Locazione e risoluzione nei negozi a prestazioni continuate o periodiche: ex tunc o ex nunc?
di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF«Qualora l’esistenza d’un contratto venga in rilievo quale presupposto per l’esercizio di diritti nei confronti di terzi (come nel caso in cui l’esistenza d’una locazione commerciale sia presupposto per il versamento da parte della p.a. d’un indennizzo al conduttore), e quel contratto venga dichiarato risolto con una pronuncia costitutiva ex art. 1453 c.c., gli effetti della risoluzione nei confronti dei terzi si devono considerare avvenuti nel momento dell’inadempimento dedotto a fondamento della domanda di risoluzione.».
CASO
Nell’anno 2002, la Regione Campania, avendo la necessità di realizzare un tratto ferroviario in attuazione di quanto stabilito dalla legge n. 211 del 1992, disponeva l’occupazione di un’area di 250 metri quadrati nel Comune Gamma, incaricato quale ente espropriante prima la Società Alfa e da ultimo la Società Epsilon.
Invero, sul territorio citato, insisteva un immobile di Tizio concesso in locazione dalla medesima a Caio, il quale se ne serviva per l’esercizio della sua attività di impresa nel campo della ristorazione. Lo stesso Caio, successivamente donava l’azienda di ristorazione ai figli che dal canto loro costituivano la Società Beta onde proseguire nell’attività di famiglia.
Nell’ottobre del 2008 gli enti esproprianti nell’attività di regolazione dei rapporti giuridici nati a seguito dell’occupazione dell’area dove era sito l’immobile condotto in locazione dalla Società Beta ed adibito ad attività commerciale, conclusero un “atto di concordamento” – un accordo tra privati nella specie – a mezzo del quale si disponeva che Epsilon avrebbe corrisposto alla società Beta un indennizzo per occupazione di euro 260.175,650 per un periodo di diciotto mesi – fino all’aprile 2010 – e successivamente rinnovabile con proroga per ulteriori diciotto mesi – fino all’ottobre 2011 – sempre dietro pagamento dello stesso importo.
Medio tempore, nel gennaio 2010, la Società Beta si rendeva morosa nel pagamento di quanto da essa dovuta a titolo di locazione al Sig. Caio il quale, a fronte dell’insoluto della conduttrice, intimava sfratto per morosità nel successivo ottobre 2012.
Nel procedimento si costituiva la Società Beta, la quale proponeva opposizione.
Tuttavia, il Tribunale id Napoli rigettava le richieste di parte intimata e convalidava lo sfratto per morosità con ordinanza dell’ottobre 2013, cui conseguiva la liberazione dell’immobile l’anno successivo.
Nell’aprile del 2011 la Società Beta, che già versava in condizioni di morosità, adiva il Tribunale di Napoli onde richiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo per il recupero delle somme ad esse spettanti a titolo di indennità da occupazione da parte della Società Epsilon.
L’istante deduceva che, spirati i primi diciotto mesi (rispetto ai quali era stata saldata l’indennità), la Società Epsilon non aveva provveduto a sgomberare l’area né corrisposto la ridetta indennità relativa ai successivi diciotto mesi.
Si opponeva con atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo la Società Epsilon rilevando che l’indennità concordata era condizionata alla cessazione dell’attività che Beta avrebbe dovuto sopportare in ragione dell’occupazione medesima. Nel caso di specie, invero, Beta non aveva interrotto la sua attività e pertanto al contrario era la medesima a doversi ritenere inadempiente agli obblighi assunti.
Ne derivava da parte di Epsilon la richiesta di risoluzione dell’accordo del 2008 stante l’inadempimento della Società Beta.
Nelle more del giudizio, inoltre, la Epsilon produceva anche il provvedimento di convalida di sfratto promosso dall’allora locatore dell’immobile condotto dalla Società opposta.
Ad avviso della opponente, l’efficacia della convalida di sfratto retroagiva al momento dell’inadempimento del contratto di locazione (occorso nel 2010) da parte della Società Beta, così rendendo non più dovuta, a partire da quel momento, l’indennità pretesa ed anche quella già percepita “limitatamente alla frazione di tempo compresa tra l’effetto risolutivo del contratto di locazione (gennaio 2010) e la scadenza del primo periodo di occupazione (8.4.2010), e dunque per quattro mesi”.
