4 Giugno 2024

Il Presidente o il Consigliere che abbia formulato proposta di definizione accelerata può far parte del Collegio che definisce il giudizio

di Franco Stefanelli, Avvocato Scarica in PDF

Cass., Sez. Un., Sent., ud. 27 febbraio 2024, 10 aprile 2024, n. 9611, Pres. D’Ascola – Est. Scarpa.

[1] Procedimento ex art. 380-bis cod. proc. ivc .per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati – Consigliere delegato alla formulazione della proposta di definizione – Composizione del Collegio giudicante come relatore – Incompatibilità – Esclusione. (cod. proc. civ., artt. 51, 52 e 380-bis)

Nel procedimento ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., come disciplinato dal d.lgs. n. 149/2022, il Presidente della sezione o il consigliere delegato, che abbia formulato la proposta di definizione accelerata, può far parte, ed eventualmente essere nominato relatore, del collegio che definisce il giudizio ai sensi dell’art. 380-bis.1, non versando in situazione di incompatibilità agli effetti degli artt. 51, comma 1, n. 4, e 52 cod. proc. civ., atteso che tale proposta non rivela una funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente si configura quale fase distinta, che si sussegue nel medesimo giudizio di cassazione con carattere di autonomia e con contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta stessa.

CASO

La decisione trae origine da un ricorso avverso una sentenza della Corte d’appello di Ancona del 2022, in materia di accertamento (positivo e negativo) e costituzione di servitù di passaggio, articolato in quattro motivi, che la parte controricorrente richiese di rigettare.

Il Consigliere delegato, rilevava che i quattro motivi del ricorso “si risolvono in doglianze di merito relative all’accertamento del fatto e alla valutazione delle prove acquisite agli atti del giudizio di merito (in particolare, sotto i profili della individuazione del fondo dominante e della valutazione dei presupposti per la costituzione della servitù di passaggio per destinazione del padre di famiglia)” e perciò ravvisava la inammissibilità e/o manifesta infondatezza del ricorso stesso, proponendo la definizione del giudizio a norma dell’art. 380-bis cod. proc. civ., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 149/2022.

I ricorrenti chiedevano la decisione del ricorso con istanza depositata il 20 aprile 2023.

La trattazione del ricorso era in camera di consiglio, a norma degli artt. 375 comma 2, 4-ter e 380-bis.1 cod. proc. civ., per l’adunanza del 28 settembre 2023, nominandosi relatore lo stesso Consigliere estensore della proposta di definizione mediante procedimento per la decisione accelerata.

In data 13 settembre 2023, era formulata dai ricorrenti istanza di rimessione alle Sezioni Unite, sollevandosi la questione della legittimità della composizione del Collegio giudicante, perché di esso faceva parte il Consigliere estensore della proposta di decisione accelerata del ricorso, il quale, ad avviso dei ricorrenti, sarebbe stato in una situazione di incompatibilità, in ragione del principio di imparzialità del giudice.

Con decreto del 19 settembre 2023, la Prima Presidente, ai sensi degli artt. 374, comma 2, e 376 cod. proc. civ., disponeva che sul ricorso la Corte si pronunciasse a sezioni unite, presentando una questione di massima di particolare importanza: se, nel procedimento ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., il Consigliere che abbia redatto la proposta di decisione accelerata opposta possa entrare a comporre, con la veste di relatore, il Collegio giudicante. La questione investe il procedimento di cui all’art. 380-bis cod. proc. civ., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 149/2022, che costituisce una novità assoluta nel giudizio di cassazione. Il decreto della Prima Presidente evidenziava che il “filtro ex art. 380 – bis cod. proc. civ. assume una rilevanza centrale nel disegno del legislatore delegato e nella organizzazione della Corte di cassazione, essendo connotato da una potenziale definitorietà che si realizza in dipendenza del comportamento della parte interessata, con finalità deflattive del contenzioso”. La questione è inoltre complessa, essendo in gioco “il principio di imparzialità del giudice e il confronto con la giurisprudenza costituzionale. Il decreto di rimessione alle Sezioni Unite segnalava altresì il contrasto di interpretazioni dottrinali sul punto, alcune che escludono ogni profilo di incompatibilità della partecipazione del consigliere proponente alla decisione collegiale, altre che dubitano della parzialità dello stesso estensore della proposta, in quanto “influenzato dal suo anteriore pre-giudizio sulla medesima res iudicanda”.

Il Pubblico Ministero depositava memoria, chiedendo di dichiarare insussistente l’incompatibilità del redattore della “proposta di definizione” a partecipare al collegio nel procedimento di cui al novellato art. 380-bis cod. proc. civ., con ritrasmissione del ricorso alla Seconda sezione civile per la relativa decisione. Anche le parti depositavano memorie.

SOLUZIONE

[1] 1. La questione rimessa alla decisione delle Sezioni Unite concerne la formulazione dell’art. 380-bis cod. proc. civ. introdotta dal d.lgs. n. 149/2022.

La Corte rileva che il d.lgs. n. 149/2022 ha dato attuazione alla legge-delega n. 206/2021, la quale, nell’indicare i principi e criteri direttivi da rispettare nelle modifiche da apportare al codice di procedura civile in materia di giudizio di cassazione, richiedeva (oltre che, tra l’altro: l’unificazione dei riti camerali disciplinati dall’art. 380-bis e dall’art. 380-bis.1; la soppressione della sezione prevista dall’art. 376 e lo spostamento della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici; la soppressione del procedimento disciplinato dall’art. 380-bis), alla lettera e), di “introdurre un procedimento accelerato, rispetto all’ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, prevedendo: 1) che il giudice della Corte formuli una proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni dell’inammissibilità, dell’improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata; 2) che la proposta sia comunicata agli avvocati delle parti; 3) che, se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni dalla comunicazione, il ricorso si intenda rinunciato e il giudice pronunci decreto di estinzione, liquidando le spese, con esonero della parte soccombente che non presenta la richiesta di cui al presente numero dal pagamento di quanto previsto dall’articolo 13, comma 1 – quater, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”.

