8 Ottobre 2024

Cartella clinica incompleta e valore probatorio

di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., Sez. III, ord., 17.06.2024, n. 16737 – Pres. Travaglino – Rel. Rubino

Attività medico-chirurgica – Incompletezza della cartella clinica – Fede privilegiata – Rilevanza ai fini della dimostrazione del nesso di causalità tra condotta sanitaria e danno patito dal paziente – Principio di vicinanza della prova – Condizioni – Fattispecie

[1] Le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un’azienda ospedaliera pubblica o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e ss. c.c., per quanto attiene alle indicazioni ivi contenute delle attività svolte nel corso di una terapia o di un intervento. La prova dell’effettivo svolgimento di attività non risultanti dalla cartella clinica stessa può essere invece fornita con ogni mezzo. Non sono coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa annotate.

[2] In tema di responsabilità professionale sanitaria, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico ed il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.

CASO

Gli attori, genitori di una bambina deceduta al momento del parto in ospedale, allegavano la condotta gravemente negligente del personale sanitario, per non aver prescritto alla paziente, primipara ultraquarantenne, le necessarie indagini diagnostiche, nonostante la qualifica della gravidanza come “a rischio”, e per aver, conseguentemente, eseguito tardivamente l’intervento di parto cesareo, determinando il decesso della neonata.

Gli attori, altresì, censuravano il grave inadempimento dell’ospedale in relazione all’obbligo di custodia e cura della completezza della cartella clinica, da cui non risultava il referto dell’indagine cardiotografica, eseguito la sera antecedente al parto, la cui esecuzione era stata accertata anche nel corso del procedimento penale a carico dei sanitari ed allegata dagli attori nel giudizio civile. Secondo i genitori della vittima, da tale esame era emersa la gravità della situazione e l’urgenza di intervenire con il parto cesareo, che avrebbe consentito di salvare la bambina.

Espletata la CTU medico-legale, il Tribunale accoglieva la domanda degli attori.

La Corte d’Appello, adita dall’azienda ospedaliera, sulla base delle risultanze di una rinnovata CTU, riformava integralmente la sentenza di primo grado.

In particolare, la Corte territoriale riteneva che, come accertato dalla nuova CTU, fino al tracciato del pomeriggio del giorno antecedente al decesso, non erano state riscontrate evidenze tali da motivare un parto cesareo d’urgenza o l’esecuzione di controlli più ravvicinati. Pertanto, secondo la corte di merito la morte della neonata non era imputabile alla condotta dei sanitari, ma era stata dovuta ad “asfissia derivata dal doppio giro di funicolo rilevato in sede di esecuzione del cesareo e poi in sede di autopsia, quindi al verificarsi di un fatto repentino e imprevedibile, non deducibile dagli esami strumentali condotti fino al pomeriggio precedente, che non avrebbe potuto essere evitato neppure mediante esami più frequenti”.

Con riferimento alla mancanza del tracciato asseritamente effettuato nella serata antecedente al parto, la Corte d’Appello rilevava come nessuna indicazione di esso fosse contenuta nella cartella clinica, con natura di certificazione amministrativa, e che “anche se si volesse ritenere provato il fatto storico dell’avvenuto compimento dell’esame strumentale (come emergeva dalla prova testimoniale effettuata in sede penale, corroborata dal provvedimento del GIP prodotto in causa), l’accertamento in fatto effettuato nel procedimento penale dell’avvenuta esecuzione di quell’esame non riportato nella cartella clinica non poteva essere sufficiente, da solo, per dimostrare o anche fare presumere che il tracciato avesse dato indicazioni certe di sofferenza fetale patologica, impositive di un più tempestivo taglio cesareo”.

Avverso la sentenza di secondo grado gli originari attori proponevano ricorso in cassazione, affidato a tre motivi.

SOLUZIONE

Con l’ordinanza in commento la Suprema Corte torna ad esaminare il tema della cartella clinica incompleta, affermando che il principio che opera in questo caso è quello della vicinanza alla prova, secondo il quale “in tema di responsabilità medica, la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente”.

