14 Maggio 2024

Riforma Cartabia, istituti astrattamente deflattivi, razionalizzazione del processo penale e valorizzazione della riparazione del danno come strumento di risoluzione e definizione procedimentale

di Francesco Schippa, Avvocato Scarica in PDF

Premessa

La c.d. Riforma Cartabia (D.lgs. n. 150 del 2022), come noto, ha introdotto una serie di modifiche apparentemente molto incisive su diversi istituti di diritto penale sostanziale e di diritto processuale penale, che muovono da una sorta di rinnovata attenzione al ruolo della persona offesa e – in generale – al fenomeno della “riparazione del danno”.

Osservando la Riforma nel suo complesso, appare chiaro che uno degli intenti del Legislatore è stato senza dubbio quello di “razionalizzare” la giustizia penale, nell’ottica di provare a ridimensionare il carico di contenzioso (dibattimentale e post-dibattimentale) che connota i tribunali di tutto il Paese (in linea con l’obiettivo del P.N.R.R. di ridurre del 25% i tempi medi del processo penale entro il 2026).

La Riforma, in tal senso, sembra aver cercato – da un lato – di responsabilizzare imputati e difese nel prendere parte in modo consapevole ad alcune fasi processuali, imponendo – ad esempio – l’attribuzione di specifico mandato, ricorrendo peculiari condizioni, ai fini della proposizione dell’atto di appello; d’altro lato, l’intervento legislativo sembra aver voluto introdurre meccanismi sostanziali e processuali di “definizione extra dibattimentale” dei procedimenti che valicano la soglia dell’esercizio dell’azione penale (si pensi, ad esempio, alla teorica funzione di filtro assolta dall’udienza predibattimentale).

Non è certo questa la sede per poter esaminare la Riforma in modo organico ed esaustivo (posto che, tra le altre cose, la medesima è stata oggetto di recenti correttivi)[1]; ma nel presente contributo verranno esaminati alcuni specifici profili del D.lgs. 150/2022, che determinano una sorta di “nuova collocazione” della persona offesa e del danno alla stessa arrecato.

Persona offesa e danno diventano potenzialmente elementi centrali nella risoluzione/definizione del processo e del procedimento, a tal punto che il procedimento penale, come si specificherà nel prosieguo, sembra quasi assumere connotati “negoziali”, ove reo e persona offesa possono addivenire alla “ricomposizione” del proprio rapporto, pattuendo condotte restitutorie o risarcitorie.

Il presente contributo si prefigge l’obiettivo di esaminare la Riforma Cartabia (a quasi un anno e mezzo dalla sua entrata in vigore), dall’angolo visuale del fenomeno della riparazione del danno, che si associa, fisiologicamente, ad una rinnovata attenzione alla persona offesa, soprattutto ove quest’ultima assume le vesti del “querelante”.

Da ultimo, sempre nell’ottica di provare ad ipotizzare e riflettere sull’effettiva portata delle nuove disposizioni, si esaminerà come, all’interno di questo contesto, l’udienza predibattimentale possa incidere in senso deflattivo (sarà un mero duplicato della “vecchia” udienza preliminare, con tutte le critiche che storicamente le sono state mosse, o potrà rappresentare la sede per neutralizzare l’inizio di istruttorie dibattimentali verosimilmente inutili?).

L’estensione della procedibilità a querela di parte come strumento di “dissuasione” e come istituto che può facilitare la ricomposizione extra processuale dei rapporti tra persona offesa e reo. Il risarcimento del danno come veicolo per agevolare la remissione.

A seguito della Riforma sono molteplici le fattispecie che diventano procedibili a querela di parte, perché non destano eccessivo allarme sociale e/o perché correlate a forme di nocumento non irreversibile.

In questo alveo si annoverano taluni delitti contro la persona: lesioni personali stradali gravi o gravissime, limitatamente all’ipotesi non aggravata di cui all’art. 590-bis, co. 1 c.p.; lesioni personali dolose (art. 582 c.p.): la procedibilità a querela viene estesa alle lesioni lievi (malattia compresa tra 21 e 40 giorni, salvo il ricorrere di talune circostanze); sequestro di persona semplice (non a scopo di estorsione) ex art. 605 c.p., limitatamente all’ipotesi prevista dal primo comma; violenza privata (art. 610 c.p.), limitatamente all’ipotesi non aggravata prevista dal primo comma; minaccia, a determinate condizioni (art. 612 c.p.); violazione di domicilio, se non ricorrono specifiche circostanze (art. 614 c.p.).

La Riforma ha poi inciso sulla procedibilità di diversi reati contro il patrimonio che, allo stato, rappresentano il contesto in cui più marcatamente la procedibilità d’ufficio è relegata ad ipotesi molto peculiari.

Nell’ambito dei delitti contro il patrimonio residuano ipotesi di procedibilità d’ufficio – di fatto – nei casi che riguardano, fondamentalmente, l’aggressione a persone o cose che abbiano qualifiche particolari.

Si fa riferimento, soprattutto, ai delitti contro il patrimonio in cui la persona offesa risulti incapace per età o per infermità: situazioni nelle quali, evidentemente, l’aggressione è considerata maggiormente riprovevole e la querela concretamente non potrebbe essere sporta (salvo ipotizzare l’intervento di figure tutoriali o genitoriali).

Nell’ambito dei delitti contro il patrimonio la massima espressione di questa progressiva tendenza del Legislatore a considerare la procedibilità come un qualcosa che resti nella materiale disponibilità della persona offesa si riscontra nel furto, ex art. 624 c.p. (si rammenta che la Riforma Cartabia è solo l’ultimo degli interventi legislativi che muovono in tale direzione).

