8 Marzo 2016

Omesse informazioni sulla salute del feto: sì alla prova per presunzioni della volontà di interrompere la gravidanza

di Marco Russo, Avvocato Scarica in PDF

Cass., S.U., 22 dicembre 2015, n. 25767 (sent.)

Pres. Rovelli – Est. Spirito

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Procedimento civile – Onere della prova – Presunzione semplice – Interruzione volontaria della gravidanza – Condizioni (C.c., art. 1176, 2236, 2697, 2725; C.p.c., art. 116; L. 22 maggio 1978, n. 194, artt. 6, 7).

In tema di omessa informazione medica sulla sussistenza delle condizioni che legittimano l’interruzione volontaria della gravidanza ex art. 6, L. 194/1978, può essere assolto tramite l’utilizzo di presunzioni semplici l’onere, incombente sulla parte che agisce per il risarcimento del danno, di dimostrare che la donna, qualora correttamente informata, si sarebbe determinata alla scelta abortiva. 

IL CASO
Il personale sanitario omette colpevolmente di evidenziare ai genitori i rischi di patologie del feto emergenti da test ematochimici da essi richiesti al dichiarato scopo di accertare eventuali malformazioni del nascituro: avviata al parto, la donna dà alla luce una bambina affetta da sindrome di Down.

I genitori agiscono allora in proprio e quali rappresentanti legali della figlia per ottenere il risarcimento del danno causato dall’omessa informazione, da parte del medico, della sussistenza dei presupposti di legge per l’interruzione volontaria della gravidanza (v. art. 6, lett. B, L. 22 maggio 1978, n. 194, che legittima l’intervento in presenza di “processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”).

Il tribunale, con sentenza confermata in appello, rigetta la domanda formulata dai genitori rilevando la mancata prova, tra il resto, che la madre si sarebbe concretamente determinata ad interrompere la gravidanza qualora debitamente informata in ordine al rischio di malformazioni genetiche della figlia.

LA SOLUZIONE
La Cassazione annulla la decisione di secondo grado, “manchevole nella parte in cui omette di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva” dei suddetti presupposti e, tra questi, dell’ipotetica volontà della madre, costituita da uno status interno meramente soggettivo del quale “non si può fornire una rappresentazione immediata e diretta”.

LA QUESTIONE
Il riparto dell’onere della prova in materia ha dato luogo ad un contrasto giurisprudenziale reso in realtà di difficile schematizzazione dall’estrema varietà delle fattispecie concrete sottoposte all’attenzione della Corte negli ultimi anni.

Una prima ipotesi è che vi sia prova che la gestante ha espressamente dichiarato, prima dell’indagine diagnostica, di voler interrompere la gravidanza in caso di grave malformazione del feto (Cass., 30 maggio 2014, n. 12264; Cass., 2 ottobre 2012, n. 16754).

In tal caso, l’onere probatorio si inverte e spetta al medico fornire la dimostrazione (dalla dottrina già definita “inattingibile”, anche “per le caratteristiche del fatto da provare”: Palmerini, Il “sottosistema” della responsabilità da nascita indesiderata e le asimmetrie con il regime della responsabilità medica in generale, in Nuova Giur. civ. comm., 2011, I, 464 ss.) che la donna, in concreto, non si sarebbe determinata a pratiche abortive.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, non vi è prova di tale dichiarazione e si pone quindi con maggiore pregnanza la questione della dimostrazione del nesso causale tra l’inadempimento del medico ai propri obblighi informativi e il mancato esercizio del diritto all’autodeterminazione nella scelta procreativa.

Secondo un primo orientamento, la richiesta di interruzione della gravidanza avverrebbe con “regolarità causale” a seguito della completa informazione sull’esistenza di gravi patologie del feto: allegata da parte della madre la propria ipotetica volontà di abortire, dunque, la predetta presunzione statistica risulterebbe sufficiente alla dimostrazione della sussistenza dei presupposti ex art. 6, L. 194/1978, con conseguente risarcibilità del danno causato dall’omessa informativa (Cass., 1/11/2010, n. 22837; Trib. Reggio Calabria, 31 marzo 2004, in Danno e resp., 2005, 179 ss.). 

In giurisprudenza è stata sostenuta una seconda tesi, per cui la predetta presunzione di regolarità causale non opererebbe in materia: al contrario, deve essere “rifiutata” qualsiasi “generalizzazione di tipo statistico” a favore dell’“acquisizione, nel singolo processo, di ogni elemento probatorio che, a prescindere dal saggio apprezzamento che dei relativi esiti farà poi il decidente, consenta di valutare la sussistenza o meno di convincimenti etici aprioristicamente contrari a un intervento abortivo” (Cass., 22 marzo 2013, n. 7269).

Con la decisione in esame la Corte avalla una soluzione intermedia, che, pur confermando l’onere probatorio in capo all’attrice secondo le regole generali (“il legislatore non esime in alcun modo la madre dall’onere della prova della malattia grave, fisica o psichica, che giustifichi il ricorso all’interruzione della gravidanza, nonché della sua conforme volontà di ricorrervi”), consente alla medesima di assolvere a tale compito anche tramite il ricorso a presunzioni semplici.

Queste ultime, come precisato ancora dalla Cassazione, possono fondarsi “su circostanze contingenti, eventualmente anche atipiche, emergenti dai dati istruttori raccolti”, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro e le “pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva”.