QUESTIONI

[1] I due originari attori ricorrevano in cassazione con tre motivi, i quali si incentravano, rispettivamente, sulla portata probatoria della cartella clinica nella parte relativa ad accertamenti sanitari mancanti, sul relativo onere della prova e sulla errata applicazione del nesso causale.

Con il primo motivo, i genitori della bambina deceduta si dolevano del fatto che la corte territoriale avesse ritenuto che l’attendibilità e la completezza della cartella clinica potessero essere messe in discussione solo mediante querela di falso e, pertanto, secondo la corte di merito, gli attori avrebbero dovuto impugnare il contenuto della cartella, tramite tale procedimento.

Sul punto, gli Ermellini richiamano – nell’ordinanza in commento – i propri precedenti (Cass. civ., 27471/2017, 27288/2023), secondo cui la cartella clinica, redatta all’interno di strutture sanitarie pubbliche o private convenzionate con il servizio pubblico, ha natura di certificazione amministrativa, unicamente per quanto attiene alle trascrizioni di attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, le quali sono quindi coperte da fede privilegiata; mentre non ne sono coperte le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza e di opinione contenute nella cartella.

Quindi, in relazione ai dati oggettivi, quali l’indicazione delle attività cliniche e strumentali svolte, delle terapie prescritte e poi eseguite in relazione al paziente, chi redige la cartella è considerato pubblico ufficiale e le relative risultanze sono contrastabili solo mediante querela di falso; le valutazioni diagnostiche, invece, non sono assistite da fede privilegiata e, quindi, la querela di falso non è necessaria per contrastarne la portata probatoria.

Le pronunce richiamate dalla Suprema Corte e sopra menzionate affermano che la fede privilegiata è riservata solo alle attività che risultano positivamente dalla lettura della cartella clinica, e quindi detto valore non si estende implicitamente a ciò che non è riportato, per cui non è coperto da pubblica fede il dato della non esecuzione di un esame, per il solo fatto che non è inserito in cartella.

Il principio giurisprudenziale sopra esposto non è quindi applicabile nella fattispecie in esame, che attiene alla problematica della cartella clinica lacunosa ed irregolare, con la conseguenza che, ai fini dell’accertamento della lacunosità o dell’omissione della cartella clinica, non è necessario proporre la querela di falso.

Quali sono, quindi, le regole probatorie applicabili in relazione alla allegazione che una prestazione o attività sanitaria effettivamente svolta non sia riportata nella cartella clinica?

Secondo gli Ermellini “in relazione ai dati mancanti, che una delle parti assume dovessero essere riportati, perché relativi ad attività (nel caso in esame, cliniche o terapeutiche) che assume si siano svolte, la prova può essere fornita con ogni mezzo e si tratta di accertamento in fatto, riservato al giudice di merito”.

Pertanto, la corte territoriale, affermando che la completezza della cartella clinica potesse essere contestata solo mediante querela di falso, avrebbe errato nel non considerare e valutare le risultanze istruttorie diverse dalla cartella clinica (es. le prove testimoniali, assunte sia nel giudizio civile, sia in quello penale), da cui era emerso che tra l’indagine pomeridiana (in cui il feto era in condizioni normali) e l’esame eseguito nelle prime ore del giorno dopo (in cui il feto era in condizioni critiche), ve ne era stato un altro (alle ore 20.00 del giorno precedente al decesso), in cui la scarsa mobilità del feto e le difficoltà respiratorie avevano iniziato ad evidenziarsi.

Conseguentemente, gli Ermellini hanno accolto il primo motivo di ricorso ed hanno cassato la sentenza con rinvio, pronunciando il seguente principio di diritto, cui il giudice del rinvio deve attenersi: “le attestazioni contenute in una cartella clinica, redatta da un’azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico, hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e segg. c.c., per quanto attiene alla indicazione ivi contenuta delle attività svolte nel corso di una terapia o di un intervento. La prova dell’effettivo svolgimento di attività non risultanti dalla cartella clinica stessa può essere invece fornita con ogni mezzo. Non sono coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa annotate”.

