Libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche e risarcimento del danno
di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., Sez. III, ord., 22.05.2024, n. 14245 – Pres. Travaglino – Rel. Vincenti
Responsabilità civile – Professionisti -Attività medico-chirurgica – Patologia ad esito infausto-Condotte truffaldine e fraudolente relative alla tipologia di cure e all’efficacia curante delle stesse – Lesione del diritto all’autodeterminazione -Sussistenza – Sufficienza ai fini risarcitori – Fondamento – Fattispecie
[1] La condotta truffaldina e fraudolenta consistente nel prospettare falsamente come efficaci, per una patologia incurabile e ad esito infausto, cure alternative a quelle tradizionali è idonea a determinare una lesione della libertà di autodeterminazione del paziente, sufficiente a giustificare la condanna al risarcimento del danno per la perdita di quel ventaglio di opzioni, tra le quali egli ha il diritto di scegliere, nella prospettiva dell’imminenza della morte.
CASO
In seguito alla diagnosi di patologia neoplastica incurabile, un paziente veniva sottoposto a cicli di cure chemioterapiche e di morfina. Stante la gravità della patologia, i congiunti del malato si rivolgevano, tramite terza persona, ad altro medico, che proponeva una terapia alternativa, basata sulla somministrazione di un unico farmaco, previa sospensione della cura tradizionale, garantendo la guarigione del paziente.
In mancanza di miglioramenti, il medico suggeriva la somministrazione per endovena del farmaco, stante l’interruzione delle cure chemioterapiche, ma di lì a poco il paziente decedeva.
I familiari agivano in giudizio, onde ottenere la condanna del medico al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, questi ultimi subìti sia iure proprio, sia iure hereditatis.
Si procedeva anche in sede penale nei confronti del medico, che veniva condannato ad una serie di reati, tra cui la truffa, in concorso con il primo medico, ed in sede civile venivano condannati entrambi al risarcimento dei danni, con una sentenza che veniva integralmente confermata in secondo grado.
Il medico, che aveva proposto la cura sperimentale, ricorreva in Cassazione, lamentando, tra gli altri motivi di ricorso, la mancanza di nesso eziologico tra la propria condotta ed il decesso del paziente.
SOLUZIONE
La Suprema Corte con l’ordinanza in commento ha stabilito che promettere la guarigione da una malattia incurabile, attraverso una terapia alternativa, lesiva della libertà di autodeterminazione del paziente, costituisce una violazione dei suoi diritti. I familiari del malato deceduto possono richiedere il risarcimento sia per la sofferenza e il danno derivati dall’affidarsi ad una terapia inutile (danni iure proprio), sia per l’alterazione delle scelte del malato (danni iure hereditatis).
QUESTIONI
Con il primo motivo di ricorso, il medico ricorrente lamentava che la gravata sentenza lo aveva condannato al risarcimento del danno, nonostante fosse stata accertata l’insussistenza del nesso causale tra la propria condotta illecita e la morte del paziente.
Il motivo è stato dichiarato inammissibile. Infatti, secondo la Suprema Corte il ricorso del sanitario era volto a fornire una diversa interpretazione del petitum, rispetto a quella prospettata dalla corte di merito, intendendo ricondurre i fatti nell’ambito della sola domanda risarcitoria formulata iure proprio dagli attori per il venire meno del rapporto parentale, caso nel quale occorre che la morte della vittima sia causalmente riconducibile alla condotta illecita del terzo.
Mentre, secondo la corte territoriale il petitum andava individuato nella sussistenza del nesso eziologico tra la condotta truffaldina e fraudolenta del medico e l’alterazione della sfera di libera determinazione del paziente; alterazione che avrebbe provocato ingenti sofferenze sia nel paziente che nei prossimi congiunti, causate dall’aver ingenerato un affidamento circa l’efficacia curante del farmaco alternativo.
Pertanto, secondo la corte di merito, il petitum non andava individuato nel nesso di causalità tra il decesso del paziente ed il comportamento del sanitario.
Il motivo di ricorso è stato dunque dichiarato inammissibile, posto che è precluso alla Corte di legittimità l’interpretazione della domanda giudiziale prospettata dalla corte di merito, salvo il caso in cui vi sia violazione di una norma processuale, di nullità della motivazione per illogicità della medesima o di errore di sussunzione dell’istituto giuridico.
E nel caso di specie, la censura del ricorrente non riguardava nessuna delle suddette ipotesi.
