2 Luglio 2024

Destinazione di locale ad alloggio del portiere, legittima la costituzione di servitù atipica

di Saverio Luppino, Avvocato Scarica in PDF

Corte di Cassazione sez. II^, Ordinanza del 10.06.2024 n. 16083, Presidente Dott. M. Mocci, Estensore Dott.ssa L. Cavallino

Massima: “Sia nei periodi nei quali il Condominio eventualmente deliberi di non avvalersi del servizio di portierato, sia nel caso in cui il Condominio deliberi la cessazione definitiva di quel servizio, sono i proprietari che possono utilizzare l’immobile. La situazione che ne deriva non è differente dalla servitù di parcheggio, riconosciuta a condizione che la facoltà che ne deriva risulti attribuita a diretto vantaggio del fondo dominante, per la sua migliore utilizzazione, quale utilitas di carattere reale”.

CASO

Tizio e Caia, acquistavano da Alfa s.a.s., con atto a ministero del Notaio Plinio del 13 dicembre 2017, un alloggio al pian terreno (catasto di Sauze d’Oulx), del Condominio Beta sito in Sauze d’Oulx.

Detto immobile veniva concesso in uso perpetuo, da parte della originaria proprietaria e costruttrice, a favore del Condominio, perché fosse adibito ad alloggio per il portiere onde “assicurarsi in contropartita eventuali servizi indispensabili, servizi che in ogni caso saranno retribuiti a parte”, invero conservando la proprietà dello stesso ed escludendolo dal novero dei beni comuni ai sensi dell’art. 1117 c.c., in ossequio a quanto previsto dall’art. 20 del regolamento condominiale.

Orbene, gli acquirenti adivano in primo grado il Tribunale di Torino, onde far dichiarare l’inopponibilità nei loro confronti del diritto di uso dell’alloggio e che il medesimo Condominio venisse condannato alla restituzione e al pagamento di indennità per l’illegittima occupazione.

Si costituiva in giudizio l’ente di gestione convenuto, contestando per intero la domanda attorea eccependo che il vincolo sull’alloggio fosse di natura reale-pertinenziale.

Il Tribunale con sentenza n. 3753 del 2020 rigettava le domande attoree in quanto infondate, condannando gli stessi alla refusione delle spese di lite.

Avverso detta sentenza, gli attori in primo grado interponevano appello innanzi la Corte d’Appello di Torino.

Con sentenza n. 207 depositata il 27 febbraio 2023, la Corte distrettuale rigettava il gravame confermando la decisione del giudice delle prime cure.

In particolare, il giudice del gravame rilevava che il suindicato art. 20 del regolamento condominiale, avente natura contrattuale ed opponibile ai singoli condomini presenti e futuri in forza della trascrizione ai sensi dell’art. 2643 c.c., prevedesse che i vani di portineria restassero di proprietà della società costruttrice e concessi in uso perpetuo al Condominio così da assicurarsi in “contropartita eventuali servizi indispensabili alla società Gamma, servizi che in ogni caso saranno retribuiti a parte”.

I servizi richiamati dalla norma costituivano non già la causa della concessione del diritto di uso perpetuo, bensì i motivi della stessa. L’unità oggetto di lite, infatti, aveva continuato ad essere destinata a portineria dal 1964, ancorchè il diritto di proprietà fosse stato oggetto di cessione insieme alle quote dei singoli immobili.

Gli stessi attori – appellanti, avevano acquistato una quota parte dell’immobile, ai quali successivamente erano state cedute “tutte le quote di spettanza” da parte della società Alfa s.a.s., la quale indicava specificamente la destinazione dello stesso a portineria.

Ad avviso del giudice delle seconde cure infatti “intenzione dell’originaria proprietaria era quella di concessione di uso perpetuo, da intendersi come vincolo suscettibile di trasmissione, di natura reale e da qualificare come servitù atipica, in favore di tutti gli immobili costituenti il condominio”.

Soccombenti anche in secondo grado Tizio e Caia proponevano ricorso per Cassazione sulla base di due motivi.

Resisteva con controricorso il Condominio Alfa.

Il consigliere delegato ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. depositava proposta di definizione anticipata nel senso dell’inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso. Il difensore dei ricorrenti munito di nuova procura speciale ha chiesto di procedersi al giudizio.