La Relazione illustrativa al d.lgs. n. 149/2022 chiariva che il procedimento ex art. 380-bis cod. proc. civ., volto alla definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili e manifestamente infondati, era destinato a svolgere la funzione di filtro dapprima assegnata alla apposita sezione di cui all’art. 376 comma 1 cod. proc. civ., e così “sviluppa[va] e completa[va] il disegno prefigurato dalla legge delega, tenendo presenti gli obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione avuti di mira dal legislatore delegante”. La Relazione aggiungeva che la proposta di inammissibilità, di improcedibilità o di manifesta infondatezza formulata dal presidente della sezione o dal consigliere delegato prefigurava “un esito negativo per il ricorso, con un’uscita anticipata dalla Corte”; mentre l’espresso richiamo all’applicabilità delle disposizioni di cui all’articolo 96 commi 3 e 4 cod. proc. civ., nel caso di decisione conforme alla proposta di definizione, discenderebbe dalla “realistica presa d’atto del fatto che la giurisdizione è una risorsa limitata”.

Nelle prime interpretazioni del novellato art. 380-bis cod. proc. civ. – prosegue la Corte in un ampio excursus della genesi dell’istituto – la Cassazione già si era soffermata sui presupposti di applicabilità dell’art. 96 commi 3 e 4 cod. proc. civ., allorché, appunto, il giudizio, all’esito dell’istanza di decisione, fosse definito in conformità alla proposta di decisione accelerata (Cass. Sez. Unite, ordinanze n. 36069, n. 27195, n. 28540 e n. 27433 del 2023). In queste pronunce, il nuovo art. 380-bis era stato qualificato in termini di strumento di agevolazione della definizione delle pendenze in sede di legittimità, anche tramite l’individuazione di strumenti dissuasivi di condotte rivelatesi ex post prive di giustificazione, e quindi idonee a concretare, secondo una valutazione legale tipica compiuta dal legislatore, un’ipotesi di abuso del diritto di difesa, giacché non attenersi alla “delibazione” (altrimenti definita “valutazione”) del presidente o del consigliere delegato, che trovi poi conferma nella decisione finale, lasciava presumere una responsabilità aggravata. Si era comunque raccomandata un’interpretazione della norma che non conducesse ad un indifferenziato automatismo sanzionatorio, dovendo l’applicazione dell’art. 96 commi 3 e 4 cod. proc. civ. rimanere pur sempre affidata alla analisi delle caratteristiche del caso di specie.

Continuano poi le Sezioni Unite con un riepilogo dell’elaborazione della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte costituzionale sul principio di imparzialità / terzietà della giurisdizione e sulla incompatibilità del giudice, che subisca la “forza della prevenzione” per aver già conosciuto della causa, a partecipare ulteriormente al giudizio, avendo particolare riguardo al processo civile.

La Corte EDU, nell’interpretare l’art. 6 par. 1 della Convenzione, a proposito del diritto “a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge”, spiega che

  • l’imparzialità del giudice significa assenza di pregiudizio (Corte EDU, 9 gennaio 2018, Nicholas c. Cipro);
  • l’imparzialità va verificata sia in base ad un criterio soggettivo, attinente ad un determinato giudice con riguardo ad una causa particolare, sia in base ad un criterio oggettivo, che riguarda soprattutto le garanzie offerte dalla composizione del tribunale (Corte EDU 25 settembre 2018, Denisov c. Ucraina);
  • le procedure nazionali in materia di astensione dei giudici, oltre a garantire l’imparzialità della giurisdizione eliminando ogni ragionevole dubbio, devono anche eliminare ogni apparenza di parzialità (Corte EDU, 15 luglio 2005, Meznaric c. Croazia; Corte EDU, 15 ottobre 2009, Micallef c. Malta; Corte EDU, 19 ottobre 2021, Miroslava Todorova c. Bulgaria);
  • il difetto di imparzialità dell’organo giurisdizionale, oltre cha da situazioni di natura personale, può discendere da situazioni di natura funzionale, quali quelle correlate allo svolgimento di diverse funzioni (ad esempio, consultive e giurisdizionali) nella medesima causa da parte dello stesso soggetto (Corte EDU, 6 maggio 2003, Kleyn e altri c. Paese Bassi);
  • per stabilire se la partecipazione del medesimo giudice a diverse fasi di una causa civile sia conforme al requisito di imparzialità di cui all’art. 6 par. 1 CEDU, occorre procedere ad una valutazione caso per caso (Corte EDU, 20 ottobre 2020, Pasquini c. San Marino; Corte EDU, 1° dicembre 2020, Guòmundur Andri Àstraòsson c. Islanda);
  • il fatto che un giudice abbia già adottato una decisione nella fase preprocessuale o che abbia una conoscenza particolareggiata della causa non comporta alcun pregiudizio sulla sua imparzialità al momento della pronuncia finale, purché questa sia svolta al momento della sentenza che chiude il giudizio sulla base delle difese svolte dalle parti e non sia vincolata dalle questioni definite nella fase pregressa (Corte EDU 6 giugno 2000, Morel c. Francia; Corte EDU, 24 luglio 2012, Toziczka c. Polonia);
  • il difetto di imparzialità oggettiva in relazione ad un componente del collegio che abbia prima della decisione assunto una particolare posizione nel processo non mina ex se la imparzialità del collegio, dovendosi tener conto altresì del numero dei giudici che partecipano alla sentenza e del ruolo rivestito nell’organo collegiale (Corte EDU, 4 marzo 2014, Fazli Aslaner c. Turchia; Corte EDU, 31 agosto 2021, Karrar c. Belgio).

