollocare il dipendente presso le ulteriori commesse affidategli.

Avverso tale sentenza ha proposto reclamo la società Alfa, articolando molteplici motivi di censura.

In particolare, la reclamante ha eccepito la decadenza del lavoratore che, nel corpo del ricorso introduttivo, aveva omesso di dedurre la violazione dell’obbligo di repechage, sicché nessuna prova al riguardo poteva ritenersi gravante sulla società; inoltre, in via gradata, ha dedotto l’applicabilità della sola tutela indennitaria prevista dal 5° comma dell’art. 18 St. Lav. in luogo della reintegra, in quanto la violazione dell’obbligo di repechage, pur determinando l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non integra l’ipotesi di «manifesta infondatezza del fatto» addotto a fondamento del recesso, prevista dal successivo 7° comma.

SOLUZIONE

[1,2] Con la pronuncia in epigrafe, la Corte d’Appello di Roma disattende l’eccezione di decadenza sollevata dal datore di lavoro e, nell’affermare che il giudizio di opposizione può investire profili soggettivi e oggettivi nuovi rispetto a quelli affrontati nella precedente fase sommaria, conferma la decisione resa in primo grado in ordine all’applicabilità della tutela reale conseguente alla declaratoria di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

QUESTIONI

[1] Come noto, la l. n. 92/2012 ha disposto un rito speciale per l’impugnazione del licenziamento, caratterizzato dall’articolazione del processo di primo grado in due fasi, la prima a cognizione sommaria e la seconda a cognizione piena.

Tale procedimento ha posto, sin dalla sua introduzione, numerosi problemi interpretativi in relazione vuoi al rapporto tra le fasi che compongono il primo grado di giudizio, vuoi all’oggetto del giudizio di opposizione.

Infatti, la scarna disciplina dettata dall’art. 1, co. 51, l. n. 92/2012 sembrerebbe attribuire all’opposizione la “doppia anima” di giudizio di primo grado e, al contempo, di giudizio lato sensu impugnatorio, da proporsi avverso l’ordinanza conclusiva della fase sommaria (così, A.D. De Santis, I procedimenti speciali, AA.VV. Processo del lavoro, diretto da P. Curzio-L. Di Paola-R. Romei, 2017, 555 e Dalfino D., in M. Barbieri-D. Dalfino D., Il licenziamento individuale, Cacucci, Bari, 2013, 89).

Sul punto, il principio enucleato nella prima massima è espressione dell’approdo ermeneutico cui è giunta, da ultimo, la giurisprudenza di legittimità che, condizionata da quanto affermato dalla Corte costituzionale, ha contribuito a definire gli incerti confini della cognizione nel procedimento bifasico introdotto dalla riforma del 2012.

In particolare, sul tema, C. cost. 22 dicembre 2015, n. 275, Foro it., Rep. 2015, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 70 e 13 maggio 2015, n. 78, ibidem, I, 3049 con nota di N. Minafra, nell’escludere l’incompatibilità del medesimo giudice a trattare sia la fase sommaria che la successiva fase di opposizione a cognizione piena, ha avuto modo di affermare che questa non è una revisio proris istantiae, ma costituisce una prosecuzione del giudizio di primo grado, in quanto tale scevra da preclusioni.

In tal senso si era già espressa la giurisprudenza di legittimità che, tuttavia, sulla scorta del carattere eventuale del giudizio di opposizione, aveva riconosciuto l’idoneità al giudicato dell’ordinanza resa all’esito della fase sommaria (così, Cass., S.U. 18 settembre 2014, n. 19674, ibidem., 2015, I, 540, con nota di D. Dalfino e S.U., 31 luglio 2014, n. 17433, Riv. dir. proc., 2015, 1582, con nota di G. Guarnieri, le quali hanno ritenuto ammissibile, rispettivamente, la proponibilità del regolamento di competenza e di giurisdizione; concorde, in dottrina, Dalfino D., in M. Barbieri-D. Dalfino D., Il licenziamento individuale, Cacucci, Bari, 2013, 87).

