19 Dicembre 2017

L’interpretazione della domanda giudiziale spetta al giudice di merito

di Stefano Nicita Scarica in PDF

Cass., sez. III civ., 8 settembre 2017, n. 20957, Pres. Matera, Est. Penta

Domanda giudiziale – Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato – Difetto di ultrapetizione – Vizio logico di motivazione – Contraddittorietà della motivazione (Cod. proc. civ., artt. 99, 112, 360; Cod. civ. 1362, 1385, 1453)

[1] L’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito: la statuizione motivata sul punto, ancorché erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato la erroneità di quella motivazione; sicché, in tal caso, il dedotto errore attiene al momento logico dell’accertamento in concreto della volontà della parte, sindacabile in sede di legittimità solo se la motivazione non è adeguata e congrua, mentre l’accertamento della ultrapetizione appartiene a un momento logicamente successivo.

Principio della domanda – Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato – Preliminare di vendita – Caparra confirmatoria – Azione volta a far valere il recesso – Azione di risoluzione per inadempimento e risarcimento danni – Incompatibilità reciproca (Cod. proc. civ., artt. 99, 112, 360; Cod. civ. 1362, 1385, 1453)

 [2] Deve essere qualificata come domanda di risoluzione, non di recesso con relativa trattenuta della caparra, quella accompagnata da una domanda di risarcimento dei danni, sia pure da liquidarsi in separata sede

CASO

[1-2] Nel 1989, un promittente-venditore ed un promissario-acquirente stipulano un preliminare di compravendita avente ad oggetto un appartamento. Il promissario-acquirente corrisponde, al momento della sottoscrizione, una somma in conto prezzo con efficacia di caparra confirmatoria e, poi, si obbliga a versare una restante somma in rate annuali ed il saldo del prezzo all’atto della stipula del rogito di trasferimento (previsto per l’anno 1994), allorquando avrebbe dovuto conseguire il possesso dell’immobile.

Malgrado ciò, nel prosieguo, il promissario, preso anticipatamente possesso dell’immobile, vi realizza lavori di riparazione ed omette di adempiere ai  pagamenti dovuti.

Nel 1994, il promittente-venditore conviene in giudizio il promissario-acquirente chiedendo: la risoluzione del contratto per grave inadempimento; la condanna al pagamento della somma «in ordine alla caparra confirmatoria»; il risarcimento dei danni ulteriori (da liquidarsi in separata sede); la condanna all’immediato rilascio dell’immobile.
Il convenuto si costituisce, contesta tutti gli addebiti e chiede il rigetto delle domande e l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, previo versamento della somma ancora dovuta.
Nel 2005, il Tribunale di S. Maria Capua Vetere accoglie le domande dell’attore: dichiara risolto per grave inadempimento il preliminare di compravendita, dispone il rilascio dell’immobile, e dichiara il diritto degli attori a ritenere la caparra confirmatoria.
Avverso tale sentenza il promissario acquirente propone appello, lamentando l’inammissibilità dell’esercizio contestuale delle azioni di risoluzione (art.1385, comma 3, c.c.) e di recesso (art. 1385, comma 2, c.c.).

Nel 2010, la Corte d’appello di Napoli rigetta l’appello, ritenendo che gli attori avessero univocamente proposto una domanda di recesso.

Il promissario acquirente popone ricorso in cassazione avverso la sentenza d’appello, deducendo la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 112 c.p.c., per aver, a suo dire, i giudici di merito erroneamente qualificato la domanda introduttiva del giudizio di primo grado come recesso ex art. 1385 c.c., anziché come risoluzione per inadempimento, «con conseguente vizio di ultrapetizione e di extrapetizione della domanda.»

SOLUZIONE

[1-2] La  Suprema Corte (ritenuto che: «ad onta della formulazione della rubrica, la ricorrente avesse inteso censurare la decisione sul piano motivazionale») cassa la sentenza impugnata in base alle massime sopra riportate e rimette la causa ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli.

QUESTIONI

[1-2] Secondo il codice di rito (art. 99 c.p.c.) e il codice civile (art. 2907 c.c.), la domanda è fondamento e limite del dovere decisorio del giudice.

Non sempre è agevole, però, individuare in concreto entro quali confini il giudice debba pronunciarsi. A tal fine, è compito dello stesso giudice di merito interpretare la domanda proposta attraverso una valutazione discrezionale sebbene fondata su elementi oggettivi.

Sul punto, la pronuncia in esame applica la regula iuris secondo cui l’interpretazione della domanda giudiziale costituisce un accertamento di fatto, incensurabile in Cassazione se congruamente ed adeguatamente motivato (cfr. Cass., 6 maggio 2015, n. 9011; Cass., 9 settembre 2008, n.  22893; Cass., 5 aprile 1986, n. 2369).