Il ricorso veniva avviato alla trattazione camerale ex art. 380 bis.1, c.p.c..

I ricorrenti depositavano memoria illustrativa.

SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 16083 del 10 giugno 2024, integralmente rigettato il ricorso condannava i ricorrenti alla rifusione a favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 4.500,00 per compensi, oltre il 15% dei compensi a titolo di rimborso forfettario delle spese, iva e c.p.a. ex lege.

Condannava, altresì, i ricorrenti ex art. 96, co. 3 e 4, c.p.c., al pagamento di € 4.500,00 a favore del controricorrente e di € 3.000,00 a favore della cassa delle ammende.

Dichiarando che sussistono ex art. 13 co. 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 i presupposti processuali per il versamento da part dei ricorrenti di ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del co.1­-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

QUESTIONI

Con il primo motivo i ricorrenti denunciavano la violazione e falsa applicazione degli artt. 979 c.c. e 1026 c.c., nonché dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., argomentando che il provvedimento impugnato, considerando che l’art. 20 del regolamento condominiale riconoscesse a favore del Condominio un diritto di uso perpetuo – quale vincolo soggetto a trasmissione erga omnes di natura reale – avrebbe dovuto rilevare che il diritto reale costituito a favore della persona giuridica non avrebbe potuto superare il trentennio cosi come previsto ai sensi dell’art. 1026 e 979 c.c..

Il diritto di uso perpetuo così riconosciuto a favore del Condominio, avrebbe comportato a sfavore dei ricorrenti il conferimento di un diritto di proprietà “vuoto” e depurato dalle ampie facoltà riconosciute ex lege in capo ai singoli proprietari.

Al contrario, detto diritto reale sarebbe stato sottoposto alla condizione risolutiva subordinata alla preferenza del Condominio nell’assegnare i servizi alla società costruttrice, con la conseguenza che avendo questa alienato il vano della portineria a persone fisiche, sarebbe venuto meno non solo il diritto reale del Condominio stesso ma anche il diritto di preferenza nell’affidamento dei servizi, così potendo i proprietari rientrare nel possesso dell’immobile.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciavano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1117, co. 1, n. 2, c.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c..

Sul punto i ricorrenti censuravano la decisione della Corte distrettuale nella parte in cui la stessa riteneva la fattispecie annoverabile nella materia delle servitù atipiche in forza di una non corretta interpretazione della giurisprudenza del Supremo Collegio.

Invero, avrebbe dovuto ritenere che il negozio concluso tra le parti avesse come giustificazione causale lo scambio tra il diritto reale di uso dell’unità per cui è lite ed il diritto di preferenza nell’affidamento degli appalti, con la conseguenza che al mancare del “secondo termine”, il bene doveva essere restituito ai legittimi proprietari.

La Corte di Cassazione esaminava congiuntamente i motivi di doglianza, presentando tra di loro ragioni di connessione, e ritenendoli, pertanto, infondati.

In primo luogo, la Corte di legittimità riteneva prive di pregio le censure dei ricorrenti in ordine alla pretesa erronea interpretazione dell’art. 20 del regolamento condominiale.

Secondo la Corte di Cassazione, il provvedimento del giudice delle seconde cure interpretava la disposizione in esame “escludendo il carattere di sinallagmaticità tra la destinazione del locale a portierato e l’assegnazione di servizi alla società proprietaria del locale e ritenendo che la clausola avesse costituito una servitù di natura atipica”.

Le questioni interpretative relative al regolamento di un contratto concluso tra le parti rappresentano una indagine fattuale di competenza del giudicante del merito.

Per tale ragione i ricorrenti avrebbero dovuto rilevare l’inosservanza dei parametri legali di interpretazione del negozio ai sensi degli artt. 1362 e ss. c.c., avendo inoltre l’onere di puntualizzare “in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si fosse discostato dai canoni legali assunti come violati, o se lo stesso li avesse applicati sulla base di considerazioni illogiche o insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata[1]

Deve considerarsi infondata per tali ragioni la richiesta, avanzata dai ricorrenti nella memoria al fine di ottenere la cassazione del provvedimento impugnato onde “interpretare il contratto intercorso tra le parti in modo conforme al principio di diritto già formulato con la citata sentenza Cass. n. 193 del 2020“.

