25 Giugno 2024

Violazione dell’obbligo di rendiconto e esclusione del socio amministratore dalla società semplice

di Virginie Lopes, Avvocato Scarica in PDF

Cassazione civile, Sez. I, Ordinanza, 10 giugno 2024, n. 16043

Parole chiave: Società – Società semplice – Amministratori e consiglio di amministrazione – Obbligo di rendiconto

Massima: “Nella società semplice, la legge riconosce a tutti i soci il diritto di amministrare e, nel caso in cui alcuni si astengano dall’amministrare affidando la gestione agli altri, essi mantengono comunque il diritto di ricevere tutte le informazioni inerenti allo svolgimento degli affari sociali. Pertanto, la violazione dell’obbligo di rendiconto può costituire una grave inadempienza delle obbligazioni derivanti dal contratto sociale che incide sull’affectio societatis e legittima l’esclusione del socio-amministratore.

Disposizioni applicate: art. 2261 c.c.; art. 2286 c.c.; art. 2287 c.c.

Nel caso di specie, essendo stato escluso il socio-amministratore di una società semplice dalla compagine sociale di una società semplice ai sensi degli artt. 2286 e 2287 c.c., il medesimo aveva adito il Tribunale di prime cure onde fare dichiarare invalida la delibera assembleare mediante la quale la sua esclusione era avvenuta e ottenere il risarcimento del conseguente lamentato danno.

Sia il Tribunale di prime cure, sia poi la Corte d’Appello territorialmente competente avevano dichiarato invalida la suddetta delibera assembleare (respingendo tuttavia la domanda di condanna generica al risarcimento del danno) e pertanto la società semplice e gli altri soci hanno pertanto proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di Cassazione.

In particolare, la Corte territoriale ha considerato che la delibera assembleare ha contestato al socio-amministratore la responsabilità delle perdite che la società aveva accumulato negli esercizi in cui ricopriva l’incarico di amministratore, imputandogli lo stato attuale di incertezza esclusivamente imputabile alle omissioni del socio-amministratore.

La Corte d’Appello aveva poi riconosciuto che le contestazioni inizialmente generiche mosse nei confronti del socio-amministratore erano state corroborate, nel corso del giudizio di primo grado, dalla specificazione delle circostanze inerenti alla contestazione della violazione dell’obbligo di rendiconto, in particolare con riguardo alla presenza di perdite e di ammanchi di cassa, che avrebbero impedito agli altri soci di essere informati della situazione debitoria e di adottare i necessari correttivi, interrompendo se necessario l’attività e liquidando la società, ciò che li avrebbe invece esposti al rischio di azioni dei terzi creditori.

Tuttavia, pur riconoscendo l’omessa rendicontazione da parte del socio amministratore, la Corte d’Appello ha ritenuto che la dedotta violazione dell’obbligo di rendiconto non costituiva, nella fattispecie in esame, un grave inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto sociale e non legittimava quindi l’esclusione come socio.

Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione la società stessa e gli altri soci della medesima.

La Suprema Corte ha sottolineato che la sentenza impugnata non fosse conforme alla giurisprudenza consolidata di cassazione (Sez. 1, Sentenza n. 4404 del 02/07/1988; Sez. 1, Sentenza n. 2736 del 9/3/1995; più di recente, Sez. 1, Ordinanza n. 26059 del 05/09/2022), secondo la quale nelle società di persona e ancora di più nella società semplice, il cumulo delle qualifiche di socio e di amministratore non impedisce che le irregolarità o illiceità commesse dal solo amministratore determinino non solo la relativa revoca dalla carica, ma anche l’esclusione del socio per violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela della finalità e degli interessi della società.

Infatti, la Corte di Cassazione ha sottolineato che nelle società di persona non opera la struttura organicistica come nelle società di capitali, in cui la società agisce per mezzo dei propri organi, distinti dai soci, che hanno compiti e responsabilità diversificati.

La Corte di Cassazione ha infatti rilevato che uno dei caratteri distintivi dei due tipi societari risiedesse proprio nel fatto che, nelle società di persone, la proprietà, la gestione e il controllo sono indistintamente affidati a tutti i soci, mentre nelle società di capitali le tre funzioni sono, o possono essere, a seconda del tipo sociale, distinte tra loro.

Ne consegue che, mentre nelle società di capitali la violazione dei doveri da parte dei diversi organi è affidata a ipotesi diverse e giuridicamente distinte tra loro, nelle società di persone[1] la violazione dei doveri del socio può essere dedotta da comportamenti che minino l’affectio societatis sia in relazione ad atti di disposizione uti socius, sia con riferimento ad atti posti in essere nell’esercizio di funzioni gestorie o di controllo, parimenti rinvenibili in automatico nel patrimonio giuridico di tutti i soci.

Questo succede a maggior ragione nella società semplice, in cui la legge riconosce a tutti i soci il diritto di amministrare, distinguendosi solo le modalità (disgiuntiva o, congiuntiva) con cui tale attività può essere realizzata.

La Corte ha poi rammentato come fosse consentito dall’art. 2261 c.c. che alcuni soci, pur avendone diritto, si astengano dall’amministrare, affidando la gestione agli altri, come era successo nel caso di specie, giacché il socio-amministratore aveva amministrato la società per dieci anni, ma pur sempre continuando ad avere il diritto di ricevere da chi amministra tutte le informazioni inerenti allo svolgimento degli affari sociali, ivi compreso, ove tale esclusiva gestione duri più di un anno, il rendiconto analitico della gestione.

Proprio su questo punto, la Corte di Cassazione ha rinvenuto l’evidente erroneità della sentenza impugnata, accogliendo il ricorso e cassando la sentenza della Corte d’Appello.

[1] Ad esclusione della SAS in ragione della caratteristica tipica dell’esistenza di due categorie distinte di soci

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