21 Febbraio 2017

Il ritardo (abnorme) nella contestazione disciplinare dà diritto alla reintegrazione

di Giuseppina Mortillaro Scarica in PDF

Cass. civ., sez. lav., 31 gennaio 2017, n. 2513

 Licenziamento disciplinare – Tardività della contestazione – Ritardo abnorme – Diritto alla tutela reintegratoria – Sussiste (anche se l’illecito è permanente)

1. La fattispecie concreta

 La pronuncia della Corte di Cassazione prende le mosse dal ricorso proposto dalla società datrice di lavoro per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Roma che, in riforma della sentenza del Tribunale di Cassino, aveva accolto l’appello della lavoratrice, dichiarando l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato a quest’ultima, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria di dodici mensilità.

L’illecito disciplinare che aveva dato luogo al licenziamento consisteva nell’assenza ingiustificata della lavoratrice, che aveva rifiutato il 19 aprile 2012 la riammissione in servizio a seguito di un giudizio (che l’aveva vista vittoriosa) di impugnativa del termine apposto al contratto. Tuttavia, mentre la riammissione in servizio che la lavoratrice aveva rifiutato (perché trasferita ad altra sede) era dell’aprile 2012, la contestazione per assenza ingiustificata era stata mossa soltanto il 27 maggio 2013 e il licenziamento intimato il 25 giugno successivo. Fermo restando comunque che l’assenza ingiustificata, sia pure iniziata nell’aprile 2012, era proseguita sino al momento della contestazione, senza soluzione di continuità, non avendo mai la lavoratrice ripreso servizio.

La società datrice di lavoro ha proposto ricorso per tre distinti motivi. Il primo (violazione e falsa applicazione dell’art. 7 st. lav., dell’art. 53 del ccnl per i dipendenti delle Poste, e omesso esame circa un fatto decisivo per la controversia) basato sul presupposto che, vertendosi in un’ipotesi di assenza arbitraria dal posto di lavoro superiore ai 60 giorni ancora perdurante, l’illecito era permanente, dunque in essere al momento della contestazione. Il secondo (violazione e falsa applicazione dell’art. 7 st. lav.) perché non si era in concreto verificata alcuna lesione o compromissione del diritto di difesa della lavoratrice. Il terzo (violazione e falsa applicazione dell’art. 18 st. lav.) in ragione del fatto che, a tutto concedere, avrebbe dovuto applicarsi la tutela risarcitoria di cui al co. 6 dell’art. 18 st. lav. e non quella del co. 4 della norma, come invece aveva ritenuto la Corte territoriale.

La lavoratrice ha resistito con controricorso.

2.La decisione

 La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati tutti e tre i motivi di ricorso addotti dalla società datrice di lavoro.

In ordine al primo motivo, la Corte ha rilevato che il ritardo nella contestazione dell’assenza ingiustificata era stato “abnorme e totalmente privo di ragioni”, sì da essere estraneo allo stesso sistema dell’art. 7, incentrato sull’immediatezza della contestazione. E ciò senza che potesse rilevare in senso contrario il fatto che si trattasse di un illecito ancora in essere al momento della contestazione. Secondo la Corte, infatti, visto che il ccnl dava la possibilità di intimare il licenziamento per giusta causa dopo 60 giorni consecutivi di assenza ingiustificata, il ritardo di oltre un anno risultava comunque privo di ragioni, e d’altra parte – secondo la Corte – accedendo alla tesi dell’illecito permanente, il datore di lavoro sarebbe stato libero di irrogare la sanzione in ogni momento “in spregio al meta-principio della certezza e trasparenza nelle relazioni contrattuali che vige in materia disciplinare”.

Con riferimento al secondo motivo, la Corte ha sostenuto che la tardività della contestazione avrebbe compromesso il diritto di difesa della lavoratrice che, messa di fronte a una contestazione tempestiva, avrebbe potuto “porre al centro della verifica giudiziaria (con allegazioni molto più difficili da prospettare, decorso un certo periodo) anche le questioni relative al suo trasferimento”.

