24 Settembre 2024

Le conseguenze dell’inerzia del locatore nell’escutere il conduttore

di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione civile, sez. III, Ordinanza del 26.04.2024 n. 11219, Pres. R. G. A. Frasca, Est. P. Spaziani

Massima : « In tema di locazione immobili urbani ad uso diverso da quello abitativo la condotta del locatore che richiede l’integrale pagamento dei canoni maturati, nonostante l’inerzia nell’escutere il conduttore anche se per un fatto a lui imputabile e per un tempo tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non è sufficiente a far desumere la volontà tacita di rinunciare al proprio diritto».

CASO

Il Tribunale di Trento dichiarava risolto per inadempimento del conduttore Tizio, titolare della ditta individuale Alfa, il contratto di locazione, relativo a un immobile ad uso commerciale, stipulato con la società Beta.

In particolare, il giudice di prime cure accertava il mancato pagamento da parte di Tizio dei canoni di locazione dal febbraio 2015 al marzo 2020, rigettando l’eccezione di compensazione avente ad oggetto il controcredito relativo a forniture e condannando lo stesso a pagare a Beta la somma di Euro 125.000,00.

Nonostante l’appello del conduttore, la Corte territoriale di Trento rigettava il gravame confermando integralmente la pronuncia di primo grado.

Tizio, pertanto, proponeva ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi e Beta si difendeva con controricorso.

SOLUZIONE

La Corte di cassazione rigettava il ricorso e condannava Tizio alla rifusione delle spese di lite.

QUESTIONI

Tizio con il primo motivo denunciava la violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 437 c.p.c. – come richiamato dall’art 447 bis c.p.c. – e 81 c.p.c..

Nello specifico il ricorrente lamentava la decisione della Corte d’Appello di ritenere inammissibile l’eccezione di difetto di legittimazione attiva di Beta poiché sollevata solamente in detta sede.

Tuttavia, Tizio dichiarava di essere venuto a conoscenza dell’iscrizione del pignoramento immobiliare – poi cancellato – sull’immobile oggetto di locazione solamente dopo il deposito della sentenza di primo grado. In ragione di tale circostanza, lo stesso aveva sollevato in sede d’appello la suddetta eccezione ritenendo la legittimazione attiva esclusivamente in capo al custode.

I giudici di secondo grado ritenevano, ad ogni modo, rigettavano tale eccezione poiché, oltre alla tardività della stessa, la legittimazione del custode non esclude quella della debitrice esecutata, quale proprietaria e locatrice del bene pignorato.

La Corte di cassazione interveniva sul punto – procedendo unicamente alla correzione della motivazione ex art. 384, ultimo comma, c.p.c. – rilevando come i motivi di decisione dei giudici del gravame fossero erronei, nonostante il dispositivo risultasse conforme al diritto.

Gli Ermellini, invero, sottolineavano come la posizione processuale del custode dei beni sottoposti a sequestro giudiziario, il quale agisca a tutela della conservazione del valore del patrimonio affidatogli, equivale a quella di un sostituto processuale[1]; il custode opera in tal caso come rappresentante di ufficio – in quanto ausiliare del giudice – di un patrimonio separato, che costituisce centro di imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi, e in tale veste – e dunque solo per la tutela degli interessi che vi si collegano – ha la legittimazione processuale, la quale resta, sempre e comunque, limitata alle azioni relative alla custodia e all’amministrazione dei beni[2]. Pertanto, al custode dei beni sottoposti a sequestro giudiziario, in quanto amministratore di un patrimonio separato, centro di imputazione di rapporti giuridici, spetta la legittimazione “ad processum” e cioè il potere di stare in giudizio in rappresentanza del patrimonio stesso, cui compete invece la legittimazione “ad causam per le controversie relative ai detti rapporti[3].

II problema della perdita di legittimazione del debitore pignorato in favore di quella del custode non è, dunque, un problema di legittimazione sostanziale, cioè di titolarità della posizione oggetto di discussione, ma di spettanza del relativo potere rappresentativo.