In effetti, con l’entrata in vigore deI D.lgs. n. 150/2022, il furto aggravato dalla particolare gravità del danno (art. 61, n. 7 c.p.) diventa procedibile a querela. Si promuove e stimola pertanto la possibilità che le “controparti” (si può forse iniziare a considerarle in questi termini) interloquiscano per accordare condotte di natura risarcitoria, la cui naturale conseguenza sarebbe evidentemente la remissione della querela (con correlata estinzione del reato).

Anche diverse ipotesi di furto aggravato ex art. 625 c.p. rientrano oramai nel novero dei delitti procedibili a querela; la Riforma ha però mantenuto la procedibilità d’ufficio per le fattispecie che hanno una dimensione pubblicistica, creando un’impostazione differente tra la perseguibilità dei delitti confinati alla sfera civile e quelli che coinvolgono profili di interesse collettivo.

Ma al di là di queste necessarie digressioni sul furto, è possibile constatare agevolmente che oggi la quasi totalità dei reati contro il patrimonio è caratterizzata dalla procedibilità a querela di parte: dalla truffa, alla frode informatica, all’appropriazione indebita, sono oramai molto ristrette le possibilità (fondamentalmente associate a peculiari aggravanti o a specifiche qualità della persona offesa) che l’effettiva instaurazione di un procedimento non dipenda da una scelta della c.d. vittima.

La predilezione per la procedibilità a querela di parte, soprattutto con riguardo ai reati che offendono la sfera privatistico – patrimoniale, ha probabilmente raggiunto con la Riforma il suo apice. Tanto è vero che si è parlato di una sorta di fenomeno di “mitigazione” del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale[2].

La rinnovata attenzione e la centralità che viene conferita alla persona offesa, nella dinamica procedimentale da cui deriva l’instaurazione o meno del procedimento penale, appare però parzialmente controbilanciata da una sorta di responsabilizzazione del querelante nella fase dibattimentale.

Viene infatti prefigurata una nuova ipotesi di remissione tacita della querela nel caso di mancata e ingiustificata comparizione del querelante all’udienza alla quale è stato citato come testimone (art. 152, co. 2, n. 1 e co. 2 c.p.); su tale istituto, peraltro, la giurisprudenza di legittimità, come si specificherà nel prosieguo, ha già avuto modo di esprimersi abbondantemente.

Giova segnalare che, in tale contesto, ragionevolmente, si è ritenuto doveroso introdurre una disposizione transitoria (cfr. art. 85 D.lgs. 150/2022), che consentisse alla persona offesa di un reato diventato (in ragione della Riforma) procedibile a querela di parte, di promuovere la querela in un tempo congruo, ossia entro tre mesi dall’entrata in vigore della novella. In concreto si è prevenuto che la persona offesa subisse una sorta di improcedibilità retroattiva, derivante dal principio di retroattività della legge più favorevole, ex art. 2 comma IV c.p.[3]

Orbene, secondo la recente giurisprudenza della Suprema Corte, l’espressione della volontà punitiva che rappresenta il fulcro contenutistico della querela, si riscontra anche in ulteriori attività processuali della persona offesa, che rappresentano di fatto degli “equipollenti” della querela medesima: per esempio, la costituzione di parte civile non revocata, secondo certo orientamento della Corte, equivale alla querela ai fini della procedibilità, nei reati divenuti procedibili a querela della persona offesa con la Riforma (cfr. Cass. Pen. Sez. III n. 27147/2023)[4].

Ed anzi, fornendo ulteriori specifiche in materia, con la sentenza n. 11108 del 2024, la Cassazione ha evidenziato che – una volta soddisfatta la condizione di procedibilità – i comportamenti meramente omissivi, quali ad esempio la revoca della costituzione di parte civile, non determinano automaticamente la remissione tacita della querela[5].

In armonia con quanto espresso nella suindicata pronuncia, con la sentenza n. 50672 del 2023 (Sez. II), era stato già affermato il principio secondo il quale una querela proposta quando il reato era procedibile d’ufficio espleta i propri effetti (in termini di soddisfazione della condizione di procedibilità) anche se presentata in modo apparentemente tardivo, ossia dopo il decorso di tre mesi dalla piena conoscenza del fatto.

In altre parole: se il reato era procedibile d’ufficio, la querela di parte promossa prima della Riforma “salva” la procedibilità “pro futuro”, anche se era stata presentata tardivamente. Non sarà necessario che – in ragione del mutato regime di procedibilità – la querela venga riproposta per “rimediare” all’eccessivo lasso di tempo intercorso tra la percezione del fatto lesivo e la formalizzazione/dichiarazione della volontà punitiva.

Non si può quindi ritenere “non produttiva di effetti” una querela intervenuta tardivamente quando il reato era procedibile d’ufficio e non reiterata nei termini di cui all’art. 85 del decreto legislativo n. 150 del 2022, ossia entro i tre mesi dall’entrata in vigore del novum normativo[6].

Da quanto emerge nelle sentenze suddette, da un lato (assecondando sostanzialmente lo spirito che sembra aver animato il Legislatore degli ultimi anni) si promuove il c.d. favor querelae, considerando soddisfatta la condizione di procedibilità (talvolta) anche in assenza di una formale querela e, d’altro lato, si tende a restringere il novero delle ipotesi di remissione tacita.

Non a caso la Suprema Corte, nel corso del 2023, ha ribadito più volte che la volontà della persona offesa di “non procedere” debba essere inequivoca ed incondizionata, quasi ribaltando la prospettiva garantista tradizionale, secondo la quale il principio dell’in dubio pro reo avrebbe potuto involgere anche questioni legate alla procedibilità.

