Misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. e interpretazione del titolo esecutivo giudiziale
di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., sez. III, 11 novembre 2024, n. 29003 – Pres. De Stefano – Rel. Gianniti
Esecuzione forzata – Titolo esecutivo – Sentenza – Integrazione del titolo esecutivo giudiziale con elementi extratestuali – Ammissibilità – Limiti
Massima: “In tema di esecuzione forzata e, in particolare, di misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c., il titolo esecutivo giudiziale non si esaurisce nel documento in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, sicché è consentita l’interpretazione extratestuale del provvedimento sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui si è formato o anche allo stesso estrinseci, purché idoneamente richiamati o presupposti nei primi, a condizione che l’integrazione abbia per oggetto il risultato di un’attività di giudizio su questioni esaminate e risolte in modo univoco – sebbene non adeguatamente estrinsecate al momento della formazione del provvedimento – e che il titolo non sia intrinsecamente contraddittorio, potendo essere completato senza richiedere attività cognitive da espletarsi ex novo”.
CASO
Due società titolari di brevetti relativi a prodotti edili agivano in giudizio nei confronti di una concorrente che aveva posto in essere atti di contraffazione.
Dopo avere inibito, con provvedimento cautelare, l’utilizzo, la pubblicizzazione e la commercializzazione dei prodotti contraffatti, disponendone il ritiro e stabilendo una penale per ogni violazione o ritardo constatati, il Tribunale di Venezia, all’esito del giudizio di merito, condannava la società convenuta al risarcimento del danno e al pagamento della somma dovuta in applicazione della penale fissata con l’ordinanza cautelare, confermando la già disposta inibitoria e fissando un’ulteriore penale di € 1.000,00 per ogni violazione della sentenza o ritardo nella sua attuazione.
Le società titolari dei brevetti notificavano, quindi, atto di precetto, con cui intimavano il pagamento di quanto dovuto per ciascun giorno di ritardo nell’ottemperanza dell’inibitoria contenuta nella sentenza; la società intimata si opponeva, sostenendo che la penale non fosse dovuta e che, in ogni caso, fosse stata calcolata in base ai giorni di ritardo, mentre era stata fissata in relazione alle singole violazioni contestate, sicché l’importo intimato risultava di gran lunga superiore a quello emergente dal comando giudiziale.
La Corte d’appello di Venezia, riformando la sentenza di primo grado che aveva parzialmente accolto l’opposizione, la rigettava, con pronuncia che veniva impugnata con ricorso per cassazione.
SOLUZIONE
[1] La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, affermando che non travalica i poteri di accertamento che gli competono il giudice dell’opposizione a precetto che, facendo leva sugli atti e sui documenti ritualmente acquisiti al processo in cui si è formata la sentenza costituente il titolo esecutivo, integri – senza sostituirlo – il pensiero e il comando ivi espressi, onde individuarne l’esatto contenuto quando residuino dubbi o incertezze circa la loro portata ed estensione.
QUESTIONI
[1] Nella fattispecie esaminata dalla sentenza che si annota, resa nell’ambito di un’opposizione a precetto ex art. 615, comma 1, c.p.c., si dibatteva della correttezza o meno della somma di cui i creditori avevano intimato il pagamento, giacché, secondo il debitore, il calcolo era stato effettuato travisando il comando giudiziale contenuto nel titolo esecutivo.
Più precisamente, con sentenza resa all’esito di un giudizio in materia di contraffazione e concorrenza sleale, il Tribunale di Venezia aveva, tra l’altro, previsto una penale per ogni violazione o ritardo nell’esecuzione di quanto stabilito con la pronuncia: tuttavia, mentre le società intimanti avevano moltiplicato l’importo della penale per il numero di giorni nei quali si era protratta l’inerzia nel dare attuazione al comando giudiziale, quella intimata sosteneva che la penale dovesse calcolarsi avendo riguardo soltanto al numero di violazioni poste in essere, senza avere riguardo alla durata delle stesse, perché la sentenza non lo prevedeva.
Il giudizio di opposizione aveva visto prevalere, in primo grado, la tesi della società intimata, mentre i giudici di secondo grado l’avevano disattesa, ribaltando la decisione e affermando che il titolo esecutivo poteva essere eterointegrato, con l’aggiunta della previsione per cui la penale andava moltiplicata per un’unità temporale pari a ogni giorno di ritardo nell’attuazione dell’ordine, sebbene né il dispositivo né la parte motiva della sentenza indicassero tale moltiplicatore giornaliero.
Per la società ricorrente, in questo modo, il dictum contenuto nel titolo esecutivo sarebbe stato inammissibilmente modificato con un’aggiunta (il riferimento ai giorni di ritardo) avente per oggetto un dato non ricavabile né da un fatto storico, né da un dato contabile, con la conseguenza che il giudice dell’opposizione avrebbe sconfinato dai suoi poteri cognitivi e decisori, sovrapponendo in modo non consentito la propria valutazione a quella del giudice che aveva pronunciato la statuizione contenuta nel titolo esecutivo e che, all’esito delle fasi di impugnazione, non era stata oggetto di alcuna modifica sul punto.
La Corte di cassazione, tuttavia, ha confermato la correttezza del ragionamento svolto nella pronuncia impugnata e delle conclusioni così raggiunte.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, è immune da censure la statuizione per cui la penale andava riferita non già – come sostenuto dalla società intimata – al ritardo complessivamente inteso (circostanza che avrebbe contraddetto la finalità propria della misura coercitiva, diretta a scoraggiare l’inadempimento dell’obbligato, poiché sarebbe rimasto privo di effettiva sanzione il ritardo nella conformazione a quanto stabilito dalla sentenza, a differenza di quanto avviene incrementando proporzionalmente l’importo dovuto in base al numero di giorni per i quali il ritardo si era protratto), bensì a ciascun giorno di ritardo, visto che, al di là di quanto letteralmente constava dal titolo esecutivo, in tale senso deponevano tutti gli elementi acquisiti al processo.
