Quello tra amministratore e società non è un rapporto para-subordinato:in caso di pignoramento del compenso, non si applica il limite del “quinto”.
di Antonio Morello, Avvocato Scarica in PDFLa qualificazione giuridica del rapporto “amministratore-società” rappresenta argomento da sempre controverso che, particolarmente dopo la riforma societaria del 2003, ha alimentato un vero e proprio contrasto giurisprudenziale. Da poco più di un mese le Sezioni Unite vi hanno finalmente posto rimedio (o almeno hanno gettato le basi per una sua definitiva composizione): rovesciando, infatti, l’impostazione tradizionale che “faceva giurisprudenza” da più di un ventennio (salvo, appunto, talune “deviazioni”), le Sezioni Unite con la sentenza n. 1545, del 20 gennaio 2017 hanno chiarito che il rapporto tra società ed amministratore va, ora, ricondotto nell’alveo dei rapporti societari propriamente detti “perché serve ad assicurare l’agire della società, non [essendo quindi] assimilabile (…) né ad un contratto d’opera (…) né tanto meno ad un rapporto di tipo subordinato o parasubordinato”.
Questo nuovo “principio di diritto” segna, dunque, il superamento di quell’orientamento inaugurato dalla Cassazione nel 1994 (Cass. SS.UU. n. 10680/1994) che operava un’assimilazione al rapporto di lavoro (para)subordinato il quale, sino ad ora, ha rappresentato il principale paradigma normativo di riferimento (salvo, appunto, sporadiche aperture, nel corso di questi vent’anni anni, verso il rapporto di lavoro dipendente, il contratto d’opera ovvero il lavoro autonomo). Ferma, dunque, la portata generale di questa nuova affermazione di principio, le Sezioni Unite chiariscono, nondimeno, che l’amministratore potrebbe anche essere legato alla società da un rapporto giuridico “parallelo” rispetto a quello societario: sarà, però ed ovviamente, compito delle Corti Territoriali (essendo accertamento di merito) verificare la concreta sussistenza dei relativi presupposti tra cui, nel caso parasubordinazione o lavoro dipendente, la soggezione dell’amministratore all’altrui potere di coordinamento e/o potere direttivo-disciplinare (esempio – assai ricorrente della pratica – è, appunto, quello del lavoratore dipendente assegnato al ruolo di amministratore, assegnazione che, di per se stessa, non prova né determina l’interruzione del rapporto di lavoro dipendente).
Per prendere coscienza dei risvolti pratici che l’affermazione di principio riprodotta nella sentenza del 20 gennaio scorso è destinata a produrre basta citare, anche solo per veloci rimandi, i principali temi sui quali i giudici (fino ad oggi) sono stati chiamati a pronunciarsi: la possibilità, o meno, di assoggettare il compenso dell’amministratore al regime delle retribuzioni da lavoro dipendente o parasubordinato; la competenza del Tribunale delle imprese a decidere sulle controversie, ad esempio, in tema di impugnazione della revoca o di rimborsi spese; il trattamento previdenziale e, quindi, la necessità di procedere con l’iscrizione alla gestione separata INPS ovvero ad altre gestioni; l’individuazione dei parametri di diligenza cui gli amministratori devono attenersi nello svolgimento dell’incarico per non incorrere in responsabilità gestorie; la possibilità di devolvere ad arbitri le controversie, ad esempio, su misura e spettanza dei compensi; la possibilità, o meno, di trattare la revoca alla stregua della risoluzione contrattuale; la disponibilità (intesa come rinunziabilità) del compenso e, quindi, a monte, l’ “onerosità” del rapporto; l’applicabilità ai compensi del privilegio ex art. 2751-bis, n. 2, c.c (….e l’elencazione potrebbe proseguire).
Naturalmente, è prematuro predire quanto simili questioni trovino, oggi, soddisfacente risposta nella nostra sentenza. Su un tema, però, possiamo essere certi che un chiarimento definitivo è stato offerto dalle Sezioni Unite: il “celebre” limite del quinto dello stipendio (ex art. 545, comma 4, c.p.c.) non trova applicazione nel caso in cui sia fatto oggetto di pignoramento il compenso spettante all’amministratore per le funzioni gestorie da questi svolte appunto perché si tratta di emolumento non assimilabile a quello da lavoro dipendente o parasubordinato.