Con sentenza del 9 marzo 2015, il Tribunale di Napoli rigettava l’opposizione ritenendo in primo luogo pacifica l’occupazione dell’immobile; inoltre che non vi fosse prova del fatto che – benchè sussistesse l’accordo – la Società Beta avesse continuato ad esercitare l’attività di ristorazione; e da ultimo che il fatto che dal 2010 la Società Beta avesse sospeso la corresponsione dei canoni a favore del locatore e che per tale ragione fosse stata costretta a liberare l’immobile – giusta ordinanza di convalida del Tribunale di Napoli – non avesse alcuna rilevanza in quanto integrante tutt’al più “un elemento di mero fatto che poteva al più rilevare come presupposizione”.
Soccombente nel giudizio di opposizione, la Società Epsilon interponeva appello innanzi alla Corte d’Appello di Napoli avverso la decisione del giudice delle prime cure.
Tuttavia, il gravame veniva rigettato sulla scorta delle seguenti motivazioni:
- violazione del divieto di nova in appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c., rispetto alle contestazioni sul quantum debeatur in quanto formulate per la prima volta con il gravame: l’appellante in primo grado aveva contestato la misura dell’area occupata al fine di dimostrare la prosecuzione dell’attività di impresa ed i conseguenti inadempimenti ai patti e non già al fine di determinare in misura inferiore il proprio debito;
- omessa impugnazione della parte della sentenza di merito nella parte in cui il Tribunale di Napoli accertava la prosecuzione dell’attività da parte della Società Beta;
- la liberazione dei locali condotti a seguito dello sfratto non era rilevante ai fini della decisione in quanto il giudice si sarebbe pronunciato nel 2013 e l’indennità oggetto della lite era dovuta per il periodo compreso tra aprile 2010 e ottobre 2011.
Soccombente anche in appello, la Società Epsilon, proponeva ricorso per Cassazione sulla base di un unico motivo.
Resisteva con controricorso la Società Beta.
Veniva fissata la trattazione ai sensi dell’art. 380 bis, c.p.c., il Procuratore Generale chiedeva l’accoglimento del ricorso, la Società Beta depositava memorie.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 28895 dell’11 novembre del 2024, accoglieva l’unico motivo di ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la decisione sulla liquidazione delle spese di lite del giudizio di legittimità.
QUESTIONI
Con il primo e unico motivo di ricorso, la Società Epsilon, censurava la sentenza del gravame nella parte in cui il giudice di seconde cure, riteneva che la mora della Società Beta, l’intimazione di sfratto per morosità e la pedissequa ordinanza di convalida fossero irrilevanti per dirimere la lite sulla non spettanza dell’indennità di occupazione a favore di Beta.
A supporto di tale difesa, la ricorrente rilevava come la sentenza di risoluzione del contratto di locazione avesse effetti retroattivi fino al momento dell’inadempimento, con la conseguenza che dal momento in cui la conduttrice si rendeva morosa nel pagamento dei canoni di locazione la medesima perdeva il diritto al godimento dell’area occupata.
Al venir meno di quel diritto, pertanto, sarebbe venuto meno anche il diritto all’indennità per la perdita dello stesso.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso ritenendo il motivo fondato.
I giudici di legittimità rilevavano che la Corte di Appello di Napoli fosse stata chiamata a decidere se fosse dovuta o meno alla Società Beta l’indennità di occupazione accordata nonostante la stessa in primo luogo, ancor prima che divenisse esigibile il credito nei confronti dell’Ente espropriante, fosse già in mora nel pagamento dei canoni di locazione e che successivamente fosse stata sfrattata dal medesimo immobile.
Sulla base di tali presupposti il giudice delle seconde cure respingeva le ragioni della Società Espsilon in quanto lo sfratto veniva convalidato nel 2013 mentre l’indennità riguardava il periodo intercorrente tra aprile 2010 ed ottobre 2011.
Ad avviso della Corte di Cassazione, tuttavia, la suindicata decisione costituirebbe una falsa applicazione dell’art. 1458 c.c., il quale stabilisce che “la risoluzione del contratto per inadempimento ha effetto retroattivo tra le parti, salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite”.
Sull’interpretazione della norma si sussegue da tempo un contrasto in dottrina (nella pronuncia la Corte di legittimità, richiama autorevoli posizioni dottrinarie antitetiche che definiscono la norma come “oscura e fonte di problemi insolubili” ovvero in senso contrario come disposizione che “esclude qualsiasi dubbio sugli effetti della risoluzione”).