Da questo punto di vista, erano stati valorizzati:
- il tenore delle domande e delle conclusioni formulate dalle società attrici nel giudizio conclusosi, oltre che con la condanna a cessare le condotte di contraffazione e a risarcire i danni provocati, con l’irrogazione della penale, che era stata chiesta per ogni violazione o giorno di ritardo;
- l’assenza di contestazione, da parte della società convenuta, del criterio giornaliero di commisurazione della penale;
- l’integrale accoglimento delle domande proposte dalle società attrici, compresa l’imposizione di una penale nei termini richiesti;
- l’utilizzo, nella medesima sentenza, del criterio giornaliero per calcolare l’importo dovuto per effetto della penale disposta con il provvedimento cautelare che aveva preceduto l’avvio del giudizio di merito, sebbene anch’esso non contenesse alcun riferimento a tale criterio, essendosi limitato a riprendere la dizione contenuta nell’art. 614-bisp.c.
In questo modo, il giudice dell’opposizione a precetto non ha modificato il contenuto del titolo esecutivo, ma, individuando una parametrazione temporale coerente con la natura di durata dell’obbligo discendente dalla condanna pronunciata, si è limitato a dare una lettura esplicativa della statuizione contenuta nella sentenza, sulla base di elementi interni e pacificamente acquisiti al processo in cui si è formata.
La sentenza annotata si pone nel solco dell’orientamento – che può ormai definirsi consolidato – che, senza avallare la tecnica della ricostruzione ab externo dell’atto giudiziale, mira a contemperare l’esigenza di certezza e stabilità dei comandi giudiziali (quand’anche connotati da provvisorietà, in attesa della formazione del giudicato formale e sostanziale), con quella, altrettanto sentita, dell’economia processuale, valorizzando il più possibile, da un lato, l’attività delle parti e del giudice – onde non vanificarla con pronunce rigoristicamente formali di ineseguibilità del titolo esecutivo per presunta indeterminabilità del comando ivi recato – e contenendo, dall’altro lato, gli effetti negativi di vizi che attengono alla mera estrinsecazione del risultato di tale attività.
Ciò che si reputa consentito, dunque, è integrare il pensiero del giudice consegnato alla sentenza con quanto risulta dagli atti delle parti, dai documenti dalle stesse prodotti e dalle relazioni degli ausiliari ritualmente introdotti nel processo in cui la sentenza che ha definito quel giudizio è stata emessa, al precipuo scopo di intendere il significato e l’estensione dell’accertamento compiuto con la pronuncia e delineare il giusto perimetro della sua autorità, senza attribuirvi significati che non le sono propri e che già non le appartengono, ma più semplicemente esplicando ciò che è rimasto inespresso o che, per una qualsiasi ragione, non ha trovato esplicita affermazione.
In altre parole, l’attività interpretativa del giudice dell’esecuzione o dell’opposizione all’esecuzione, in quanto sia diretta non a sovvertire il significato della sentenza (a maggior ragione se risulti già chiaro alla luce del dispositivo e della relativa motivazione), ma a superare le eventuali incertezze emergenti dalla lettura del provvedimento, deve reputarsi lecita e consentita, nella misura un cui non involga attività cognitive suppletive o integrative, rimaste estranee al giudizio che ha preceduto la formazione del titolo.
Il fatto che l’azione esecutiva debba fondarsi su un titolo in cui il diritto sia esattamente individuato non implica, in termini assoluti, un’esigenza di compiutezza del documento in cui è incorporato il titolo esecutivo, dal momento che il giudizio in esso espresso è la risultante della valutazione di quanto risulta dagli atti del processo in cui si è formato, sicché non vi è ragione di negarvi accesso non già per dare spazio a un accertamento mancato, ma per precisarne l’oggetto.
Si tratta, dunque, di non considerare la precisa individuazione dell’obbligo dichiarato dal giudice alla stregua di un requisito meramente formale del provvedimento giudiziario, ma di identificarlo in ciò che il giudice è stato messo in grado di accertare e che – in modo dimostrabile – ha effettivamente accertato, così da fare coincidere ciò che è dichiarato nel provvedimento con ciò che le parti hanno chiesto ed è stato discusso nel processo.
La questione assume accenti particolarmente delicati soprattutto nelle esecuzioni aventi per oggetto obblighi di fare o di non fare: in questi casi, infatti, il giudice dell’esecuzione cui venga chiesto di determinare le modalità di adempimento coattivo di quanto è rimasto ineseguito non può trascendere dalla regolamentazione giuridica che del rapporto ha dato il giudice della cognizione, ma la deve individuare interpretando il titolo, stabilendo – quando non sia il titolo stesso a disporlo – il modo attraverso il quale ricondurre la situazione di fatto a quella di diritto così come affermato nel provvedimento giudiziale.
Non va trascurato, d’altro canto, che, facendo applicazione dei medesimi principi, si è addirittura giunti ad affermare che il provvedimento con cui, in sede di separazione dei coniugi, viene stabilito a carico di un genitore l’obbligo di pagare, in tutto o in parte, spese che andranno affrontate per il mantenimento dei figli (necessariamente ignote al momento della pronuncia), costituisce idoneo titolo esecutivo e non richiede un ulteriore intervento del giudice qualora il genitore creditore alleghi e documenti l’effettiva sopravvenienza degli esborsi e la relativa entità (si vedano Cass. civ., sez. III, 21 dicembre 2021, n. 40992 e Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2016, n. 21241).
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