Infine, in relazione al terzo motivo relativo alle conseguenze sanzionatorie, la Corte ha ritenuto che un fatto non tempestivamente contestato “non può che essere considerato come <<insussistente>> non possedendo l’idoneità ad essere verificato in giudizio. Si tratta in realtà di una violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro a carattere radicale che, coinvolgendo i diritti di difesa del lavoratore, impedisce in radice che il Giudice accerti la sussistenza o meno del <<fatto>>, e quindi di valutarne la commissione effettiva, anche a fini delle scelta tra i vari regimi sanzionatori. Non essendo stato contestato idoneamente ex art. 7 il <<fatto>> è tamquam non esset e quindi <<insussistente>> ai sensi a dell’art. 18 novellato. Sul piano letterale la norma parla di insussistenza del <<fatto contestato>> (quindi contestato regolarmente) e quindi, a maggior ragione, non può che riguardare anche l’ipotesi in cui il fatto sia stato contestato abnormemente e cioè in aperta violazione dell’art. 7”.

3.Un nuovo orientamento sulla contestazione tardiva o autonoma rilevanza del ritardo “abnorme”?

 Secondo la Corte di Cassazione, la contestazione tardiva dà luogo alle conseguenze sanzionatorie di cui al co. 4 dell’art. 18 st. lav. e non a quelle di cui al co. 6 della stessa disposizione. Non si tratterebbe, perciò, di una mera violazione procedurale, ma di una violazione radicale che, oltre a limitare il diritto di difesa del lavoratore, impedirebbe a monte l’accertamento giudiziale della sussistenza del fatto.

L’orientamento espresso dalla Suprema Corte impone talune riflessioni.

Un argomento di riflessione è quello relativo alla sussistenza o meno di uno spazio autonomo di valutazione del ritardo abnorme (sanzionabile con la reintegrazione), rispetto a un ritardo non così notevole (sanzionabile con la mera tutela indennitaria).

A sostegno di tale autonomia potrebbe militare la circostanza che un lasso temporale irragionevole tra fatto (rectius, tra conoscenza del fatto da parte del datore di lavoro) e contestazione opererebbe come una sorta di cesura del nesso causale, di scollamento tra la commissione dell’illecito e la contestazione, e pertanto il fatto, non potendosi ricondurre all’illecito commesso proprio a causa dell’abnormità del ritardo, sarebbe insussistente.

Tuttavia – e qui si introduce l’ulteriore argomento di riflessione – la pronuncia della Corte non sembra deporre nel senso dell’autonoma rilevanza del ritardo abnorme, ma sembra piuttosto aver realizzato un’inversione di tendenza rispetto al proprio precedente orientamento che aveva, invece, ritenuto l’inosservanza del principio di immediatezza della contestazione quale vizio formale della procedura disciplinare e, come tale, non rientrante nella tutela di cui al co. 4 dell’art. 18 St. lav. (così Cass. civ., sez. lav., 9 luglio 2015, n. 14324). Al pari della sentenza in commento, infatti, anche Cass. n. 14324/2015 riguardava un’ipotesi di “notevolissimo” ritardo, ritardo che – per quanto notevole – tuttavia non aveva impedito alla Corte di propendere per la tutela meramente indennitaria (<<i fatti erano stati contestati con notevolissimo ritardo, posto che il controllo effettuato dalla Società nel 2012 aveva riguardato episodi che si collocavano a distanza di oltre cinque anni, quindi in tempi tali da non potere essere giustificati in relazione agli addebiti>>).  Né, del resto, la sentenza in commento sembra operare alcuna distinzione tra i diversi tipi di ritardo (quello abnorme e quello non tale), soffermandosi semmai sul difetto di tempestiva contestazione quale motivo di inidoneità del fatto a essere verificato in giudizio, a prescindere dall’entità del ritardo.