A sua volta, la Consulta afferma che:

  • il”principio di imparzialità / terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo (sentenza n. 387 del 1999) ed è compreso nel giusto processo, giacché connota nell’essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice, e condiziona l’effettività del diritto di azione e di difesa in giudizio (sentenza n. 7 del 2022);
  • la disciplina sull’incompatibilità del giudice determinata da atti compiuti nel procedimento trova la sua ratio proprio nella salvaguardia dei valori della terzietà e imparzialità del giudice, mirando a escludere che questi possa pronunciarsi condizionato dalla forza della prevenzione, cioè dalla tendenza a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito ed a confermare una decisione o a mantenere un atteggiamento già assunto, derivante da valutazioni che sia stato precedentemente chiamato a svolgere in ordine alla medesima res iudicanda (ex multis, sentenze n. 172 del 2023, n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022, n. 66 del 2019, n. 183 del 2013; n. 387 del 1999);
  • l’imparzialità del giudice richiede, invero, che le funzioni del giudicare siano assegnate a un soggetto terzo, scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto e anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia su cui pronunciarsi (sentenza n. 155 del 1996);
  • per potersi ritenere sussistente l’incompatibilità endoprocessuale del giudice, devono, quindi, concorrere le seguenti condizioni: a) che le preesistenti valutazioni cadano sulla medesima res iudicanda; b) che il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione (e non abbia avuto semplice conoscenza) di atti anteriormente compiuti, strumentale all’assunzione di una decisione; c) che quest’ultima abbia natura non formale, ma di contenuto, ovvero comporti valutazioni sul merito; d) che la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento.

La necessità che la valutazione pregiudicante si collochi in una distinta fase del procedimento si spiega con la contemporanea esigenza che, all’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva – resti, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere. In queste ipotesi, il provvedimento non costituisce anticipazione di un giudizio che deve essere instaurato, ma, al contrario, si inserisce nel giudizio del quale il giudice è già correttamente investito (sentenze n. 172 e n. 91 del 2023; n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022).

Quanto, in particolare, al processo civile, pur considerate le differenze col sistema delle incompatibilità proprie del processo penale (sentenza n. 78/2015; ordinanza n. 497/2002), le implicazioni poste dall’art. 111, secondo comma, Cost. portano ad interpretare l’art. 51 comma 1 n. 4 cod. proc. civ., il quale contempla l’obbligo di astensione per il giudice che “ha conosciuto” della causa “come magistrato in altro grado del processo” (cui corrisponde il diritto di ricusazione delle parti: art. 52 cod. proc. civ.), nel senso che la nozione di altro grado sia riferibile non soltanto alla relazione di competenza funzionale fra i diversi uffici giudiziari sottordinati e sovraordinati previsti dall’ordinamento giudiziario, ma anche alla progressione fra le distinte fasi che si susseguono nel medesimo giudizio civile con carattere di autonomia e con contenuti e finalità impugnatorie, nella specie ove si tratti di dover rendere una “pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario” e sia “circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi” dal giudice del primo segmento procedimentale (sentenze n. 45 del 2023, n. 78 del 2015, n. 460 del 2005, n. 387 del 1999). Esempio di procedimento di natura lato sensu impugnatoria, da attrarre nella cornice delle garanzie costituzionali in tema di terzietà – imparzialità del giudice, è quello che dia vita ad una revisio prioris instantiae, la quale può tramutarsi in meccanismo di reiterazione provvedimentale e sprigionare la forza della prevenzione in termini contrari a tali garanzie (sentenza n. 45 del 2023).

Viceversa, neppure sussiste l’esigenza di ordine costituzionale dell’astensione, rispetto alla pronuncia della sentenza, del giudice che abbia emesso una ordinanza con effetto anticipatorio della decisione definitiva nell’ambito di un meccanismo potenzialmente idoneo a concludere il grado del processo, stabilito a fini essenzialmente deflattivi del contenzioso, ritenuti conseguibili grazie alla eventuale rinuncia delle parti ad una successiva pronuncia di tale sentenza; ferme le garanzie difensive, la continuità del medesimo giudice nel condurre il processo fino alla decisione conclusiva salvaguarda nel contempo l’esigenza di un pieno rendimento dell’attività giurisdizionale, secondo il principio di concentrazione degli atti e di economia endoprocessuale (ordinanze n. 168 e n. 533 del 2000).

L’interpretazione conforme a Costituzione dell’art. 51 comma 1 n. 4 cod. proc. civ., dunque, comporta: che si debba riconoscere connotata di “intrinseca natura impugnatoria” la fase che si svolge davanti al medesimo ufficio giudiziario e sottoponga a revisio un provvedimento avente “una funzione decisoria idonea di per sé a realizzare un assetto dei rapporti tra le parti, non meramente incidentale o strumentale e provvisorio ovvero interinale (fino alla decisione del merito), ma anzi suscettibile – in caso di mancata opposizione – di assumere valore di pronuncia definitiva, con effetti di giudicato tra le parti”; e che, inoltre, il provvedimento preveniente sia volto ad esprimere una “valutazione delle condizioni” che ne legittimano l’adozione non divergente, quanto a parametri di giudizio, “da quella che deve compiere il giudice dell’eventuale opposizione, se non per il carattere del contraddittorio e della cognizione sommaria” (sentenze n. 45 del 2023, n. 460 del 2005, n. 387 del 1999).