Tale impostazione, se, da un lato, ha contribuito a rafforzare il convincimento relativo all’assenza di preclusioni tra le due fasi in cui si articola il giudizio di primo grado nel c.d. rito Fornero, dall’altro, ha posto ulteriori problemi interpretativi in ipotesi di parziale e reciproca soccombenza delle parti all’esito della fase sommaria.

Procedendo con ordine, la S.C., con diverse pronunce successive agli arresti della Consulta, ha ritenuto ammissibile l’emendatio libelli, ma non il mutamento della causa petendi, sicché nel giudizio a cognizione piena non possono proporsi domande che introducano un tema di indagine fattuale diverso rispetto a quello della fase sommaria; in tal senso, cfr. Cass., sez. Lav., 28 settembre 2015, n. 19142, Foro it., Rep. 2015, voce cit., n. 74, la quale ha escluso che, in sede di opposizione, possa farsi valere, per la prima volta, una diversa fattispecie di invalidità del licenziamento.

In senso conforme si è espressa anche Cass. 17 luglio 2015, n. 15066, ibidem, voce cit., n. 1250, la quale, nell’escludere che l’oggetto del giudizio di opposizione sia circoscritto alla censura degli errores in procedendo e in judicando dell’ordinanza, ha affermato che la fase a cognizione piena può investire profili soggettivi, oggettivi e procedimentali diversi rispetto alla precedente fase sommaria, giacché è possibile l’intervento di terzi, sono proponibili domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi, e può procedersi all’assunzione di prove ulteriori.

Infine, sul tema, cfr. anche, Cass. 11 dicembre 2015, n. 25046, Riv. dir. proc., 2017, 297, con nota di V. Petrella, la quale afferma la proponibilità, ex novo nel giudizio di opposizione, delle eccezioni in senso stretto e, nell’ancorare tale conclusione ad un’attenta analisi del dettato normativo, individua rispettivamente nel ricorso e nella memoria difensiva della fase a cognizione piena il termine di maturazione delle preclusione in capo alle parti.

Tanto premesso in ordine al possibile ampliamento della cognizione del giudice nel corso del primo grado di giudizio disciplinato dalla l. n. 92/2012, si è posta la necessità di un coordinamento tra tale approdo ermeneutico e l’idoneità al giudicato pure riconosciuta all’ordinanza conclusiva della fase sommaria sulla scorta della previsione del termine di trenta giorni, previsto a pena di decadenza, per proporre opposizione.

In particolare, la giurisprudenza ha dovuto chiarire se, in ipotesi di parziale e reciproca soccombenza delle parti all’esito del giudizio a cognizione sommaria, sussista in capo ad entrambi i contraddittori l’onere di proporre tempestiva opposizione, ovvero se, a tal fine, possa sfruttarsi utilmente anche la memoria di costituzione depositata nel giudizio di opposizione instaurato dalla controparte.

Sul tema, Cass. 26 febbraio 2016, n. 3836, Foro it., Rep. 2016, voce Coooperativa, n. 30, nel ritenere applicabile la disciplina ordinaria prevista dall’art. 416 c.p.c. in tema di domande riconvenzionali proposte in primo grado nel rito lavoro, ha affermato che l’instaurazione del giudizio di opposizione ad opera di una sola delle parti preclude il passaggio in giudicato dell’ordinanza nel suo complesso, sicché la parte opposta, qualora sia spirato il termine per proporre un autonomo atto di opposizione, può riproporre, in sede di memoria difensiva, le domande e le difese non accolte dall’ordinanza.