Prima di giungere al decisum, la Suprema Corte coglie l’occasione per evidenziare la situazione giuridica rilevante e meritevole di tutela nel caso di specie, vale a dire il diritto di autodeterminazione del paziente, quale “diritto ad intraprendere, in libertà e consapevole autoresponsabilità, scelte per sé e la propria esistenza in assenza di qualsiasi alterazione o interferenza da parte di condotte riconducibili a soggetti terzi; là dove da tale lesione siano dunque derivate conseguenze dannose di natura patrimoniale (lesione del diritto alla autodeterminazione negoziale) ovvero di natura non patrimoniale (quali sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi) esse non potranno che essere risarcite, salva pur sempre la prova contraria”.
La lesione del diritto di autodeterminazione del paziente è, infatti, una violazione della libertà individuale del soggetto in relazione alle scelte mediche e terapeutiche, che include la possibilità di accettare, rifiutare o interrompere trattamenti sanitari, con particolare riferimento alla fase terminale della vita. Tale diritto si fonda su principi di autonomia e autodeterminazione, sanciti da normative giuridiche e da principi etici riconosciuti, che pongono il paziente come protagonista delle proprie decisioni sanitarie, in particolare nell’ambito di cure palliative.
La Cassazione, richiamando un proprio precedente (Cass. civ. 7260/2018), rammenta che, nei casi di omessa diagnosi tempestiva, in caso di malattie oncologiche ad esito infausto, il pregiudizio, scaturente dalla lesione del diritto di autodeterminazione del paziente, consiste nella perdita di un bene reale e certo come il diritto di decidere liberamente il proprio percorso di vita. Tale bene è «apprezzabile con immediatezza quale correlato del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto» (Cass. civ., 7260/2018).
Ora, indipendentemente dal risarcimento del danno da perdita di chance indissolubilmente legato alla lesione del diritto alla salute per fatto illecito imputabile al terzo, è autonomamente risarcibile la “perdita del ventaglio di opzioni tra le quali il paziente ha diritto di scegliere dinanzi alla prospettiva di un exitus imminente”. E, quindi, non solo la ricerca e la scelta di un determinato percorso terapeutico, ma anche la scelta di cure meramente palliative oppure anche l’accettazione consapevole del fine vita senza ricorrere ad alcun intervento medico, posto che ognuna di queste scelte appartiene, ciascuna con il proprio valore e la propria dignità, al novero delle alternative esistenziali.
Nel caso di specie, la Corte d’appello ha posto a fondamento del danno subìto dal paziente la lesione del diritto all’autodeterminazione, inteso nel senso sopra descritto e quindi quale diritto di decidere se ed a quali cure sottoporsi, in completa libertà e piena autoresponsabilità, in assenza di ingerenze altrui.
Dalla lesione di tale diritto, sono scaturite nel caso de quo due tipologie di danni: un danno patrimoniale, rappresentato dalla somma pagata a titolo di corrispettivo per il farmaco alternativo ed un danno non patrimoniale. Quest’ultimo patito dai congiunti sia iure proprio, per la sofferenza morale e la disperazione condivisa con il familiare e derivanti dall’affidamento mal riposto nell’efficacia curativa della terapia sperimentale/palliativa; sia iure hereditatis, per l’alterazione della consapevole scelta, effettuata in prossimità della fine della vita, dei trattamenti terapeutici a tutela della propria salute e della propria dignità.
Nella valutazione del danno, la sentenza impugnata ha preso in considerazione: la condotta grave del medico, che ha sfruttato la vulnerabilità del paziente e dei suoi familiari, approfittando della loro sofferenza e della situazione emotiva legata alla diagnosi terminale; le modalità subdole con cui la condotta illecita è stata portata avanti, come ad esempio la somministrazione endovenosa nelle fasi finali della malattia; il profondo senso di frustrazione derivante dalle false promesse di guarigione; l’interruzione della terapia (chemioterapia e somministrazione di morfina) consigliata dal medico convenuto, terapia che, se continuata, avrebbe almeno alleviato il dolore causato dall’evoluzione della malattia.
Le conseguenze subite, pertanto, si configurano sia iure proprio che in qualità di eredi del paziente, come correttamente ricondotte dalla Corte territoriale nell’ambito dei danni derivanti dalla lesione del diritto all’autodeterminazione, individuato quale elemento centrale del petitum.
La Suprema Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto dal medico, ribadendo il concetto che il paziente, pur affidandosi alla competenza e professionalità del sanitario, resta responsabile, e non mero oggetto passivo, della propria esperienza esistenziale, soprattutto nel momento cruciale dell’approssimarsi della morte.
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