La Corte di cassazione a Sezioni Unite, poi, prosegue ricordando che in dottrina non si è mancato di appuntare criticamente le interpretazioni raggiunte dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimità sul terreno delle incompatibilità del giudice nel processo civile, lamentando la lettura riduttiva prescelta al riguardo dalla riformulazione dell’art. 111 Cost. operata nel 1999. In sostanza, l’attuazione del principio di terzietà ed imparzialità del giudice civile, pure dopo la costituzionalizzazione del giusto processo, sarebbe stata lasciata al funzionamento dei meccanismi di astensione e ricusazione stabiliti dagli articoli 51 e 52 del codice di procedura. Sono stati, piuttosto, riconosciuti i meriti del legislatore, per avere di recente proceduto ad una frequente tipizzazione di ipotesi di incompatibilità rispetto alla trattazione dei giudizi di opposizione o alla partecipazione dei collegi di reclamo del giudice che abbia pronunciato il provvedimento, rispettivamente, opposto o reclamato. Un ulteriore esempio si avrebbe, da ultimo, nei modelli degli artt. 183-ter e 183-quater cod. proc. civ., introdotti dal d.lgs. n. 149 del 2022, in caso di accoglimento del reclamo e di prosecuzione del giudizio. Tali ipotesi di incompatibilità, peraltro, dando luogo a specificazioni dell’obbligo di astensione, possono comunque essere dedotte dalle parti soltanto col rimedio della ricusazione ex art. 52 cod. proc. civ., e non in sede di impugnazione come motivo di nullità (così, ad esempio, Cass. Sez. Unite n. 1545 del 2017).

Facendo uso dei principi indicati dalla giurisprudenza convenzionale nella interpretazione dell’art. 6 par. 1 CEDU, il vulnus dell’imparzialità del giudice che abbia conosciuto della causa, a mente dell’art. 51 comma 1 n. 4) cod. proc. civ., emergerebbe in base al criterio soggettivo, individuando quel determinato magistrato la cui neutralità sia alterata dalla forza della prevenzione, ma atterrebbe, in realtà, alla garanzia oggettiva della necessaria diversità fra il giudice della decisione e il giudice deputato al riesame o al controllo su di essa.

La piena realizzazione della imparzialità del giudice, ex art. 111 comma 2 Cost., passa, dunque, per una corretta esegesi della nozione di “altro grado del processo”, adoperata nell’art. 51 comma 1 n. 4) cod. proc. civ. Come del resto chiarito dall’ormai consolidato orientamento della stessa Corte costituzionale, l’“altro grado del processo” che abbia procurato al giudice la preveniente conoscenza della causa non si esaurisce nel catalogo dei mezzi di impugnazione elencati dall’art. 323 cod. proc. civ. Perciò la dottrina richiama costantemente l’attenzione sulle analoghe insidie che pongono i procedimenti oppositori e di reclamo, i quali sovente rivelano tratti comuni ai giudizi stricto sensu impugnatori.

L’alterità del grado del processo, che determina l’obbligo di astensione del giudice e la facoltà della parte di chiederne la ricusazione, ad avviso delle più note elaborazioni scientifiche, dovrebbe così ravvisarsi ogni qual volta ci si trovi in presenza di un procedimento che: a) postula un riesame della medesima situazione sostanziale oggetto del giudizio, senza l’apporto di nuovo materiale probatorio e per il tramite della decisione assunta proprio da quel determinato magistrato, in maniera da pervenire, all’esito di tale rinnovata verifica delle questioni che questo aveva già esaminato, ad una pronuncia che ha natura ed effetto sostitutivi di quella gravata; b) resta rimesso all’indispensabile e tempestiva iniziativa di una parte che abbia interesse a modificare la regolamentazione delle contrapposte ed interdipendenti pretese contenuta in detta decisione, la quale diviene altrimenti immodificabile; c) viene affidato alla competenza funzionale di un giudice diverso da quello che si è già pronunciato.

Una strada alternativa percorsa in dottrina ha ipotizzato l’applicabilità analogica al processo civile della causa di ricusazione del giudice stabilita dall’art. 31 comma 1 lett. b) cod. proc. pen., allorquando egli abbia “manifestato indebitamente il proprio convincimento” sul merito della res iudicanda, ipotesi sussistente allorché il magistrato abbia anticipato una siffatta valutazione senza che fosse imposta o giustificata dalle sequenze procedimentali, né funzionale al provvedimento incidentale adottato (Cass. Sez. Unite penali, n. 41263 del 2005).

Ciò ha indotto tuttavia subito a replicare che nel processo civile giammai possa fraintendersi come manifestazione indebita l’espressione anticipata del proprio convincimento sull’esito della lite fatta dal giudice mediante provvedimenti regolati dalla legge e che contribuiscono alla formazione progressiva del contenuto della decisione definitiva, rendendo anche più prevedibile lo stesso per le parti.

