2 Novembre 2016

L’accrescimento nella successione legittima e testamentaria

di Matteo Ramponi, Avvocato Scarica in PDF

 

L’accrescimento in generale

Il codice civile, prima di rinviare all’applicazione delle regole della successione ab intestato (e sempre che non trovino applicazione gli istituti della rappresentazione e sostituzione ordinaria), disciplina, all’art. 674, il c.d. accrescimento, in forza del quale la quota originariamente destinata ad uno dei coeredi, che non voglia o non possa accettare l’eredità, si espande in capo agli altri.

Tradizionalmente (si veda anche la Relazione preliminare al codice civile), si riteneva che la ratio dell’istituto risiedesse nella presunta volontà del testatore: se costui avesse saputo che uno dei chiamati non sarebbe venuto alla successione, avrebbe disposto a favore degli altri.

Altri rinvengono la ratio dell’istituto nella solidarietà della vocazione. Ciascuno dei coeredi sarebbe potenzialmente chiamato per l’intero, ed il diritto del singolo sarebbe limitato dal concorso degli altri titolari.

Una terza impostazione fa propri entrambi gli aspetti delle prime due, affermando che sebbene il fondamento dell’istituto debba correttamente individuarsi nella presunta volontà del testatore, non posa altresì prescindersi dal richiamo alla vocazione solidale per giustificare l’automaticità e la retroattività degli effetti dell’accrescimento.

L’accrescimento opera automaticamente, in virtù dell’accettazione dell’eredità effettuata in relazione alla quota di eredità specificatamente attribuita al chiamato. Al ricorrere dei presupposti indicati dalla legge, non sarà necessaria alcuna ulteriore accettazione: il 1° comma dell’art. 676 cod. civ. prevede testualmente che l’accrescimento tra coeredi ha luogo di diritto.

Anche dall’interpretazione di tale norma, discendono le differenti tesi che si confrontano in ordine alla natura giuridica dell’istituto in esame.

Secondo alcuni, si configurerebbe una vera e propria situazione giuridica soggettiva, qualificabile come diritto al diritto, dotata di una propria autonomia, ossia il diritto ad ottenere una maggiore quota di eredità.

Prevale la tesi che nega autonomia al diritto di accrescimento, asserendo che al coerede sarebbe attribuito, sin dall’inizio, un diritto pieno, atto ad espandersi allorché venga meno il diritto degli altri chiamati all’eredità. E di ciò sarebbe prova la non necessarietà di una nuova.

Dalla natura giuridica dell’istituto così ricostruita, discende l’impossibilità della rinunzia all’accrescimento: solo riconoscendo ad esso natura autonoma, infatti, sarebbe possibile ipotizzare una rinunzia. Solo qualora il chiamato non abbia ancora accettato l’eredità, potrà rinunziare all’intera quota.

Ulteriore corollario di tale impostazione è la retroattività dell’accrescimento. L’acquisto avviene al momento dell’apertura della successione.

La circostanza che l’acquisto avvenga retroattivamente e di diritto fa sì che colui che abbia rinunciato all’eredità non possa, poi, revocare la propria rinuncia ai sensi dell’art. 525 cod. civ., essendosi già verificato l’acquisto da parte degli altri coeredi.

Dalla lettura del disposto dell’art. 674, 1° comma, cod. civ. è possibile desumere quali siano i presupposti necessari per l’operare dell’accrescimento: l’istituzione in uno stesso testamento (c.d. coniuctio verbis) senza determinazione di parti o in parti uguali (c.d. coniuctio re); il mancato acquisto da parte di uno degli altri chiamati; l’assenza di una contraria volontà del testatore e la non operatività della rappresentazione.

Con riferimento al primo dei citati requisiti, preme sottolineare come l’accrescimento non possa operare in presenza di testamenti distinti, anche qualora fossero compatibili le disposizioni in essi contenute. Si faccia l’esempio di un soggetto che dovesse, con un primo testamento, nominare erede nella quota di un mezzo Tizio e, con un secondo, nominare erede nella restante quota di un mezzo Mevio: in questo caso, sebbene le disposizioni siano compatibili, non sarebbe possibile l’accrescimento.

 

L’accrescimento nella successione legittima

In mancanza di una espressa ed univoca previsione normativa, è oggetto di vivo dibattito l’applicabilità dell’istituto dell’accrescimento alle successioni ab intestato.

Da una lettura superficiale dell’art. 522 cod. civ. si potrebbe essere portati ad ammettere pacificamente l’esistenza di un diritto di accrescimento anche nella successione legittima. La citata norma, infatti, testualmente prevede che la quota di un successore legittimo che abbia rinunciato all’eredità si accresca a favore di coloro che con lui avrebbero concorso alla successione.

Alcuni autori ritengono che l’accrescimento di cui parla detto articolo costituisca una vera e propria ipotesi di accrescimento in senso tecnico e affermano che esso troverebbe applicazione esclusivamente nell’ipotesi, testualmente prevista, di rinunzia all’eredità e, inoltre, solo nell’ambito della stessa categoria di successibili. Così, in caso di rinuncia da parte di uno dei figli e concorso alla successione di coniuge e altri due figli, l’accrescimento opererebbe a favore dei soli due figli non rinuncianti.