In particolare, con la sentenza della Sezione II, del 28.06.2023, n. 33648 si è rimarcato che “L’improcedibilità derivante dalla remissione tacita della querela, prevista dall’art. 152, comma 3, c.p., introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. h), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, consegue direttamente alla mancata comparizione, senza giustificato motivo, del querelante citato come testimone, fatto salvo quanto previsto dall’art. 152, comma 4, c.p. a tutela dei soggetti vulnerabili, nonché il potere-dovere del giudice di accertare che l’assenza sia ingiustificata e di escludere ogni forma di indebito condizionamento, analogamente a quanto previsto dall’art. 500, comma 4, c.p.p.”.

E sulla scorta di quanto predetto, gli Ermellini, con la sentenza della Sezione V, del 05.10.2023, n. 43636, hanno evidenziato che “In tema di remissione tacita della querela, anche a seguito dell’introduzione della lett. d-bis), comma 3, dell’art. 142 disp. att. cod. proc. pen. ad opera dell’art. 41, comma 1, lett. t), n. 1), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in forza della quale l’atto di citazione deve contenere l’avvertimento che la mancata comparizione senza giustificato motivo del querelante all’udienza in cui è citato a comparire come testimone integra remissione tacita di querela nei casi in cui essa è consentita, il giudice non è esonerato dal compito di verificare l’effettiva volontà del querelante di rimettere la querela qualora nel procedimento si riscontrino elementi idonei a far dubitare della sussistenza di siffatta volontà”. 

In conclusione, ciò che si evince dall’architettura della Riforma è una nuova “centralità” della persona offesa, che può determinare le sorti dell’esercizio dell’azione penale; non a caso, quando effettivamente formalizza una denuncia querela, la persona offesa riceve nuove e più elaborate informazioni (si veda in tal senso la nuova disciplina delle informazioni al querelante ex artt. 90, co. 1-bis, 90, lett. a-bis)-a-quinquies e n-bis) c.p.p., 142, co. 3-4 disp. att. c.p.p.).

Ciò implica fisiologicamente che si vada verso una più frequente interlocuzione tra reo e persona offesa, in cui si tenti di raggiungere un accordo sul risarcimento del danno derivante da reato.

In tale ottica, se consideriamo che concretamente il ristoro del danno può diventare il principale veicolo per agevolare la remissione, oltre che di “centralità” della persona offesa querelante, sarebbe opportuno parlare di “centralità” del risarcimento della lesione derivante dalla condotta illecita.

La riparazione del danno come strumento di razionalizzazione e di ricomposizione del conflitto sociale tra reo e persona offesa, o – in generale – tra reo e collettività.

Coerentemente con quanto esposto in precedenza, la Riforma ha provato ad introdurre nella dialettica processuale degli strumenti di risoluzione del conflitto legati all’eterogeno alveo della giustizia riparativa.

Il ruolo cardinale (in senso potenziale) della giustizia riparativa, soprattutto nei reati procedibili a querela, lo si evince dal disposto dell’art. 152 comma III n. 2 c.p., ai sensi del quale “quando il querelante ha partecipato ad un programma di giustizia riparativa, concluso con un esito riparativo” si addiviene alla remissione tacita. La norma esplicita altresì che “nondimeno, quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati”.

Tali meccanismi di giustizia riparativa, ai quali per forza di cose nel presente contributo si può fare mero cenno, erano già noti nell’ambito della giustizia minorile.

Si muoveva e si muove tuttora dall’idea che la giustizia riparativa possa rappresentare non tanto un meccanismo negoziale di risarcimento, brutalmente funzionale alla remissione della querela, ma possa diventare un vero strumento di genuina ricomposizione della relazione sociale[7].

Certo è che nei fatti, ove effettivamente tali istituti (e i relativi centri di giustizia riparativa) diventassero operativi e materialmente applicabili, la remissione della querela diventerebbe un inevitabile obiettivo di chi accede ai programmi[8].

Ristorare il danno afflitto alla persona offesa, oppure promuovere condotte volte a ristorare la collettività del comportamento socialmente patologico, sembrerebbero essere le linee guida, o comunque gli obiettivi più espliciti della giustizia riparativa. Tali obiettivi appaiono più che armonici con la sana ambizione del reo di vedere rimessa la querela sporta nei suoi confronti.

Ma a rigore tali meccanismi non appaiono del tutto estranei alla visione tradizionale del procedimento penale. Tanto gli “obblighi del condannato” (art. 165 c.p.), a cui può essere subordinata l’applicazione della sospensione condizionale della pena, quanto le frequenti previsioni “risarcitorie” inserite nei programmi elaborati dall’UEPE nell’ambito della messa alla prova, quanto le condotte riparatorie ex art. 162 ter c.p., sono anch’essi espressione dell’idea che per accedere a determinati beneficio o vantaggi (processuali o sostanziali) si possa pretendere dal reo una condotta materialmente volta ad elidere le conseguenze dannose del reato.

Con la Riforma però si tende a potenziare il meccanismo di ristoro, inserendolo e valorizzandolo in diverse fasi del procedimento.

Si pensi, lo si rammenta per completezza, che anche nella rimodulazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.) si giunge a valorizzare ulteriormente il ristoro del danno. Infatti, nel primo comma del disposto normativo, viene introdotta la dizione “anche in considerazione della condotta susseguente al reato”[9].

La Suprema Corte, in un caso avente ad oggetto il delitto di omesso versamento di IVA, ha valorizzato tale nuova introduzione, applicando l’art. 131 bis c.p. al reo che – nelle more del giudizio – aveva ristorato l’Erario, provvedendo al rateale pagamento del debito tributario (Cass. Pen. Sez. III, n. 28031 del 2023).