Tuttavia, in tono tranchant il Collegio nel pronunciarsi “non ha inteso e non intende seguire la nimia subtilias di talune opinioni dottrinarie, e nell’interpretazione di questa norma ha, da tempo, distinto due gruppi di “effetti” della risoluzione”.
La risoluzione contrattuale – insieme al mutuo dissenso ed al recesso – costituisce una ipotesi di scioglimento del contratto che interviene a seguito di accadimenti sopravvenuti nel corso dell’esecuzione del medesimo vincolo sinallagmatico.
In particolare, nei contratti a prestazioni corrispettive, nel momento in cui una delle parti contrattuali non adempia alle proprie obbligazioni, la controparte che subisce il ridetto inadempimento ha a propria disposizione il diritto di agire o per ottenere l’adempimento delle prestazioni dovute – e quindi mantenere in vita il negozio giuridico – ovvero agire, nel termine prescrizionale di dieci anni dal momento in cui si è verificato il grave inadempimento ai sensi e per gli effetti dell’art. 2946 c.c., per la risoluzione del negozio giuridico rimasto inadempiuto fermo restando il diritto ad ottenere il risarcimento del danno.
Unicamente per onere di completezza si evidenzia che l’inadempimento – declinabile come mero ritardo ovvero come definitivo – idoneo a legittimare la risoluzione del contratto deve configurarsi di non scarsa importanza, tenuto conto dell’interesse della controparte contrattuale alla prestazione, nonchè imputabile al debitore (cioè l’inadempimento deve dipendere dalla volontà o dalla colpa del debitore medesimo).
Sugli effetti della risoluzione, la Corte di Cassazione ha distinto due diversi gruppi.
Il primo fa riferimento agli effetti della risoluzione definibili come “interni” cioè che si producono tra le parti del contratto oggetto di risoluzione.
Tra di essi si enumerano:
1) effetti liberatori, in quanto le parti sono liberate dalle obbligazioni derivanti dal contratto in via definitiva;
2) effetti restitutori, in quanto alle parti è fatto obbligo di restituire quanto eventualmente conseguito;
3) effetti risarcitori, dal momento che la parte inadempiente ha l’obbligo di risarcire il danno da interesse positivo – cioè l’interesse della parte non inadempiente a ricevere quanto avrebbe conseguito in caso di regolare esecuzione del contratto[1].
Non è da escludere, tuttavia, che l’esistenza del contratto risolto rilevi anche nei confronti dei terzi ovvero che il medesimo contratto rilevi tra le parti come “presupposto per l’esercizio di diritti o facoltà previsti dalla legge o da altri contratti” – come nel caso di diritto di prelazione o di opzione ovvero nel caso in cui il contratto risolto costituisse “la causa concreta giustificatrice di un diverso accordo[2]”.
In questa ultima ipotesi, e cioè nel caso in cui il contratto sia elemento costitutivo di una ulteriore fattispecie o causa giustificativa di un diverso negozio, lo scioglimento del medesimo per mezzo della risoluzione è idoneo a produrre ulteriori effetti anche nei confronti di soggetti terzi al sinallagma contrattuale.
I ridetti effetti sono da ricondurre all’interno del secondo gruppo dei cd. effetti “esterni” della risoluzione.
A tal proposito occorre distinguere tra contratti ad esecuzione istantanea – rispetto ai quali dichiarata la risoluzione essi si considerano come mai esistiti ed inidonei ad essere utilizzati come elementi costitutivi di ulteriori fattispecie o come presupposto per l’esercizio di ulteriori diritti e facoltà; e contratti a prestazioni continuate rispetto ai quali la risoluzione comporta la cessazione del contratto dal momento dell’inadempimento.
In altre parole “l’inadempimento costituisce un vizio sopravvenuto del sinallagma; il vizio del sinallagma rende sine causa il contratto e le prestazioni eseguite in forza di esso; ergo, è dal momento dell’inadempimento che il contratto diviene sine causa”.
Il contratto ad esecuzione continuata, in sintesi, si deve ritenere esistente sino al momento in cui si è verificato il grave inadempimento che ne comporta la risoluzione.
Il che non contrasta con il dettato dell’art. 1458 c.c. il quale infatti prevede che gli effetti della risoluzione nei contratti ad esecuzione continuata o periodica non si riverberino sulle prestazioni già eseguite.
Tuttavia non tutti gli effetti della risoluzione si producono ex nunc: la limitazione della retroattività infatti opera unicamente nei confronti degli effetti restitutori ed avuto riguardo alle prestazioni già eseguite che pertanto devono considerarsi irripetibili.