Tale soluzione risulta coerente vuoi con quanto statuito da C. cost. 13 maggio 2015, n. 78, cit., in ordine all’integrale assorbimento cui è destinata l’ordinanza conclusiva della fase sommaria ad opera della sentenza che definisce il giudizio di opposizione, vuoi con il carattere prosecutorio di quest’ultimo: infatti, questo preclude non soltanto l’applicabilità, in via analogica, della disciplina delle impugnazioni incidentali tardive al c.d. rito Fornero, ma anche quella del divieto di reformatio in pejus, nonché del principio ricavabile dal combinato disposto degli artt. 336 e 329, 2° comma, c.p.c. che, relativo al c.d. effetto espansivo interno, presidia i limiti oggettivi del giudicato e la formazione di quest’ultimo in sede di impugnazione.

Sul tema, cfr. le osservazioni critiche di F.M. Giorgi, Rito Fornero: la giurisprudenza di legittimità sul rapporto tra le due fasi e cenni sull’interferenza del rito fallimentare, in Lav. nella giur., 7, 2016, 637, il quale, pur concludendo per l’inapplicabilità dell’art. 334 c.p.c., osserva che tale norma, nel consentire a chi subisce un’impugnazione di gravare il provvedimento che l’abbia visto parzialmente soccombente nonostante il decorso del relativo termine all’uopo previsto a pena di decadenza, appare ispirata al medesimo intento acceleratorio cui è parimenti volto il procedimento introdotto dalla l. n. 92/2012, giacché, in ultima istanza, incentiva l’accettazione della decisione resa in prima istanza qualora la controparte faccia altrettanto e, quindi, la conclusione del processo in quella sede.

Inoltre, si segnalano Cass., S.U., 24 settembre 2010, n. 20161, Foro it., 2011, I, 1155, con nota di richiami di G. Auria e 5 novembre 1991, n. 11769, Foro it., Rep. 1991, voce Sindacati, n. 111 che, rese in ordine al non difforme procedimento per la repressione della condotta antisindacale previsto dall’art. 28 St. Lav., ritengono ammissibile la proposizione dell’opposizione incidentale tardiva.

[2] Con il principio espresso nella seconda massima riportata in epigrafe, la Corte territoriale si conforma a quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità in ordine alla ripartizione degli oneri probatori gravanti in capo alle parti nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In particolare, la S.C., in ossequio al combinato disposto degli artt. 2697 c.c. e 5, l. n. 604/1966, è costante nell’affermare che il datore di lavoro è tenuto a dimostrare il giustificato motivo oggettivo, che ricorre in presenza di tre requisiti, ovvero: l’effettiva modifica dell’organizzazione aziendale, il nesso causale tra questa e il recesso intimato e l’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno della compagine aziendale, conseguendone, altrimenti, l’illegittimità del licenziamento (in tal senso, cfr., tra le pronunce più recenti, Cass. 5 gennaio 2017, n. 160, id., Rep.  2017, voce Lavoro (rapporto), n. 705 e Riv. giur. lav., 2017, II, 245 con nota di G. Cavellini).

Sul tema, cfr., anche, Cass. 10 maggio 2016, n. 9467, Giur. it, 2016, 2195 con nota di V. Miraglia, la quale esige una collaborazione del lavoratore nell’accertamento di un possibile repechage mediante l’allegazione delle altre posizioni in cui avrebbe potuto essere utilmente ricollocato; contra, v. Cass.11 ottobre 2016, n. 20436 e 13 giugno 2016, n. 12101, id., 2017, 412, con nota di M.R. Megna; 22 marzo 2016, n. 5592, id., 2016, con nota di M. Persiani, secondo le quali gli oneri di allegazione e prova in ordine al repechage gravano esclusivamente sul datore di lavoro.