Gli Ermellini, in tale contesto, hanno rimarcato che con la nuova modulazione della causa di non punibilità (art. 131 bis c.p.), occorre osservarsi l’entità dell’offesa non solo e non per forza al momento della consumazione del reato ma, ove intervengano condotte ristorative successive, nel momento in cui l’Autorità Giudiziaria è chiamata a pronunciarsi.

Nelle condotte post factum da tenere in considerazione la Corte annovera tutta una serie di istituti, uniti dal minimo comune denominatore del coinvolgimento della persona offesa e/o del danno e/o del ripristino di una situazione patologica (e ciò sembrerebbe confortare quanto argomentato nel presente paragrafo sulla centralità della persona offesa e del ristoro del danno in senso lato): la Cassazione, in tal senso, menziona “le restituzioni, il risarcimento del danno, le condotte riparatorie, le condotte di ripristino dello stato dei luoghi, l’accesso a programmi di giustizia riparativa o, come nel caso in esame, l’intervenuto adempimenti dell’obbligo tributario mediante l’integrarle pagamento del debito erariale …”.

L’esatta commisurazione del danno da riparare: oscillazioni interpretative e dubbi apparentemente mai sopiti.

Sin qui tutto piuttosto chiaro, se non altro nella schematizzazione esemplificativa che è stata proposta nei precedenti paragrafi sui nuovi (o forse sarebbe il caso di dire “rinnovati e potenziati”) strumenti di definizione extra procedimentale dei “conflitti penali”.

Il grande “dilemma interpretativo” però, che si incontra nel tentativo di dare materiale applicazione agli istituti richiamati in precedenza, è legato ai termini esatti in cui va confinato il concetto di risarcimento del danno.

In altre parole: nel procedimento penale, cosa si intende esattamente per risarcimento del danno? E ove la persona offesa non accetti l’offerta risarcitoria, secondo quali parametri il giudice può ritenerla comunque congrua?

A tali domande non è agevole rispondere e chi scrive ha avuto modo di toccare con mano l’esistenza di grandi oscillazioni interpretative nei tribunali italiani in ordine a tali profili.

Lo si vede quando il giudice è chiamato a valutare la congruità dell’offerta (declinata come offerta reale in linea con il Codice di procedura civile) nell’ambito delle condotte riparatorie (cfr. art. 162 ter c.p.). E lo si vede banalmente dinanzi al giudice di pace (art. 35 D.lgs. 274/2000)[10].

Entrando nel vivo della questione: non è agevole capire come considerare soddisfatta la pretesa risarcitoria della persona offesa, se non si ha contezza certa di cosa si intenda per danno e profitto.

Ed invero le due predette nozioni sono state recentemente oggetto di interpretazioni concettualmente estensive da parte della Suprema Corte.

Si noti, infatti, che la Cassazione ha recentemente esteso il concetto di danno, facendo rientrare nella medesima nozione anche forme di nocumento potenziale assimilabili alla civilistica “perdita di chance”.

In effetti, la Corte ha recentemente statuito che “rientra nella nozione di danno di cui all’art. 629 cod. pen. anche la perdita della seria e consistente possibilità di conseguire un risultato utile di cui sia provata la sussistenza sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale” (Cassazione Penale, Sezioni Unite, ud. 28 marzo 2024, informazione provvisoria n. 6)[11].

Ed anche in ordine alla nozione di profitto (istituto intimamente connesso con il concetto di danno) la Cassazione sembra aver adottato una linea interpretativa volta all’assimilazione del predetto istituto a quello del “vantaggio”.

Con la sentenza n. 41570 – depositata il 12 ottobre 2023 – le Sezioni Unite hanno affermato il seguente principio di diritto: “il fine di profitto del reato di furto, caratterizzante il dolo specifico dello stesso, può consistere anche in un fine di natura non patrimoniale”.

Emerge pertanto una moderna visione del concetto di profitto, cha appare slegata dalla consistenza patrimoniale dello stesso, pur vertendosi (evidentemente) in un contesto normativo – quello dei delitti contro il patrimonio – che apparentemente sembrerebbe mal collimare con tale impostazione. Il concetto di profitto sembra così sovrapporsi a quello di “vantaggio”.

Il rischio di tale impostazione interpretativa, in effetti, sembrerebbe quello di allargare eccessivamente i confini applicativi del furto e, forse, di tanti altri delitti contro il “patrimonio”. Nel contempo, non si può negare che altro è parlare del dolo di profitto (da intendersi come elemento che involge il profilo della colpevolezza), altro è menzionare gli elementi materiali del reato[12].

A prescindere dalle potenziali critiche, o dagli eventuali dubbi che si potrebbero astrattamente esprimere sulla pronuncia delle Sezioni Unite (per i quali si rimanda, ovviamente, ad altra sede), ciò che rileva – ai fini della presente analisi – è che il risarcimento del danno diventa centrale nel processo attuale, ma danno e profitto non si possono più leggere in chiave squisitamente patrimoniale.

Chiaro è, da un lato, che il danno risarcibile debba potersi ritenere come minimo equivalente al profitto patrimoniale – tangibile ed immediatamente quantificabile – che discende da una condotta illecita. Ma nel risarcimento del danno arrecato alla persona offesa non è sempre chiaro se ed in che termini si debbano far rientrare le componenti non immediatamente tangibili e quantificabili del danno (danno non patrimoniale, danno biologico, danno morale e diverse declinazioni civilistiche dei medesimi fenomeni).