L’art. 1458 c.c., tratta solo degli effetti interni della risoluzione “ma a tutti gli altri effetti anche la risoluzione d’un contratto ad esecuzione continuata ha efficacia retroattiva a partire dal momento in cui si è verificato l’inadempimento”[3].
Al contrario, ad avviso di parte della dottrina, tuttavia, la risoluzione in materia di contratti di locazione di immobili avrebbe effetti retroattivi al momento della domanda giudiziale, con il conseguente obbligo del conduttore di riconsegnare l’immobile al momento della domanda[4].
La Corte di legittimità sul punto ha chiarito che “in realtà tra i due orientamenti che precedono non vi è contrasto. Infatti nelle sentenze in cui si è affermato che gli effetti della sentenza di risoluzione si producono dalla domanda giudiziale, era in discussione il dies a quo di decorrenza dei frutti civile della cosa da restituire (l’immobile locato), ovvero del risarcimento del danno ex art. 1591 c.c.”.
Nelle pronunce ove si è affermato che nei contratti ad esecuzione continuata gli effetti della risoluzione retroagiscono alla data dell’inadempimento avevano ad oggetto un problema diverso e cioè determinare il momento in cui il negozio giuridico doveva considerarsi risolto per l’eventuale opponibilità ai soggetti terzi “come fatto storico oppure come elemento costitutivo di una fattispecie produttiva di ulteriori diritto: ed esempio quando si è trattato di stabilire se eventuali diritti potestativi (riscatto, opzione, prelazione) esercitati da una delle parti, e fondati sul contratto stesso, potessero ritenersi validamente esercitati”.
Questi sono gli unici fini rispetto ai quali la giurisprudenza di legittimità ha elaborato il principio alla luce del quale nei contratti di durata lo scioglimento del contratto conseguente a risoluzione retroagisca solo fino alla data dell’inadempimento[5].
Nella pronuncia la Corte di Cassazione, precisava altresì, che la regola sostanziale prevista dall’art. 1458 c.c., non contrasta con la regola processuale in virtù della quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della domanda.
Ad avviso della Corte “non vi è contraddizione tra l’affermare che gli effetti della sentenza si producono dal momento della domanda, e il soggiungere che tali effetti siano retroattivi. Si tratta infatti di piani diversi e tra loro non confliggenti”[6].
E ciò in ragione del fatto che, nonostante sopravvenga lo scioglimento del contratto una volta proposta la domanda di risoluzione, il fatto costitutivo della medesima risulterà accertato al momento della verificazione dell’inadempimento contrattuale; “d’altro canto, sebbene l’ultimo comma dell’art. 1453 c.c. dica che dal momento della domanda di risoluzione (costitutiva) la parte inadempiente non può più adempiere, va considerato che questa previsione esclude che possa assumere rilevanza un simile adempimento tardivo agli effetti della valutazione ex art 1455 c.c., ma non esclude il rilievo proprio agli effetti di tale norma della fattispecie per cui prima della domanda di risoluzione vi sia un adempimento tardivo: in tal caso se la valutazione ex art. 1455 c.c. risulti negativa per l’inadempiente divenuto adempiente tardivo prima della domanda, parimenti l’effetto della pronuncia costitutiva di risoluzione sarà ricollegato-nei confronti dei terzi per cui rilevi-al momento dell’inadempimento con irrilevanza dell’inadempimento tardivo, anteriore la proposizione della domanda”.
Esaminando il caso di specie, la risoluzione del contratto di locazione concluso tra la Società Beta e Tizio, non rileva in termini di effetti restitutori o risarcitori “in quanto res inter alias acta”.
Rileva, invero, in quanto fatto estintivo del presupposto giustificativo della dazione patrimoniale da parte dell’Ente espropriante alla Società Beta e che pertanto, facendo applicazione di quanto sino ad ora affermato, la risoluzione del ridetto contratto di locazione produce i suoi effetti alla data dell’inadempimento nel gennaio 2010.
Tanto è vero che Società Beta sospendeva il pagamento dei canoni di locazione a gennaio 2010; l’indennizzo dovuto dall’Ente espropriante era dovuto da aprile 2010 a ottobre 2011; il decreto ingiuntivo venne emesso dal Tribunale di Napoli ad aprile 2011; lo sfratto per morosità fu intimato ad ottobre 2012 e che l’ordinanza di convalida fu pronunciata ad ottobre 2013.