Tale impostazione – che risponde alla definizione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo quale extrema ratio risalente a G.F. Mancini, Commento all’art. 18, in AA.VV. Statuto dei diritti dei lavoratori, Zanichelli-Il Foro, Bologna-Roma, 243 – ha subito un (parziale) sconvolgimento con l’entrata in vigore della l. n. 92/2012 la quale, nell’introdurre una gradazione delle tutele a seconda del vizio connotante il licenziamento, ha limitato l’applicabilità della tutela reale alla sola ipotesi di «manifesta infondatezza del fatto posto alla base del licenziamento» intimato per giustificato motivo oggettivo, mentre, qualora non ne ricorrano i presupposti sic et simpliciter, trova applicazione la tutela indennitaria c.d. forte prevista dal 5° comma dell’art. 18 St. Lav., così come modificato dalla riforma del 2012.

Sul tema, la dottrina giuslavoristica si è divisa tra chi esclude che l’obbligo di repechage rappresenti uno degli elementi costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (i.e.: del fatto estintivo del rapporto di lavoro), sicché residua la sola applicazione della tutela indennitaria c.d. forte (v. G. Santoro-Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in Arg. dir. lav., 2013, 236 e M. Persiani, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage, in Giur. it, 2016, 1164, il quale ritiene che l’obbligo di repechage rappresenti un elemento estrinseco al giustificato motivo oggettivo) e chi, al contrario, ritiene che la violazione di tale adempimento, rientrando nel «fatto», determina la manifesta insussistenza dello stesso richiesta ai fini della reintegrazione del lavoratore (così A. Vallebona, Il repechage fa parte del «fatto», in Mass. giur. lav., 2013, 750; V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. it. dir. lav., 2012, 563).

Inoltre, si segnala la posizione di M.T. Carinci, Fatto «materiale» e fatto «giuridico» nella nuova articolazione delle tutele ex art. 18 statuto dei lavoratori, in Riv. dir. proc., 2013, 1326: l’A., dapprima, chiarisce che il «fatto» in oggetto debba ritenersi declinato sotto il profilo giuridico e non materiale che, in quanto tale, o sussiste o non sussiste, dovendosi escludere la rilevanza pure attribuita all’aggettivo «manifesta» menzionato nel testo normativo ai fini dell’applicabilità del 5° o del 7° comma, art. 18 St. Lav.; secondariamente, rileva che l’obbligo di ricollocazione del dipendente è un elemento consustanziale al fatto e denota lo stesso nesso causale tra le ragioni tecnico-organizzative poste a fondamento del recesso e le mansioni svolte dal lavoratore, seppur sotto il profilo negativo; pertanto, l’A. conclude per l’applicabilità della tutela reale di cui al 7° comma, art. 18 St. Lav. in ipotesi di mancato rispetto dell’obbligo di repechage, rilevando che, sotto la vigenza della l. n. 92/2012, deve escludersi in nuce l’applicazione la tutela indennitaria c.d. forte prevista dal 5° comma ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

[1,2] Sul punto, la sentenza in rassegna prende espressa posizione: in particolare, la Corte d’Appello di Roma afferma che, nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la causa petendi è costituita dall’inesistenza dei presupposti fondanti il legittimo esercizio del potere di recesso datoriale; pertanto, esclude che l’impossibilità del repechage costituisca un autonomo fatto estintivo rispetto al giustificato motivo oggettivo e afferma che, ai fini della legittimità del recesso, la dimostrazione di entrambi grava unitariamente sul datore di lavoro.

Ricostruita nei termini descritti la fattispecie dedotta in giudizio, la Corte, dapprima, rigetta l’eccezione di decadenza sollevata dalla reclamante in ragione dell’unicità della causa petendi posta a fondamento della domanda introdotta nel ricorso introduttivo e riproposta in sede di opposizione e, secondariamente, ritiene che la mancata dimostrazione dell’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno della compagine aziendale determini la (manifesta) insussistenza del fatto previsto dall’art. 18, 7° comma, St. Lav., con conseguente applicazione della tutela reintegratoria ivi disposta (contra, nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Varese, 4 aprile, Foro it., 2013, I, 3333 e Trib. Milano, 20 novembre 2012, ibidem, 2013, I, 467).