Un ultimo profilo di riflessione – del quale si dirà nel paragrafo che segue – riguarda la possibilità di ritenere tardiva una contestazione a fronte di un illecito iniziato sì diversi mesi prima della formalizzazione dell’addebito, ma protratto senza soluzione di continuità e ancora in essere al momento di avvio del procedimento disciplinare.

4.L’illecito permanente e le (non poche) perplessità che suscita la pronuncia

Quale che sia l’opzione interpretativa che si voglia adottare in ordine alle conseguenze sanzionatorie del ritardo (entrambe le opzioni hanno fondati argomenti a supporto), la pronuncia della Corte di Cassazione suscita non poche perplessità per non avere dato rilevanza al fatto che, al momento della contestazione, l’illecito fosse ancora in corso.

La Corte ha affermato che “Non può, peraltro, accedersi alla tesi di parte ricorrente secondo il quale si tratterebbe di un illecito continuato in quanto la norma contrattuale prevede espressamente la sanzione dopo il sessantesimo giorno di assenza e quindi il fatto oggetto di contestazione si era perfezionato già con una assenza di 60 giorni e quindi il ritardo di 15 mesi del datore di lavoro è totalmente privo di qualsiasi ragione giustificatrice”, scartando la tesi della società datrice di lavoro sul presupposto che “accedendo alla tesi qui in discussione si potrebbe ipotizzare che il datore di lavoro possa decidere se irrogare una sanzione in sostanza quando vuole (perché dopo un anno e non dopo tre anni?) in spregio al meta-principio della certezza e trasparenza nelle relazioni contrattuali che vige anche in materia disciplinare”.

Le motivazioni della Corte sul punto non appaiono condivisibili.

Non appaiono condivisibili perché, finché la condotta illecita perdura, il datore di lavoro dovrebbe avere diritto di reagire disciplinarmente ad essa. Opinando diversamente si finirebbe per ipotizzare una sorta di diritto del lavoratore di continuare in perpetuo l’illecito, e d’altra parte si farebbe gravare sul datore di lavoro che, per varie ragioni (anche disguidi organizzativi), può aver “sopportato” l’illecito fino a un certo momento, un obbligo di “sopportare” ancora e per sempre. Se, dunque, non può dubitarsi che – come correttamente sostiene la Corte – il datore di lavoro non sia libero di irrogare le sanzioni quando vuole, dovrebbe del pari non potersi negare che tale limite del datore di lavoro possa valere solo rispetto a un illecito consumato, e poi non tempestivamente contestato e sanzionato. Rispetto a un illecito in fieri, invece, la questione della tardività della contestazione non dovrebbe avere ragione di porsi, quanto meno rispetto alle condotte più attuali e a quelle sempre in essere.  Nell’illecito permanente, infatti, il comportamento illegittimo non si esaurisce in un lasso di tempo definito, ma si protrae giorno dopo giorno sino alla cessazione della condotta illecita, tanto che anche il regime della prescrizione dei diritti conseguenti ad esso tiene conto di tale protrazione nel tempo (tra le tante, v. Cass. civ., sez. I, 15 marzo 2016, n. 5081; in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, v. Cass. civ., SU, 2 febbraio 2015, n. 1822).

Né, infine, il diritto di difesa del lavoratore o l’accertamento giudiziale del fatto possono subire compromissioni se le condotte sono ancora in essere. Se è vero che il lavoratore potrebbe avere difficoltà a giustificare (e il Giudice ad accertare) le condotte illecite risalenti nel tempo, non così è per quelle condotte più attuali e per quelle ancora in essere. Nella fattispecie concreta, ad esempio, la lavoratrice avrebbe potuto trovarsi nell’impossibilità di giustificare (e il Giudice di verificare) il perché avesse fatto quelle assenze “allora”, ma non si capisce perché – e la sentenza non offre una motivazione esaustiva sul punto – non potesse giustificare (e il Giudice verificare) il perché si assentasse “ancora” e il perché si fosse assentata anche in tempi molto ravvicinati rispetto alla contestazione.