L’ordinanza di convalida, quale titolo esecutivo idoneo ad ottenere il rilascio dell’immobile concesso in locazione, possiede – per giurisprudenza costante – i medesimi effetti della sentenza di risoluzione del contratto, la quale scioglie il contratto con effetto retroattivo – fatte salve nei contratti a prestazioni continuate o periodiche, le prestazioni già eseguite “dal momento in cui, realizzandosi l’inadempimento rilevante ai fini risolutivi (cioè accertato dalla pronuncia giudiziale), è venuto meno il sinallagma contrattuale”.
Per le ragioni della Società Epsilon, sia al momento della sentenza delle seconde cure che al momento della sentenza di primo grado, il contratto di locazione presupposto per la concessione dell’indennità di occupazione doveva considerarsi risolto con effetti retroattivi a partire dal 2010 – momento dal quale si è verificato l’inadempimento.
Concludeva la Corte di Cassazione rilevando che “la sentenza impugnata invece, negando rilievo alla risoluzione del contratto di locazione, ha consentito alla Società Beta di cumulare: a) l’importo dei canoni; b) l’indennità di occupazione; c) il possesso dell’immobile, capovolgendo di fatto la ratio stessa della risoluzione per inadempimento, ovvero il ripristino dello status quo ante”.
La sentenza di appello veniva pertanto cassata con rinvio alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione perchè decida nuovamente sulla questione osservando il principio di diritto elaborato dalla Corte di legittimità: “quando l’esistenza di un contratto venga in rilievo quale presupposto per l’esercizio di diritti nei confronti di terzi (come nel caso in cui l’esistenza d’una locazione commerciale sia presupposto per il versamento da parte della P.A. d’un indennizzo al conduttore), e quel contratto venga dichiarato risolto con una pronuncia costitutiva ex art. 1453 c.c., gli effetti della risoluzione nei confronti dei terzi si devono considerare avvenuti nel momento dell’inadempimento dedotto a fondamento della domanda di risoluzione. Da quel momento, pertanto, cessa l’obbligazione del terzo il cui presupposto giuridico era l’esistenza del contratto risolto”.
[1] Cass. Civ. n. 12942/92.
[2] Estinguendo le obbligazioni in esso previste può comportare l’estinzione delle garanzie “se di queste non ne sia stata pattuita l’estensione alle obbligazioni risarcitorie o restitutorie”.
[3] Da ultimo si confronti Cass. Civ. n. 16856/24
[4] Cass. Civ. n. 16100/09: “la costituzione in mora del conduttore – necessaria (art. 1219 cod. civ.) per gli obblighi risarcitori previsti dall’art. 1591 cod. civ. – si determina, sia nel caso di risoluzione giudiziale del contratto (art. 1458, primo comma cod. civ.), sia nel caso di risoluzione di diritto (artt. 1456 e 1457 cod. civ.), dalla data di proposizione della domanda, e non da quella del suo accoglimento, per il principio secondo il quale la durata del processo non può danneggiare l’attore”.
[5] In via esemplificativa la Corte di legittimità nella presente pronuncia elabora un caso pratico: “se un conduttore prelazionario si rendesse inadempiente in modo grave il 1 febbraio, il 1 marzo esercitasse la prelazione, ed il 1 maggio si vedesse notificata la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, in caso di accoglimento di quest’ultima la prelazione dovrà ritenersi invalidamente esercitata, perché posteriore all’inadempimento, a nulla rilevando la sua anteriorità rispetto alla domanda”.
[6] la conferma logica di questo principio si ricava dall’ipotesi in cui, prima della proposizione della domanda (costitutiva) di risoluzione giudiziale ai sensi dell’articolo 1453 del codice civile, il debitore adempie la propria obbligazione tardivamente, ma con un ritardo tale da non escludere la gravità di inadempimento di cui ai sensi dell’articolo 1455 codice civile (è sin troppo noto l’esempio del sarto che consegni l’abito da sposa il giorno dopo le nozze). In un caso come questo ovviamente nessuno potrebbe sostenere che, dovendo retroagire gli effetti della sentenza al momento della domanda, la risoluzione non potrebbe essere pronunciata perché al momento della domanda il debitore non era (più) inadempiente. Si dirà, piuttosto che dal momento della domanda si verificherà l’effetto retroattivo della risoluzione, che renderà il contratto come non mai esistito.
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