Nel caso di specie, poiché il pignoramento era stato cancellato in prossimità della conclusione del giudizio di primo grado, con conseguente riacquisizione del potere rappresentativo da parte della società locatrice – debitrice esecutata – prima dell’introduzione di quello d’appello, la mancanza di esso non aveva formato oggetto di contestazione in primo grado, mentre la contestazione effettuata con l’atto di appello è rimasta irrilevante per lo svolgimento del primo grado, dal momento che un difetto di rappresentanza verificatosi nel primo grado di giudizio non può essere lamentato nel grado successivo. Secondo i giudici di legittimità l’eccezione di difetto di legittimazione di Beta avrebbe dunque dovuto rigettarsi, previa qualificazione della stessa quale eccezione di difetto di potere rappresentativo, in ragione della cessazione del pignoramento, della correlativa perdita della legittimazione rappresentativa da parte del custode e della corrispondente riacquisizione della stessa in capo alla società titolare del diritto, verificatesi prima della proposizione dell’appello.

Il primo motivo veniva, pertanto, rigettato.

Con il secondo motivo il ricorrente si doleva della violazione dell’art. 132, secondo comma, n.4, c.p.c., in quanto la Corte d’Appello non aveva accolto l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per difetto di motivazione.

Difatti, secondo Tizio, il Tribunale non aveva esposto i motivi per i quali aveva ritenuto accertato il suo inadempimento e che pertanto la Corte d’Appello avrebbe dovuto rilevare tale nullità, rimettendo la causa al primo giudice.

Secondo la Corte di cassazione, però, i motivi di remissione al giudice di primo grado sono tassativamente previsti dalla legge, pertanto, la Corte territoriale avrebbe correttamente trattato tale eccezione sollevata dal ricorrente.

Conseguentemente, anche tale motivo di ricorso veniva rigettato.

Con il terzo motivo veniva denunciata la violazione o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.., poiché, il ricorrente sosteneva che, nel chiedere il pagamento di 52 canoni di locazione senza aver mai chiesto prima nulla, la società locatrice avrebbe violato i canoni di correttezza e buona fede, incorrendo in un abuso del diritto.

I giudici di Piazza Cavour davano atto dell’isolata pronuncia citata dal ricorrente a sostegno del proprio motivo, la quale in tema di locazione ad uso abitativo, aveva affermato che integra abuso del diritto la condotta del locatore, il quale, dopo aver manifestato assoluta inerzia per un periodo di tempo assai considerevole in relazione alla durata del contratto, rispetto alla facoltà di escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del canone dovutogli, così ingenerando nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito “per facta concludentia”, formuli un’improvvisa richiesta di integrale pagamento del corrispettivo maturato[4].

Tuttavia, la Suprema Corte non riteneva tale pronuncia utile a sostenere le motivazioni sollevate dal ricorrente poiché da un lato la stessa si riferisce ad una fattispecie diversa – locazione ad uso abitativo – e dell’altro perché l’abuso del diritto richiede che l’inerzia del titolare debba essere tale da ingenerare nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito per facta concludentia. Difatti, la persistente sussistenza, sino al febbraio 2021, di un pignoramento immobiliare che limitava la legittimazione ad agire della proprietaria certamente non era sufficiente ad ipotizzare, secondo il principio del legittimo affidamento, una remissione del debito per i canoni scaduti.

Ad ogni modo, tale principio non sarebbe condivisibile in quanto si tradurrebbe in una incondizionata apertura all’operatività, nell’ordinamento italiano, di un istituto ad esso sconosciuto, consistente nella Verwirkung del diritto tedesco, quale consumazione del diritto collegato all’inattività (Rechtsverschweigung) del titolare, di cui il codice civile tedesco tradizionalmente fa applicazione[5].