Le Sezioni Unite ricordano poi come già il decreto della Prima Presidente di rimessione abbia registrato che, nei commenti dottrinali relativi al procedimento ex art. 380-bis cod. proc. civ. (per un veloce, ma efficace sunto si rimanda a BARONCINI V., Procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi ex art. 380-bis c.p.c. e regolamentazione delle spese di lite, in questa Rivista, 28 maggio 2024, https://www.eclegal.it/procedimento-la-decisione-accelerata-dei-ricorsi-regolamentazione-delle-spese-lite) alla stregua del testo introdotto dal d.lgs. n. 149/2022, fosse stata espressa l’opinione che il presidente della sezione o il consigliere da questo delegato, autore della sintetica proposta di definizione del giudizio, ove la parte ricorrente chieda la decisione, versasse in una situazione di incompatibilità a comporre il collegio chiamato a definire il giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ. In tal senso deporrebbero, indicativamente, la rubrica dello stesso art. 380-bis, che parla di “(p)rocedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati” e la constatazione che l’accelerazione si riduce a questa fase prodromica del giudizio. Viene segnalata la similitudine tra la proposta di definizione del giudizio di cui al novellato art. 380-bis cod. proc. civ. e la proposta di conciliazione del giudice di cui all’art. 185-bis cod. proc. civ. ed all’art. 420 comma 1, cod. proc. civ., ove, per la verità, è tuttavia precisato che “(l)a proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice”; si assume che il giudice che formuli e motivi una proposta di definizione, ritenendo il ricorso per cassazione manifestamente infondato, inammissibile o improcedibile, perde la sua posizione di terzietà ed imparzialità rispetto alla causa, allorché la stessa debba essere decisa su istanza del ricorrente, rimanendo influenzato dal suo pregiudizio o comunque apparendo non più neutrale alle parti. Nonostante il nome di proposta di definizione prescelto dal legislatore, quel che l’art. 380-bis affida al presidente della sezione o al consigliere delegato configurerebbe, piuttosto, una decisione, tant’è che l’effetto suo proprio (ove il ricorrente non reagisca entro quaranta giorni), e cioè l’estinzione del processo e il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, si produce senza bisogno di alcuna espressa accettazione del destinatario. Altrimenti, si ravvisa nella proposta di definizione una sorta di contenuto decisorio, sia pure sulla base di una valutazione delibativa, e nella investitura del Collegio, mediante la istanza di decisione, una sorta di reclamo. Queste letture – continuano sempre le Sezioni Unite – avvertono che la proposta di definizione contemplata nel modello processuale allestito dal d.lgs. n. 149/2022 è cosa diversa dalla proposta del relatore rivolta al presidente, come dalla relazione rivolta al collegio, contemplate nelle previgenti versioni dell’art. 380-bis cod. proc. civ. Saremmo in presenza, piuttosto, di un giudice singolo di Cassazione, il quale opera in modo del tutto svincolato dal collegio (interloquendo unicamente con le parti private e senza alcun coinvolgimento nemmeno del pubblico ministero) e il cui provvedimento monocratico è votato a definire la fase della decisione accelerata, alla quale, eventualmente, segue una diversa fase oppositoria, subordinata alla tempestiva istanza di parte sottoscritta da difensore non a caso “munito di una nuova procura speciale”, e che la Corte definisce in camera di consiglio, venendo meno il beneficio del mancato raddoppio del contributo unificato, se il ricorso è respinto integralmente o è dichiarato inammissibile o improcedibile, e comminando altresì le sanzioni di cui all’art. 96 commi 3 e 4 cod. proc. civ. se la decisione finale risulta conforme alla proposta. Questo apparato sanzionatorio eserciterebbe una forte coartazione della volontà del ricorrente, rendendo nei fatti la proposta difficilmente rifiutabile.

In sostanza, il provvedimento acceleratorio del presidente della sezione o del consigliere da questo delegato darebbe luogo ad una anticipazione di giudizio e perciò deporrebbe per l’incompatibilità a comporre il collegio della definizione camerale, e vieppiù ad essere nominato relatore (il che, del resto, gli artt. 380-bis e 380-bis.1 non prevedono testualmente). Le interpretazioni dottrinali in esame dubitano altrimenti della legittimità costituzionale dell’art. 380-bis cod. proc. civ. con riferimento all’art. 111 comma 2 Cost., ed affermano che il giudice che abbia elaborato la proposta e poi faccia anche parte del collegio giudicante può essere fondatamente ricusato dalle parti, ex art. 52 cod. proc. civ., in relazione all’art. 51 comma 1 n. 4, cod. proc. civ.

La Corte di cassazione, nella vigenza della precedente disciplina del procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, aveva ripetutamente escluso che ricorresse l’obbligo di astensione di cui all’art. 51 comma 1 n. 4 cod. proc. civ., in capo al giudice relatore autore dapprima della relazione e poi della proposta ai sensi del primo comma dell’art. 380-bis cod. proc. civ., ratione temporis operante, non rivelando detta relazione o proposta carattere decisorio, né configurandosi quale anticipazione di giudizio da parte del relatore, giacché non ne risultava in alcun modo menomato il verdetto finale spettante al collegio (ex multis, Cass. n. 27305 e n. 8939 del 2021; n. 2720 del 2020; n. 7541 del 2019; n. 24140 del 2010; n. 24612 del 2007; arg. anche da Cass. Sez. Unite n. 7433 e n. 8999 del 2009).