Altro tema onestamente mai del tutto chiarito è se ed in che termini nel risarcimento del danno si debbano includere le spese legali già sostenute dalla persona offesa e se sì, in che misura tale ristoro si debba considerare congruo.

Da un lato verrebbe spontaneo sostenere che, se la parte civile nelle sue conclusioni può inserire una “nota spese”, non si comprende per quale motivo il querelante o la persona offesa che non abbia formalizzato la costituzione di parte civile per il buon esito delle condotte riparatorie, non debba poter sollevare le medesime pretese. D’altro lato, lo si è riscontrato nelle aule dei Tribunali e, recentemente, in un incontro tenutosi nell’ambito del Corso di Formazione Tecnica e Deontologia dell’Avvocato Penalista della Camera Penale di Roma (del 18.4.2024) non si riscontrano quasi mai risposte nette, univoche e certe da parte delle Procure e dei Giudici in ordine a tali profili.

Considerata la nuova centralità del danno, del profitto e della riparazione come strumento che può anche neutralizzare gli effetti di una querela già sporta, sarebbe auspicabile che anche gli avvocati penalisti, che devono sentirsi protagonisti a pieno titolo delle più sane interpretazioni delle nuove disposizioni (e delle vecchie disposizioni che comunque hanno elementi di comunanza con i nuovi istituti), iniziassero a promuovere la redazione di linee guida o protocolli condivisi, che possano essere d’ausilio nella commisurazione esatta del danno, in maniera uniforme nella varie aule di giustizia dei Tribunali penali d’Italia.

Ad ogni modo, come si dirà nel seguente paragrafo, riflessioni similari – in ordine all’esatta composizione e all’esatta quantificazione del risarcimento patrimoniale correlato al reato – riguardano la persona offesa che intenda costituirsi parte civile.

La nuova formulazione dell’atto di costituzione della parte civile.

La Riforma in esame ha inciso anche sui criteri redazionali dell’atto di costituzione di parte civile. Infatti l’articolo 78, comma 1, lett. d) prima che intervenisse la Riforma Cartabia richiedeva, ai fini dell’ammissibilità della costituzione di parte civile, una “esposizione delle ragioni che giustificano la domanda”. Non vi era alcun parametro espresso che equiparasse la struttura dell’atto di costituzione di parte civile all’atto di citazione nel giudizio civile.

L’articolo 78, comma 1, lett. d) è stato rimodulato: oggi viene menzionata “l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda agli effetti civili.

Viene quindi richiesto – ai fini della declaratoria di ammissibilità della costituzione di parte civile – un quid pluris rispetto alla precedente architettura dell’atto. 

Secondo una corrente interpretativa, che muove da certa lettura della Relazione Illustrativa alla Riforma, la novella in esame sembrerebbe introdurre un nuovo “onere” per il danneggiato. Infatti, sembrerebbe che sia stato posto a carico di quest’ultimo l’obbligo “di una maggiore puntualità e precisione nella formulazione delle domande restitutorie e risarcitorie e della chiara argomentazione in ordine al loro fondamento in termini civilistici. Di talché, è conseguenziale ritenere che tale domanda debba essere posta come autosufficiente e completa anche al fine dell’eventuale spostamento in sede civile[13].

Su tali aspetti sono intervenute le Sezioni Unite che hanno sostanzialmente stabilito una piena equiparazione dell’atto di costituzione di parte civile all’atto di citazione nel giudizio civile, così come previsto e disciplinato dall’articolo 163 c.p.c.

In estrema sintesi, è ragionevole ipotizzare che, a seguito della Riforma, la domanda deve evidenziare in modo congruo ed argomentato i motivi per i quali si sostiene che dal reato sia disceso un danno a carico della vittima, precisando altresì in cosa sia consistito tale nocumento; tale argomentazione si ritiene che in precedenza non fosse richiesta, potendosi semplicemente affermare (nell’atto di costituzione) che dal reato contestato fosse ex se derivato un nocumento, richiamando – di fatto – il principio statuito dall’art. 185, comma II c.p., secondo il quale “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”[14].

L’esatta quantificazione del danno (e quindi del risarcimento), sarà comunque formulabile nel corso del dibattimento; ciò appare ragionevole e, in un certo senso, inevitabile, posto che, in alternativa, bisognerebbe ammettere che si possano allegare all’atto di costituzione di parte civile talune prove che invece devono ovviamente essere acquisite nel contraddittorio delle parti (si pensi ad esempio all’escussione del consulente tecnico della parte civile e all’acquisizione dell’elaborato a sua firma; sarebbe opinabile ammettere la materiale allegazione dell’elaborato all’atto summenzionato).

Sarà interessante osservare come nei prossimi anni la giurisprudenza di legittimità affronterà l’interpretazione esatta dei connotati essenziali del “nuovo” atto di costituzione di parte civile e vedere se la Cassazione pretenderà indicazioni più precise e circoscritte sulla ricostruzione delle componenti del danno derivante da reato e su eventuali cenni ai criteri di quantificazione che saranno poi sviluppati – in termini istruttori – nel corso del dibattimento.

Certo è che – sin da ora – si può ipotizzare con ragionevole certezza che l’atto di costituzione di parte civile possa rappresentare un parametro per comprendere almeno in linea orientativa a quanto debba ammontare l’eventuale risarcimento del danno, utile – per esempio – ai fini della possibile applicazione dell’art. 131 bis c.p. (valorizzando le condotte successive al reato) o dell’art. 162 ter c.p.: in particolare, ove la costituzione di parte civile sia intervenuta fuori udienza, la medesima rappresenterà senza dubbio un parametro utile (nella parte in cui ipotizza un quantum risarcitorio almeno di massima) per l’esatta quantificazione del risarcimento del danno “congruo” rispetto alle condotte riparatorie[15].