Altra dottrina sostiene, invece, che non si tratti di accrescimento in senso tecnico, ma di ipotesi particolari nelle quali troverebbero applicazione una serie di norme specifiche tese a regolamentare  la successione in caso di mancanza di uno dei chiamati: l’art. 522 sarebbe semplicemente una di tali norme. Non potrebbe parlarsi di vero e proprio accrescimento poiché nella successione legittima verrebbe meno uno dei presupposti necessari per l’operare di tale istituto: la vocazione solidale e in quote uguali di diversi soggetti.

Al di là della rilevanza dogmatica della disputa, deve evidenziarsi come, indipendentemente dalle qualificazione, debba riconoscersi che le caratteristiche di automaticità dell’acquisto, retroattività e impossibilità di rinunziarvi siano analoghe a quelle dettate in materia di accrescimento testamentario.

 

L’accrescimento volontario

Si faccia il seguente esempio: Tizio nomina propri eredi Caio e Sempronio, in parti diseguali tra loro, espressamente prevedendo che, in caso uno dei due non possa o non voglia accettare l’eredità, la sua quota si accresca all’altro.

Ci si chiede se tale diposizione debba essere qualificata come accrescimento, ovvero in termini di sostituzione ordinaria. Più in generale, ci si interroga sulla possibilità di derogare alle norme dettate in materia di accrescimento.

Parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che le norme in tema di accrescimento siano inderogabili.

Altri reputano derogabile detta normativa, portando a sostegno della propria posizione il disposto dell’art 674 , 3° comma, cod. civ., che fa salva la diversa volontà del testatore: così come questi può escludere che l’accrescimento trovi applicazione, altrettanto potrà prevederne l’applicazione al di fuori dei casi espressamente previsti.

Anche qualora non si ritenesse di aderire alla tesi da ultimo esposta, deve sottolinearsi come risultati pressoché identici possano ottenersi attraverso la sostituzione reciproca, espressamente ammessa dall’art. 689 cod. civ..

Sebbene il risultato cui si perviene sia identico, esistono tuttavia profonde divergenze strutturali.

Innanzitutto, nell’accrescimento la chiamata è unitaria e riguarda, sin dal principio, l’intero diritto attribuito solidalmente a tutti gli istituiti; nella sostituzione reciproca, invece, alla istituzione semplice che riguarda il chiamato, si affianca un’istituzione condizionale che riguarda il sostituito. La conseguenza principale di tale diversità si rinviene nella possibilità, in caso di sostituzione, di rinunciare al lascito ulteriore. In tal caso, infatti, si hanno due distinti diritti e due distinte vocazioni, autonome e indipendenti una dall’altra. Nell’accrescimento, invece, l’acquisto opera automaticamente e non vi è possibilità di rinunciare ad uno dei lasciti.

Ulteriore differenza si rinviene in tema di prevalenza sulla rappresentazione, prevista solo con riferimento alla sostituzione, mentre l’accrescimento cede il passo a quest’ultima.

Ancora, in materia di accrescimento è previsto che il coerede a favore del quale si verifica l’accrescimento subentri negli obblighi che sarebbero dovuti gravare sul chiamato che abbia rinunciato; laddove, in tema di sostituzione, è concessa al testatore, ex art. 690 cod. civ., la possibilità di prevedere che tali obblighi non passino dall’istituito al sostituito.

 

Vendita di eredità e accrescimento

La dottrina si interroga sulla sorte dell’accrescimento nelle ipotesi di vendita della quota ereditaria.

Se successivamente alla vendita, a un terzo, della quota di uno dei coeredi, dovesse esservi, da parte di uno degli altri chiamati, la rinunzia alla propria quota, a favore dell’acquirente opererebbe l’accrescimento?

Alcuni negano tale possibilità, affermando come non tutti i diritti riferibili, lato sensu, ad una successione vengano trasferiti con la cessione dell’eredità. Solo quelli già spettanti al de cuius sarebbero trasferiti  all’acquirente. Viceversa, sarebbero individuabili diritti propri dell’erede esclusi dal trasferimento, tra i quali certamente rientrerebbe ili diritto di accrescimento.

Prevale l’opposta opinione, secondo la quale il diritto di accrescimento sarebbe compreso nella complessiva posizione trasferita e quindi opererebbe a favore dell’avente causa dell’erede.

In realtà, la soluzione discende necessariamente dalla natura giuridica riconosciuta all’accrescimento. Ove lo si intenda quale autonomo diritto, potrà avere circolazione autonoma e, pertanto, non ritenersi compreso nel trasferimento della quota ereditaria.

Qualora, invece, all’accrescimento non fosse riconosciuta natura autonoma, gioco forza dovrebbe concludersi per il trasferimento a favore dell’acquirente unitamente alla complessiva posizione giuridica acquistata, suscettibile ab origine di espansione a seguito della rinunzia degli altri chiamati.