Era stata pure dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 377 e 380-bis cod. proc. civ., con riferimento all’art. 52 cod. proc. civ. ed in riferimento all’art. 111 comma 2 Cost., nella parte in cui si consentiva che il giudice relatore potesse comporre il collegio giudicante nel procedimento camerale di cassazione. A proposito della relazione prevista nel modello inserito dal d.lgs. n. 40/2006, la quale recava una concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e diritto posti a sostegno della prospettata decisione camerale, le pronunce descrivevano la stessa non come segmento di decisione da sottoporre all’approvazione del collegio, né come qualificata opinione versata agli atti, ma quale mera proposta ipotetica di definizione processuale accelerata, rivolta ad indicare alle parti e al collegio, a contraddittorio dispiegato sull’intero thema decidendum, la possibile ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 375 cod. proc. civ. (Cass. n. 18047 del 2008; n. 9094 e n. 20965 del 2007).

Della prima versione dell’art. 380-bis cod. proc. civ., d’altro canto, si era detto che esso riprendeva dalla storia il modello dell’istituto dell’opinamento, ove si prevedeva, nell’intento di garantire il rispetto del contraddittorio, la comunicazione alle parti di un progetto di motivazione, il quale non fungeva da atto di volontà, ma serviva a manifestare un dubbio, cui soltanto la sentenza avrebbe dato risposta. Anche rispetto all’ordinanza opinata, con cui la Corte deliberava sul ricorso a seguito della comunicazione della relazione e della presentazione delle conclusioni del pubblico ministero e delle memorie delle parti nella vigenza del primo art. 380-bis cod. proc. civ., era stato avanzato dagli studiosi il sospetto di un deficit di terzietà del relatore, che prima comunicava il suo opinamento e poi partecipava alla decisione. Si era tuttavia rimarcato che la relazione opinata valesse, piuttosto, ad assicurare una preventiva ostensione della proposta di definizione, in maniera da evitare alle parti “sorprese” al momento della decisione e da favorirne, nell’ottica della collaborazione, l’adozione delle conseguenti scelte difensive.

Nelle prime interpretazioni seguite dalla Corte di cassazione, si era affermato che il nuovo art. 380-bis cod. proc. civ. non avesse inciso “sull’essenza collegiale della giurisdizione di legittimità”, in quanto la proposta di definizione accelerata, conformemente alle sue predecessore, avrebbe continuato “a rappresentare un mero opinamento del relatore proponente, privo di valore decisionale, il novum essendo rappresentato unicamente dalla richiesta del legislatore di una interlocuzione della parte”. L’impulso di definizione del giudizio resterebbe rimesso alla volontà del ricorrente, il quale si trova di fronte all’alternativa tra: non chiedere la decisione entro il termine stabilito, il che dà luogo ad una “manifestazione tacita di rinuncia al ricorso”, disciplinata come la rinuncia regolata dagli artt. 390 e 391 cod. proc. civ. e che comporta la definizione del giudizio “non come indicato nella proposta”; oppure, formulare “una mera istanza, non motivata”, la quale “di per sé provoca la decisione della Corte” (così Cass. n. 31839/2023).

I commenti dottrinali – rilevano ancora le Sezioni Unite – sono invece più propensi a sottolineare le differenze che le analogie tra i vecchi modelli di procedimento camerale ex art. 380-bis cod. proc. civ. e quello da ultimo introdotto dal d.lgs. n. 149/2022. Nei modelli previgenti, l’ipotesi decisoria veicolata nella relazione o nella proposta veniva anticipata ai difensori, ma non chiudeva mai il procedimento, al quale fine occorreva pur sempre che la Corte deliberasse sul ricorso con ordinanza, o con sentenza se la medesima Corte rinviava la causa alla pubblica udienza. Il tipo del provvedimento decisorio in tali modelli era, dunque, come si è già detto, quello dell’ordinanza opinata. Questa ricostruzione sorreggeva la conclusione circa la “non incompatibilità” del relatore rispetto al collegio giudicante, giacché autore di un atto dell’unico procedimento decisorio di per sé privo di autonomia provvedimentale; anzi, la possibilità che il relatore partecipasse al collegio chiamato a pronunciare sul ricorso sembrava garanzia di conseguimento dello scopo acceleratorio del peculiare rito allestito per le ipotesi di inammissibilità, manifesta fondatezza o infondatezza dell’impugnazione.

Ben diverso risulterebbe il meccanismo del novellato art. 380-bis cod. proc. civ. Esso si strutturerebbe in una prima fase caratterizzata dalla formulazione della proposta del presidente di sezione o del consigliere delegato, provvedimento del tutto autonomo a valenza potenzialmente decisoria, giacché, in difetto di richiesta del ricorrente, il ricorso si intende rinunciato. Se invece la richiesta di decisione ci sia, il collegio non è investito di altro che di una sorta di revisio prioris instantiae sulla medesima res iudicanda già valutata dal presidente o consigliere proponente: si tratterebbe, dunque di una seconda fase procedimentale che duplica la cognitio della prima e perciò impone l’alterità dei giudici, sicché il medesimo proponente sarebbe incompatibile ad assumere la qualità di componente del collegio.

La questione rimessa alle Sezioni Unite nel caso de quo viene risolta nel senso che, nel procedimento ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., come disciplinato dal d.lgs. n. 149/2022, il presidente della sezione o il consigliere delegato, che abbia formulato la proposta di definizione accelerata, può far parte, ed eventualmente essere nominato relatore, del collegio che definisce il giudizio ai sensi dell’art. 380-bis.1, ove il ricorrente abbia chiesto la decisione.

Il novellato art. 380-bis cod. proc. civ. prevede che il presidente della sezione, o il consigliere da questo delegato, può formulare una sintetica proposta di definizione del giudizio, recante la sintetica indicazione delle ragioni dell’inammissibilità, dell’improcedibilità o della manifesta infondatezza del ricorso ravvisata (secondo quanto precisato dalla legge di delega n. 206/2021).