L’udienza predibattimentale.

Sede naturale dell’instaurazione di meccanismi di risoluzione alternativa (e predibattimentale) della controversia, o inutile duplicato dell’udienza preliminare? Conclusioni.

Come anticipato nelle premesse, un ultimo spazio “di riflessione” va dedicato all’udienza predibattimentale, introdotta dalla Riforma e disciplinata agli artt. 554 bis c.p.p.

Tale istituto di nuovo conio potrebbe apparire astrattamente utile a fini deflattivi, esprimendo una funzione di filtro, in parte assimilabile a quella dell’udienza preliminare[16].

L’introduzione di questa nuova udienza (che di fatto rappresenta un’alternativa all’udienza preliminare, per i procedimenti che in passato rientravano nella citazione diretta a giudizio) sembrerebbe appunto   funzionale ad evitare di incorrere nel dibattimento, ove non si possa ritenere “ragionevole” che l’imputato verrà condannato all’esito dell’istruttoria (ricordiamo che, come sottolineato in premessa, uno degli obiettivi dichiarati della Riforma è una consistente riduzione del numero dei procedimenti pendenti entro il 2026).

Sono diversi gli esiti a cui si può addivenire con la predetta udienza, sempre muovendo dal filtro della ragionevole previsione di una condanna, in chiave prognostica, che il giudice monocratico deve elaborare, sulla base degli atti delle indagini che, ai sensi dell’art. 553 c.p.p., il pubblico ministero gli deve trasmettere[17].

Nel presente contributo si è tentato di fornire uno stimolo riflessivo in merito al ruolo della persona offesa e dei meccanismi di ristoro del danno, nella “nuova” ottica promossa dalla Riforma.

In quest’ultimo paragrafo si può provare a creare un “collegamento” tra il potenziamento degli istituti direttamente ed indirettamente riconducibili alla c.d. restorative justice e i possibili sviluppi pratici dell’udienza predibattimentale (o meglio: gli sviluppi pratici che derivano dalla sua fissazione).

Nonostante gli innumerevoli scetticismi espressi nelle più disparate sedi[18], si può tentare di esprimere una visione non del tutto pessimistica sulla “nuova udienza”, magari proprio muovendo dal ruolo che risarcimento del danno, condotte riparatorie e nuovi criteri di applicazione dell’art. 131 bis c.p. possono assumere nell’udienza predibattimentale.

In primo luogo, l’udienza in esame potrebbe rappresentare la sede naturale per vagliare, da subito, anche in un’ottica deflattiva, la possibile applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto: lo scrivente è stato già “testimone” in qualità di difensore, di udienze predibattimentali in cui, dalla lettura degli atti della fase investigativa, si evinceva in modo pacifico che il fatto fosse stato commesso (la responsabilità nel merito appariva difficilmente controvertibile), ma i criteri di cui all’art. 133 c.p. e tutti quelli richiamati nel nuovo art. 131 bis c.p. consentivano di asserire in modo netto che il fatto fosse estremamente tenue e, concretamente, non “meritasse” un lungo (e sostanzialmente inutile) vaglio dibattimentale.

In secondo luogo, tale parentesi “preliminare” dovrebbe stimolare in modo più netto una riflessione in ordine alla possibilità di proporre un risarcimento del danno, magari nelle forme dell’offerta reale, che potrebbe condurre all’estinzione del reato ex art. 162 ter c.p. senza dover affrontare tempi, costi e “rischi” del giudizio dibattimentale: le condotte riparatorie sono tuttora esperibili “entro il termine massimo di apertura del dibattimento di primo grado”; pertanto, l’udienza predibattimentale può costituire una sorta di parentesi riflessiva ulteriore anche in merito a tali profili.

In terzo luogo – e questo forse è più che altro un auspicio – l’udienza predibattimentale dovrebbe rappresentare la sede naturale di esperimento dei tentativi conciliativi che nella fase delle indagini non sono stati spesi.

Senza addivenire addirittura alle estremizzazioni del concetto di tentativo di conciliazione a cui si assiste, talvolta, nelle aule del giudice di pace, si potrebbe iniziare a pensare ad un’udienza in cui (ove la persona offesa, seppur non obbligata, si presenti) il giudice stesso inviti le parti a riflettere sulla possibile remissione della querela.

Orbene, chi scrive non è minimamente affascinato da una visione “negoziale” del giudizio penale. Siamo tutti fisiologicamente allergici all’idea che il procedimento si possa affrontare nell’ottica di “risolvere pagando”, rinunciando di fatto alle più nobili e molteplici istanze difensive, alle eccezioni processuali e alle tesi sostanziali, che affascinano tutti gli operatori forensi che si avvicinano al diritto penale, soprattutto dall’angolo visuale del difensore.

Occorre però ammettere che, anche e non solo per ragioni vilmente economiche, oltreché per i patemi che possono derivare dall’affrontare un’istruttoria a carico, sostenere un procedimento (il dibattimento di primo grado, come noto, può durare mesi, se non anni) può rivelarsi, nell’ottica dell’imputato, assolutamente inutile, se non controproducente. Talvolta, per esempio, può apparire più sensato promuovere una condotta risarcitoria che agevoli la remissione della querela.

Chiunque abbia un minimo di frequentazione delle aule monocratiche delle sezioni penali dei tribunali non può negare in assoluto questo assunto.