In quella sede, il Supremo Collegio disponeva il seguente principio “in tema di condominio il diritto reale d’uso istituito in favore di una persona giuridica, a mente degli artt. 1026 e 979 c.c., non può superare il trentennio. Né può ipotizzarsi la costituzione di un uso reale atipico, esclusivo e perpetuo, che priverebbe del tutto di utilità la proprietà e darebbe vita a un diritto reale incompatibile con l’ordinamento”.

Orbene per costante orientamento giurisprudenziale, infatti, ove i ricorrenti avessero voluto ottenere l’applicazione del principio appena richiamato, avrebbero dovuto elaborare le censure evidenziando che l’esegesi del negozio così come elaborata dal giudice delle prime cure fosse stata realizzata in evidente contrasto con le regole di interpretazione contrattuale, provando al contempo che la clausola contrattuale oggetto del contendere presentasse un contenuto tale da permettere l’applicazione del principio invocato dagli stessi.

In secondo luogo, la Corte di legittimità ha parimenti ritenuto infondate le argomentazioni di parte ricorrente, laddove tese a sostenere che il regolamento condominiale elaborato dalla originaria proprietaria, e comunque accolto dall’intera compagine condominiale, non fosse idoneo a costituire una servitù atipica “quale diritto reale avente a oggetto la destinazione di locale ad alloggio del portiere, con previsione poi riprodotta anche nell’atto di acquisto di quell’unità immobiliare da parte dei ricorrenti.

In ordine alla possibilità di qualificare la destinazione di unità immobiliare ad alloggio del portiere nello schema delle servitù, è ormai costante l’orientamento di legittimità che ammette detta circostanza.

Sul punto, la Corte si è pronunciata nei seguenti termini: “il negozio con cui, successivamente alla costituzione del condominio, si imprime ad un immobile, “ab origine” di proprietà di uno dei condomini, il vincolo di destinazione in perpetuo ad alloggio del portiere, non è sussumibile nella categoria delle obbligazioni “propter rem”, difettando il requisito della tipicità, giacché non esiste una disposizione di legge che contempli l’obbligazione reale tipica di concedere in uso perpetuo un bene immobile[2].

In altre parole, mancando del carattere della tipicità, e potendo al contrario assumere carattere di realità, lo stesso vincolo può essere ricondotto nell’ambito delle servitù poiché volto a comprimere in maniera duratura le facoltà generalmente derivanti dal diritto di proprietà onde garantire specifici vantaggi e utilità alle restanti unità immobiliari nonchè alle parti comuni.

Ne deriva di conseguenza che il richiamato principio – in ordine alla durata non superiore al trentennio – sancito dalla sentenza n. 193 del 2020, non troverebbe applicazione nel caso per cui è lite, in quanto riferibile ai diritti reali di usufrutto e di uso e non applicabile in via analogica in materia di servitù.

Pertanto deve escludersi che il vincolo per cui è lite, sussunto all’interno della fattispecie delle servitù comporti uno “svuotamento” contenutistico del diritto di proprietà: in primo luogo in quanto da esso deriva la possibilità di beneficiare dei servizi a quest’ultimo connessi anche da parte dell’immobile di proprietà esclusiva degli obbligati ed in secondo luogo in quanto detta destinazione non elimina ogni utilitas collegata al godimento dell’immobile[3].

Ad avviso della Corte “ciò in quanto, sia nei periodi nei quali il Condominio eventualmente deliberi di non avvalersi del servizio di portierato, sia nel caso in cui il Condominio deliberi la cessazione definitiva di quel servizio, sono i proprietari che possono utilizzare l’immobile. La situazione che ne deriva non è dissimile a quella della servitù di parcheggio, riconosciuta a condizione che la facoltà che ne deriva risulti attribuita a diretto vantaggio del fondo dominante, per la sua migliore utilizzazione, quale utilitas di carattere reale”. (cfr. da ultimo Cass. Sez. U 13-2-2024 n. 3925 Rv. 670197-01).

[1] Ex multis Cass. Civ. n. 9461/21.

[2] Cass. Civ. n. 26987/18, confermata anche da Cass. Civ. 30302/22.

[3] Cass. Civ. 26987/22

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