[2] Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti avevano lamentato l’errata applicazione delle norme in tema di riparto dell’onere probatorio, nell’ambito della responsabilità sanitaria, con particolare riferimento al caso (quello di specie) di una cartella clinica incompleta.

Sul punto la Suprema Corte ha ribadito un proprio principio affermato da tempo, secondo cui l’eventuale incompletezza della cartella clinica costituisce una circostanza di fatto, che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un nesso di causalità tra l’operato del sanitario e il danno patito dal paziente.

Tale valutazione può avvenire in forza del c.d. principio di vicinanza della prova, in considerazione del fatto che l’incompleta o non regolare tenuta della cartella clinica non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente.

Tale principio, tuttavia, non opera automaticamente ma solo in presenza di due condizioni: quando sia proprio l’incompletezza della cartella ad aver reso impossibile l’accertamento del nesso eziologico tra l’operato del sanitario ed il danno subìto dal paziente e quando il professionista abbia posto in essere una condotta (allegata dal paziente ma non risultante dalla cartella) astrattamente idonea a provocare il danno.

Ritenendo diversamente, si verrebbe a giovare della carenza della documentazione clinica proprio il medico che, rimanendo inadempiente rispetto al proprio obbligo di diligenza nella tenuta della documentazione, ha determinato quella lacuna, impedendo così l’accertamento della sua responsabilità.

Quindi, in primo luogo, l’incompletezza della cartella potrà pregiudicare il medico soltanto se l’omessa annotazione concerna una condotta medica astrattamente idonea a causare il danno patito dal paziente: qualora, al contrario, la condotta del sanitario (non menzionata in cartella clinica) sia inidonea a causare il danno, non occorre alcuna ricostruzione del preteso contenuto mancante della cartella.

In sostanza, il fatto mancante deve porsi come anello essenziale nella catena causale, che ha condotto al danno.

In secondo luogo, l’incompletezza della cartella deve essere tale da impedire la ricostruzione della catena causale dei fatti che hanno condotto all’evento di danno

Solo in questi casi opera il cd. principio di vicinanza della prova: se il paziente, senza sua colpa ma anzi per colpa del medico che ha mal compilato la documentazione clinica, non disponga dei documenti necessari per provare la condotta medica che l’ha danneggiato, tale mancanza verrà interpretata a favore del paziente stesso, presumendo la realizzazione della condotta del medico.

Questo principio interpretativo a favore del paziente delle eventuali mancanze della documentazione clinica opera non solo al fine dell’eventuale accertamento della colpa del medico, ma anche del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente.

In accoglimento del secondo motivo di ricorso, la Cassazione ha affermato che la Corte territoriale avrebbe completamente omesso di considerare la rilevanza che avrebbe potuto avere un tracciato cardiotocografico intermedio tra quello pomeridiano, in cui secondo le allegazioni attoree il feto era vitale, e quello dell’alba del giorno dopo, in cui era già in stato preagonico. Da qui la conclusione secondo la quale la denunciata lacuna nella cartella, in questo caso, ove fosse positivamente accertata, sarebbe “rilevante ai fini della ricostruzione del nesso eziologico, con la conseguenza che l’opposto valore presuntivo derivante da quella carenza non può essere obliterato”.

Con il terzo motivo di ricorso, gli originari attori si dolevano del fatto che la Corte d’Appello non si fosse attenuta al principio civilistico del “più probabile che non” in tema di nesso eziologico.

Anche tale motivo è stato accolto, imponendo alla corte territoriale, in sede di rinvio, ad attenersi al suddetto principio e non a quello penalistico della “certezza oltre ogni ragionevole dubbio”.

In applicazione dei menzionati principi, la Cassazione ha ritenuto errato il ragionamento adottato dalla Corte d’Appello, sia in termini di rilevanza delle omissioni e irregolarità della cartella clinica, sia con riferimento ai criteri da applicare in giudizio.

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