In un’ottica ottimistica e, in un certo senso, propositiva, si potrebbe pertanto ipotizzare – ma chi scrive lo afferma con l’umiltà di chi vuole solo stimolare una riflessione in tal senso – che tutti i meccanismi di riparazione del danno, che soddisfino la persona offesa e possano determinare l’estinzione del reato (o la non punibilità per particolare tenuità del fatto) vengano promossi e valorizzati all’interno della fase processuale che inizia con la citazione a comparire all’udienza predibattimentale.

In conclusione, all’esito di tutte le riflessioni schematicamente proposte all’interno del presente contributo, appare ragionevole iniziare a prendere atto di una nuova centralità della persona offesa e dei meccanismi di ristoro del danno che la stessa ha patito a seguito della commissione del reato. Tale nuova collocazione della persona offesa, che – anche in ragione dell’estensione del novero dei reati procedibili a querela – appare sempre più “protagonista” nell’instaurazione del procedimento, deve necessariamente far riflettere su un possibile mutamento dei paradigmi culturali che determinano la formulazione delle strategie difensive e delle opzioni che l’avvocato ha il dovere di esporre al proprio assistito.

D’altronde tale graduale mutamento di impostazione sembrerebbe il fisiologico effetto di una necessità che l’ordinamento si sta auto imponendo: trovare urgentemente meccanismi deflattivi di risoluzione e definizione procedimentale, che consentano di alleggerire il carico istruttorio derivante dall’instaurazione del giudizio dibattimentale, bilanciando le esigenze di ricomposizione del conflitto tra “vittima e reo” con le primarie garanzie difensive dell’imputato.

Sarà soprattutto con il passare del tempo che potranno essere fornite risposte certe in ordine agli effetti pratici di tali nuovi paradigmi e dei suindicati nuovi istituti, ma tutti gli operatori del diritto (avvocati penalisti in primis), oltre a lamentarsi nostalgicamente dei più antichi istituti processuali e delle più tradizionali interpretazioni, potrebbero da subito sentirsi protagonisti di una nuova fase, in cui è richiesto il contributo interpretativo di tutti nell’esatta delineazione dei nuovi istituti, ricordandosi sempre che la deflazione dei carichi giudiziali è un obiettivo sociale, ancor prima che istituzionale, al quale non si può far fronte esclusivamente invocando le arcinote carenze di organico che connotano gli uffici giudiziari.

[1] Cfr. D.lgs. 31 del 19 marzo 2024; si veda, su tale intervento normativo, la relazione del Massimario, consultabile altresì in www.giurisprudenzapenale.it (https://www.giurisprudenzapenale.com/2024/04/22/correttivi-alla-riforma-cartabia-la-relazione-del-massimario-sul-decreto-legislativo-19-marzo-2024-n-31/)

[2] Cfr. sul punto G.L. Gatta, L’estensione del regime di procedibilità a querela nella riforma Cartabia e la disciplina transitoria dopo la L. 199/2022, in www.sistemapenale.it, 2.1.2023

[3] Si veda, a riguardo, S. Occhipinti, Riforma penale: chiarimenti della Cassazione sui reati che diventano procedibili a querela. La relazione dell’Ufficio del Massimario spiega le regole di diritto transitorio ed i principi giurisprudenziali, in www.altalex.com, 23.11.2022

(https://www.altalex.com/documents/news/2022/11/23/riforma-penale-chiarimenti-cassazione-reati-diventano-procedibili-querela)

[4] La Corte ha statuito il principio secondo il quale la volontà punitiva della persona offesa può essere desunta legittimamente anche da atti che non contengono la sua esplicita manifestazione.

[5] Cfr. A. Larussa, La revoca della costituzione di parte civile non implica la remissione tacita della querela. Non comportano il venir meno dell’istanza punitiva comportamenti meramente omissivi che possono dipendere da cause indipendenti dalla volontà dell’offeso o da cause contingenti, 3.4.2024 in www.altalex.com

(https://www.altalex.com/documents/news/2024/04/03/revoca-costituzione-parte-civile-non-implica-remissione-tacita-querela)

[6] Cfr. F. Lombardi, Nuova procedibilità a querela dopo la riforma “Cartabia” e rilievo della querela tardiva, in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 1; la Corte, nella sentenza predetta, parla esplicitamente di favor querelae, nei casi in cui sorgano dei dubbi o delle ambiguità sull’effettiva espressione della volontà punitiva espressa dalla persona offesa (la Cassazione, in tal senso, richiama precedenti orientamenti, ex multis Cass. 2020 n. 277801).

[7] Sul punto si veda F. Cingari, La giustizia riparativa nella Riforma Cartabia, 24.11.2023, in www.sistemapenale.it (https://www.sistemapenale.it/it/articolo/cingari-la-giustizia-riparativa-nella-riforma-cartabia)

Si veda altresì, per uno sguardo d’insieme M. Bortolato, La riforma Cartabia, la disciplina organica della giustizia riparativa. Un primo sguardo al nuovo decreto legislativo, 10.12.2022, in www.questionegiustizia.it

(https://www.questionegiustizia.it/articolo/giustizia-riparativa-cartabia)

[8] La giustizia riparativa, in senso astratto, sembrerebbe rimodulare i ruoli all’interno del giudizio penale, rischiando forse di attribuire un ruolo financo troppo importante alla vittima del reato e rischiando di scalfire i principi della presunzione di innocenza, dato che l’indagato dovrebbe sostanzialmente intraprendere un percorso il cui presupposto potrebbe essere scambiato per una sorta di ammissione di responsabilità, con tutte le conseguenze probatorie che ne potrebbero derivare (Cfr. O. Mazza, I protagonisti del processo, in Procedura Penale, VIII Ed., Giappichelli, Torino, 2023, p. 74). A modesto parere di chi scrive, però, il senso pragmatico di tali istituti può essere interpretato in chiave diversa: consentire di ricomporre il conflitto sociale e la “crisi” intervenuta tra reo e vittima prima di intraprendere l’iter dibattimentale (o in costanza del processo), in modo da ottenere benefici sostanziali e processuali (anche di natura estintiva in certi casi), che potrebbero consentire al “colpevole” di ottenere il massimo risultato processuale, con il minimo sforzo istruttorio e riconoscendo ristoro a chi ha subito nocumento dalla condotta. Saranno poi l’avvocato e il mediatore penale a svolgere un ruolo fondamentale nel saper orientare le scelte dell’indagato/imputato e della persona offesa.