Sebbene anche nell’ordinamento italiano vi siano degli esempi simili, per esempio nel diritto del lavoro, relativamente al ritardo del datore nel contestare la giusta causa di licenziamento o quello del prestatore di lavoro nella prosecuzione del rapporto, tale principio non può avere ingresso nel nostro ordinamento, per il quale il solo ritardo nellesercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare del diritto stesso e per quanto tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di uninequivoca rinuncia tacita[6].

Invero, la volontà tacita di rinunziare ad un diritto si può desumere soltanto da un comportamento concludente del titolare tale da far ritenere unicamente la sua volontà di non avvalersi del diritto stesso, laddove la mera inerzia o il ritardo nell’esercizio del diritto non costituiscono elementi sufficienti, di per sé, a dedurne la volontà di rinuncia, potendo essere frutto di ignoranza, di temporaneo impedimento o di altra causa, e spiegano rilevanza soltanto ai fini della prescrizione estintiva.

Anche in questo caso la Corte di cassazione rigettava il motivo di ricorso anche perché, con riferimento al principio di buona fede richiamato dal ricorrente, la stessa riteneva come il semplice ritardo di una parte nell’esercizio di un diritto può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo esso ad alcun interesse del suo titolare, correlato ai limiti e alle finalità del contratto, si traduca in un danno per la controparte.

Pertanto, la Suprema Corte riteneva come l’inerzia di Beta non avesse effettivamente posto in essere né una violazione del dovere di buona fede né una rinuncia implicita a soddisfare il proprio credito nei confronti di Tizio.

Il quarto motivo verteva, infine, sulla violazione o falsa applicazione dell’art 1241 c.c., poiché, secondo il ricorrente, la sentenza d’appello avrebbe errato nel non ammettere la compensazione per la mancanza dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del controcredito, in quanto le parti si erano accordate perché il conduttore adempisse mediante datio in solutum, attraverso la fornitura dei materiali, sicché veniva in considerazione un’ipotesi di compensazione impropria, in cui le contrapposte ragioni di credito e debito scaturivano dal medesimo rapporto.

Tuttavia, i giudici del gravame avevano accertato che in realtà le sole consegne di materiale effettivamente documentate erano menzionate in 7 fatture e già imputate ai canoni maturati nel periodo di locazione antecedente a quello per cui era causa. Le consegne nel periodo successivo erano semplicemente inserite in un brogliaccio che altro non era che una serie di informali appunti, mentre la fattura emessa successivamente alla lite non aveva alcun valore probatorio, anche perché non accompagnata da alcun riferimento ad ordini o a documentazione fiscale o di trasporto, senza contare che era stata immediatamente contestata dalla controparte.

Oltretutto, la Cassazione concludeva sottolineando che l’accertamento delle circostanze di fatto rilevanti ai fini della decisione e la valutazione delle risultanze istruttorie funzionali a tale accertamento sono attività riservate al giudice del merito, cui compete non solo la valutazione delle prove ma anche la scelta, insindacabile in sede di legittimità, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi.

Alla luce di quanto sopra esposto, la Suprema Corte rigettava il ricorso di Tizio.

[1] Cass. civ., Sent. n. 7693/2006.

[2] Cass. civ., Sent. n. 10252/2002.

[3] Cass. civ., Sent. n. 8146/1997.

[4] Cass. civ., Sent. n. 16743/ 2021.

[5] La teoria della Verwinkung è definita dalla Corte di Cassazione, Sent. n. 5240/2004, come “il principio, basato appunto sulla buona fede, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il mancato esercizio del diritto, protrattosi per un conveniente lasso di tempo, imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella controparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, porta a far considerare che un successivo atto di esercizio del diritto in questione rappresenti un caso di abuso del diritto, nella forma del ritardo sleale nellesercizio del diritto, con conseguente rifiuto della tutela, per il principio della buona fede nellesecuzione del contratto”.

[6] Cass. civ., Ord. n. 1888/2020 e Cass. civ., Sent. n. 23382/2013

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