Tale proposta va comunicata ai difensori delle parti.

Entro quaranta giorni dalla comunicazione, la parte ricorrente può chiedere la decisione del ricorso con apposita istanza.

Questa istanza non apre una nuova fase del giudizio di cassazione pendente e non provoca, perciò, una frammentazione del procedimento, non potendosi imporre che, per la medesima fase del giudizio, vi siano tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere.

Non depone per l’esaurimento di una fase del giudizio di cassazione e per l’apertura di una distinta ed autonoma fase il dato che l’art. 380-bis cod. proc. civ. richiede che l’istanza di decisione, a seguito della comunicazione della proposta di definizione, sia sottoscritta dal difensore munito di nuova procura speciale.

Si è convincentemente sostenuto dai commentatori che la nuova procura speciale a corredo dell’istanza di decisione, di cui all’art. 380-bis comma 2 cod. proc. civ., non va conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata (benché non contemplata fra gli atti di cui al terzo comma dell’art. 83 cod. proc. civ.). Non si tratta, invero, di nuova procura alle liti, ma di procura a compiere, nell’interesse del ricorrente, uno specifico ed eventuale atto del processo di cassazione, il cui espletamento sollecita non soltanto l’adempimento dei doveri di informazione verso il cliente incombenti sull’avvocato nel contesto della disciplina sostanziale che regola il rapporto interno relativo al conferimento dell’incarico, ma onera altresì la Corte di verificare la diretta riferibilità alla parte della peculiare attività processuale svolta in tale segmento dal difensore.

Il legislatore, a fronte del rilievo attribuito nei commi 2 e 3 al sopravvenire della proposta che ravvisi l’inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso, ha quindi ritenuto, con scelta che non può dirsi né arbitraria né irragionevole, di porre a carico del difensore l’onere di farsi conferire espressamente il potere di chiedere la decisione, in maniera che la parte manifesti in modo univoco la sua volontà concreta e attuale di dare vita alla pronuncia del collegio. Tale limitazione del mandato conferito con la originaria procura ex art. 365 cod. proc. civ. e della condotta processuale affidata al difensore postula soltanto l’osservanza di una ulteriore regola di procedura che può dirsi “mirata ad un’attivazione consapevole della giurisdizione di legittimità” (cfr. Corte cost., sent. n. 13/2022).

Come chiarito nella sentenza della Consulta n. 142/2023 (la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 comma 1 l. n. 89/2001, nella parte in cui prevedeva l’inammissibilità della domanda di equa riparazione nel caso di mancato esperimento del rimedio preventivo di cui all’art. 1-ter comma 6, della medesima legge nei giudizi davanti alla Corte di cassazione), il rito accelerato delineato dal nuovo art. 380-bis cod. proc. civ. non ha alcuna attinenza con il sistema dei rimedi preventivi e dei correlati modelli procedimentali alternativi, volti ad evitare che la durata del processo diventi eccessivamente lunga.

L’istanza sottoscritta dal difensore del ricorrente ex art. 380-bis comma 2 cod. proc. civ., pur necessitando di nuova procura speciale, ha, dunque, soltanto effetto dichiarativo del permanente interesse alla decisione del ricorso già incardinato nel processo mediante la richiesta di cassazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 366 comma 1 n. 4, cod. proc. civ. La Relazione illustrativa al d.lgs. n. 149/2022 definisce l’istanza di decisione come necessario “atto di impulso processuale che coinvolga personalmente la parte ricorrente”.

Ciò porta a ritenere che nessuna differenza funzionale sussista, quanto al rapporto con la decisione finale del collegio, tra la “relazione” o la “proposta” delle precedenti formulazioni dell’art. 380-bis cod. proc. civ. e la attuale proposta di definizione accelerata del giudizio: quest’ultima, al pari delle sue predecessore, è rivolta alle parti, evita loro sorprese nell’ottica della collaborazione, assicura la dialetticità della procedura e provoca l’eventuale contraddittorio, non costituisce alcun vincolo né alcuna preclusione per il giudizio del collegio, è priva di autonomia, non decide anticipatamente, non definisce il procedimento, né si colloca in una fase diversa e compiuta rispetto a quella che poi porta la Corte a procedere ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

La vera novità del novellato art. 380-bis cod. proc. civ. sta nell’aver previsto che la mancata dichiarazione del permanente interesse alla decisione del ricorso, da esprimere con l’istanza di cui al secondo comma, lascia “intendere rinunciato” il ricorso, sicché la Corte provvede ai sensi dell’art. 391 cod. proc. civ. (ovvero con decreto del presidente, anziché secondo la regola di costituzione del collegio giudicante imposta dall’art. 67 ord. giud. e garantita ove sia chiesta la decisione).

Costituiva approdo già sicuro nella giurisprudenza di legittimità che l’instaurazione del procedimento camerale ex art. 380-bis cod. proc. civ., con la comunicazione della relazione o della proposta che prospetti un determinato esito del ricorso, sia in ogni caso destinata a recedere ove la parte rinunci allo stesso, dovendo comunque alla manifestazione di tale volontà abdicativa seguire la declaratoria di estinzione anche qualora sussista una causa di inammissibilità o di manifesta infondatezza dell’impugnazione (Cass. Sez. Unite n. 19514/2008).

Nella disciplina del procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, si è inteso piuttosto attribuire significatività legale ad un determinato comportamento processuale omissivo del ricorrente, quale la mancata richiesta di decisione entro quaranta giorni dalla comunicazione della proposta, intendendolo come equipollente alla manifestazione di una volontà abdicativa, e cioè di una tacita rinuncia, dell’impugnazione.