[9] Secondo il novellato primo comma dell’art. 131 bis c.p. “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”.

[10] Sul punto si veda Redazionale, Estinzione del reato per condotte riparatorie nel procedimento davanti al giudice di pace, 29.4.2020, www.ntplusdiritto.ilsole24ore.com (https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/estinzione-reato-condotte-riparatorie-procedimento-al-giudice-pace-ADfwDRN).

[11] Sul punto si veda Redazionale, Allontanamento degli offerenti da una gara con violenza o minaccia: l’informazione provvisoria delle Sezioni Unite, 2.4.2024 www.giurisprudenzapenaleweb.it

(https://www.giurisprudenzapenale.com/2024/04/02/allontanamento-degli-offerenti-da-una-gara-con-violenza-o-minaccia-linformazione-provvisoria-delle-sezioni-unite/).

Si veda altresì, Danno da perdita di chance: le Sezioni Unite si pronunciano sul reato di turbata libertà degli incanti e sui problematici rapporti con il delitto di estorsione (informazione provvisoria), 3.4.2024, www.sistemapenale.it e A. Larussa, Turbativa d’asta, estorsione e danno patrimoniale: parola alle Sezioni Unite, 14.11.2023, www.altalex.com; (https://www.altalex.com/documents/news/2023/11/14/turbativa-asta-estorsione-danno-patrimoniale-parola-alle-sezioni-unite).

[12] Cfr. sul punto M. Nicolini, Le Sezioni Unite sul dolo specifico nel delitto di furto: esso può avere anche natura non patrimoniale, 10.1.2024, in www.sistemapenale.it (https://www.sistemapenale.it/it/scheda/nicolini-le-sezioni-unite-sul-dolo-specifico-di-profitto-nel-furto-esso-puo-avere-anche-natura-non-patrimoniale).

Sul punto si veda altresì M. Bianchi, Sei distinzioni sul profitto nel furto, in www.sistemapenale.it, 28.2.2023 e A. Aceto, SS.UU: il dolo specifico del reato di furto può consistere anche in un vantaggio non patrimoniale, 17.10.2023, in www.altalex.com, (https://www.altalex.com/documents/2023/10/17/ss-uu-dolo-specifico-reato-furto-consistere-vantaggio-non-patrimoniale); in quest’ultimo contributo vengono riportati in modo molto esaustivo, ancorché schematico, i precedenti orientamenti che hanno determinato il contrasto.

[13] Si veda sul punto F. Cagnola e G. Papa, I requisiti dell’atto di costituzione di parte civile a seguito della riforma Cartabia: l’atto di citazione fa il suo ingresso nel processo penale, 31.10.2023, in www.sistemapenale.it. Nel contributo gli Autori ripercorrono in modo esaustivo gli orientamenti interpretativi concernenti la novella e i suoi contenuti essenziali, prima dell’intervento delle Sezioni Unite, con la sentenza del 25 maggio 2023 (dep. 21 settembre 2023), n. 38481, Pres. Cassano, rel. Andreazza.

[14] Si veda sul punto A. Zampaglione, Alcune rilevanti innovazioni del D.lgs. n. 150 del 2022 sull’imputato, sulla parte civile e sulla persona offesa, 14.2.2024, in www.penaledp.it

(https://www.penaledp.it/innovazioni-del-d-lgs-n-150-sull-imputato-sulla-parte-civile-e-sulla-persona-offesa/#_ftn27)

[15] Lo scrivente ha potuto osservare direttamente l’applicazione di tale principio in sede di merito negli ultimi mesi.

[16] Su differenze e similitudini tra l’udienza di comparizione predibattimentale e l’udienza preliminare si osservi quanto evidenziato da A. Marandola, Prime questioni in tema di udienza predibattimentale, 22.12.2023, www.penaledp.it, (https://www.penaledp.it/prime-questioni-in-tema-di-udienza-predibattimentale/)

[17] Cfr. G Della Monica, Il filtro della ragionevole previsione di condanna, in www.archiviopenale.it, 2/2023

(https://archiviopenale.it/File/DownloadArticolo?codice=fedc3ff5-7dd9-4d39-890f-6d08415498ce&idarticolo=40553)

[18] Si veda sul punto il parere di M. Canepa,  Brevi riflessioni critiche alla “udienza di comparazione predibattimentale” a seguito di citazione diretta, in particolare, sulla separazione delle funzioni”, 9.12.2022, www.dirittodidifesa.eu, secondo il quale “è verosimile che l’udienza predibattimentale sconterà gli stessi difetti dell’udienza preliminare e, lungi dal raggiungere gli obbiettivi di deflazione sperati, si risolverà in un ulteriore allungamento dei tempi processuali, nella perdita di quella immediatezza del giudizio che si voleva realizzare con il processo a citazione diretta, nella diminuzione dell’accesso a riti alternativi, nelle creazione di problemi pratici di rilievo quale il moltiplicarsi di situazioni di incompatibilità”.

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