La Corte di cassazione è, quindi, abilitata all’espletamento di indagini dirette a sanzionare l’errore d’interpretazione della domanda soltanto allorché il giudice di merito abbia omesso l’indagine interpretativa della domanda, ma non se l’abbia compiuta ed abbia motivatamente espresso il suo convincimento in ordine all’esito dell’indagine (Cass., 11 marzo 2011, n. 5876).

Sul punto, vale rammentare che i motivi del ricorso in cassazione vengono tradizionalmente (Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo italiano, III, Roma, 1956, 172) suddivisi in due tipologie: vizi di attività  (Errores in procedendo) e vizi di giudizio (Errores in judicando). I primi hanno carattere procedurale e sono attinenti alle norme che regolano il processo; i secondi hanno carattere di merito e sono attinenti all’individuazione e all’applicazione da parte del giudice delle norme che regolano il rapporto giuridico dedotto in giudizio (per tutti, v. Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino, 2009, 505).

Qualora l’accertamento di un vizio di motivazione (per mancanza di adeguatezza, logicità e congruità) rendesse manifesta una violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, si sarebbe di fronte ad un error in procedendo, con conseguente potere-dovere della Suprema Corte (per il combinato disposto dell’art. 360, comma 1, n.4 c.p.c. e dell’art. 112 c.p.c.) di procedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali e delle istanze e deduzioni delle parti (Cass., 18 settembre 2012, n.15653; Cass., 4 agosto 2004, n.14952; Cass., 24 gennaio 2003, n.1097).
Viene da chiedersi, quindi, che cosa debba intendersi secondo la Corte per «vizio di motivazione» in tema d’interpretazione della domanda. Esso va ricondotto, comunque (malgrado le restrizioni che oggi ne derivano ad opera della L.69/2012), al canone dell’art. 360, n.5. c.p.c.? Oppure, come sembra preferibile, si tratta di un fenomeno diverso che, attraverso un vaglio sulla logicità e congruità della motivazione, addiviene, pur “indirettamente“, ad un controllo di legittimità su un error in procedendo?  (Sul sindacato del “limite della congrua e logica motivazione” dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c. ad opera della L.69/2012, v. per tutte Cass., 24 marzo 2016, n. 5900).
In effetti, è l’indagine sulla volontà della parte ad orientare l’interpretazione della domanda. Il risultato dell’attività di interpretazione della domanda da parte del giudice trova motivazione e limite nell’individuazione degli effetti giuridici che la parte vuole conseguire deducendo un certo fatto, nel senso che la prospettazione di parte vincola il giudice a trarre o meno dai fatti esposti l’effetto giuridico domandato (Cass., 17 aprile 2007, n. 9143; Cass., 28 giugno 2010, n. 15383; Cass., 12 ottobre 2007, n. 21484). L’interpretazione non può, quindi, determinare una domanda radicalmente difforme, nel petitum o nella causa petendi, da quanto espressamente allegato e dedotto dalle parti (Cass., 12 aprile 2006, n. 8519; Cass., 28 luglio 2005, n. 15802; Cass., 24 maggio 2005, n. 10922).

Nel procedere all’interpretazione il giudice di merito non è vincolato alle espressioni letterali utilizzate dalla parte ma deve indagare e motivatamente valutare il contenuto sostanziale della domanda (Cass., 23 giugno 2016, n. 13049; Cass., 6 novembre 2014, n. 23669; Cass., 13 dicembre 2013, n. 27940), desumendolo dalla situazione dedotta in giudizio, dalle eventuali precisazioni nel corso dello stesso, dal provvedimento in concreto richiesto (Cass., Sez.Un., 21 febbraio 2000, n. 27; Cass., 21 luglio 2006, n. 16783; Cass., 3 luglio 2000, n. 8879), dallo scopo che la parte vuole raggiungere (Cass., 4 agosto 2006, n. 17760; Cass., 6 aprile 2006, n. 8107) e dal comportamento processuale della parte (Cass., 7 febbraio 1996, n. 969).

Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) implica, in conclusione, il divieto, per il giudice di merito, di pronunciarsi oltre i limiti della domanda proposta, cadendo altrimenti nei vizi  (errores in procedendo) di c.d. ultrapetizione (se gli effetti giuridici della domanda siano integrati o estesi), oppure di c.d. extrapetizione (se determinati effetti giuridici siano sostituiti rispetto a quelli della domanda proposta).
Il potere del giudice d’interpretazione della domanda, perciò, è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando essa non sia supportata da una motivazione sufficiente, congrua e logica; quando, come nel caso in esame, la pronuncia sia affetta da errore che attiene al “momento logico dell’accertamento in concreto della volontà della parte”, (v. anche Cass., 20 luglio 2004, n. 13426; Cass., 29 aprile 2004, n. 8225) e risultino oltrepassati i limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.