Il tenore letterale del vigente art. 380-bis cod. proc. civ., al pari delle formulazioni previgenti, se non depone nel senso della obbligatorietà della partecipazione al collegio del magistrato autore della proposta, neppure lascia inferire un suo obbligo di astensione e la possibilità di una sua ricusazione.

Adoperando, allora, gli indici operativi selezionati dalla richiamata giurisprudenza costituzionale, nel procedimento ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., come disciplinato dal d.lgs. n. 149/2022 – concludono, pertanto, le Sezioni Unite – non sussiste l’obbligo di astensione di cui all’art. 51 comma 1 n. 4 cod. proc. civ. (né specularmente spetta alle parti il diritto di ricusazione), nei confronti del presidente della sezione o del consigliere delegato che abbia formulato la proposta, con riguardo al collegio che definisce il giudizio ai sensi dell’art. 380-bis.1. La decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta della parte ricorrente non si configura quale fase distinta, che si sussegue nel medesimo giudizio di cassazione con carattere di autonomia e con contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta di definizione accelerata e non può dunque tramutarsi in “meccanismo di reiterazione provvedimentale”. Tale proposta non rivela una funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione del collegio rivela una intrinseca natura impugnatoria rispetto a quella.

La proposta e l’ordinanza del collegio non danno luogo, cioè, a due decisioni sulla stessa causa, rimanendo unico il convincimento decisorio espresso nel provvedimento finale reso ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ. Che l’ordinanza del collegio debba avere ad oggetto la decisione sul ricorso e non la legittimità della proposta di definizione anticipata è ulteriormente confermato dal generico rinvio operato dal terzo comma dell’art. 380-bis al procedimento in camera di consiglio, ove si accorda alle parti soltanto la facoltà di depositare sintetiche memorie illustrative inerenti alle censure già proposte. La considerazione che non si apre, invece, un apposito contraddittorio sulla proposta di definizione del giudizio, consentendo o richiedendo alle parti di prendere posizione su di essa, appare in linea con la constatazione che la medesima proposta non entra innovativamente nell’oggetto del processo di cassazione, né può in alcun modo essere posta dal collegio a fondamento della decisione.

La proposta di cui al vigente art. 380-bis cod. proc. civ. realizza un assetto meramente strumentale e interinale, e rimane, quindi, prodromica alla decisione conclusiva che spetta al collegio; se ad essa non segue la richiesta di cui al secondo comma, il giudizio viene definito dal decreto che dichiara l’estinzione del giudizio emesso a norma dell’art. 391 cod. proc. civ. (il che ne spiega la forma monocratica), e non con una statuizione confermativa della inammissibilità, della improcedibilità o della manifesta infondatezza del ricorso ipotizzate dal proponente.

La previsione secondo cui “la Corte provvede ai sensi dell’articolo 391” comporta l’operatività altresì del terzo comma di tale norma, in forza del quale “[i]l decreto ha efficacia di titolo esecutivo se nessuna delle parti chiede la fissazione dell’udienza nel termine di dieci giorni dalla comunicazione”. Tale richiesta, da svolgersi nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto, si spiega come sollecitazione alla fissazione dell’udienza per la decisione collegiale, non avente natura di impugnazione del provvedimento, quanto di atto che rimette alla Corte di valutare se l’estinzione sia stata correttamente dichiarata e, in caso contrario, di elidere qualsiasi valore del decreto di estinzione ai fini della definizione del giudizio di cassazione (Cass. Sez. Unite n. 19980/2014).

La partecipazione quale componente o la nomina quale relatore del presidente della sezione o del consigliere delegato proponente, ex art. 380-bis cod. proc. civ., al collegio che definisce il giudizio, ove il ricorrente abbia chiesto la decisione, non rilevano, pertanto, quali ragioni di incompatibilità, ai sensi dell’art. 51 comma 1 n. 4 e dell’art. 52 cod. proc. civ.

Il proponente ex art. 380-bis cod. proc. civ. non ha di certo neppure manifestato indebitamente il proprio convincimento sul merito della res iudicanda. La sua partecipazione al collegio che definisce il giudizio può, anzi, contribuire ad assicurare sia un maggiore rendimento dell’attività giurisdizionale, sia una maggiore celerità della decisione, e perciò una migliore qualità dell’accertamento sui cui la stessa deve poggiare.

Tale conclusione non è frutto di un bilanciamento tra il canone oggettivo di efficienza dell’amministrazione della giustizia e il diritto delle parti ad un processo che si svolge in contraddittorio davanti ad un giudice terzo e imparziale, in quanto tali valori non possono entrare in comparazione, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie: ai fini dei principi dettati sia dall’art. 111 comma 2 Cost., sia dall’art. 6 CEDU, ciò che rileva è esclusivamente la durata del giusto processo (Corte cost., sentt. n. 111/2022 e n. 317/2009). L’interpretazione qui prescelta dell’art. 380-bis cod. proc. civ., quanto alla possibile partecipazione del magistrato autore della proposta al collegio che decide sul ricorso, poggia, piuttosto, sulla convinzione che detta partecipazione non confligge con il principio di terzietà del giudice e non costituisce affatto alcuna deroga all’attuazione del principio del giusto processo, sia pur ritenuta utile allo scopo di abbreviare la durata dei procedimenti di cassazione.

Per tali motivi, le Sezioni Unite della Cassazione hanno enunciato il principio di diritto riportato in massima.

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