La responsabilità per rovina di edificio (art. 2053 c.c.)
di Mirko Faccioli, Avvocato e Professore associato di diritto privato Scarica in PDFCassazione civile, sez. III, 11 dicembre 2023, n. 34401 – Pres. Scrima, Rel. Graziosi
Parole chiave:
Responsabilità civile – Proprietario di edifici – Rovina di edificio – Responsabilità – Rapporti con la responsabilità per danno da cose in custodia – Natura oggettiva – Sussistenza – Prova liberatoria – Contenuto – Fattispecie.
“La responsabilità per rovina di edificio ex art. 2053 c.c. – il cui carattere di specialità rispetto a quella ex art. 2051 c.c. deriva dall’essere posta a carico del proprietario o di altro titolare di diritto reale di godimento in base al criterio formale del titolo, non essendo sufficiente ad integrarla il mero potere d’uso della res – ha natura oggettiva e può essere esclusa solo dalla dimostrazione che i danni provocati dalla rovina non sono riconducibili a vizi di costruzione o a difetto di manutenzione, bensì ad un fatto dotato di efficacia causale autonoma, comprensivo del fatto del terzo o del danneggiato, ancorché non imprevedibile ed inevitabile”. (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia della Corte territoriale che, in relazione ai danni provocati ad un capannone da un incendio, aveva escluso la responsabilità della società proprietaria dell’immobile confinante, già concesso in locazione finanziaria ad altro soggetto, in cui si era sviluppato l’evento incendiario, considerato alla stregua di caso fortuito).
Disposizioni applicate:
Art. 2051 c.c., art. 2053 c.c.
CASO
Tizio, proprietario di un capannone distrutto dall’incendio propagatosi da un capannone confinante, cita in giudizio Caio e Sempronio, rispettivamente proprietario e utilizzatore sulla scorta di un contratto di locazione finanziaria dell’immobile dal quale è scaturito il danno.
La domanda viene rigettata dai giudici di merito con riferimento agli artt. 2051 e 2053 c.c.
Tizio propone allora ricorso per cassazione osservando di avere prospettato la responsabilità solidale ex art. 2051 c.c. dei convenuti in qualità di proprietario e conduttore. Considerata la giurisprudenza di legittimità richiamata dalla corte territoriale, per la quale l’art. 2051 c.c. riguarderebbe unicamente la responsabilità da stato di fatto/relazione materiale – e non solo giuridica – sul bene, il ricorrente deduce che proprio per l’assenza di responsabilità evincibile da tali arresti, rappresentata dalla indisponibilità del bene, la corte territoriale avrebbe dovuto diversamente applicare l’art. 2053 c.c.
Ad avviso di Tizio, detta norma prevede infatti la responsabilità oggettiva del proprietario, con prova liberatoria sostanzialmente coincidente con caso fortuito o forza maggiore. La corte di merito, sempre ad avviso del ricorrente, sarebbe invece giunta a negare la responsabilità di cui all’art. 2053 c.c. sul presupposto che questo preveda una ipotesi speciale rispetto alla generale figura dell’art. 2051 c.c.: e a ciò Tizio oppone che sussisterebbe sì la specialità, ma derivante dal criterio formale del titolo, non essendo sufficiente il potere di uso sulla cosa generante il danno. Ne deduce il ricorrente che il potere di uso sulla cosa non ricorrerebbe finché sussista la responsabilità del proprietario, in quanto il proprietario, come tale, rivestirebbe anche la posizione di custode.
Osserva ulteriormente Tizio che la giurisprudenza avrebbe riconosciuto ciò per il contratto di locazione; non si rinvengono arresti giurisprudenziali in tal senso per il leasing, ma quest’ultimo sarebbe comunque assimilabile alla locazione.
Da ultimo, l’art. 2053 c.c. prevede la responsabilità del proprietario non solo nel caso in cui i difetti strutturali del suo immobile generino direttamente e unitariamente la rovina, ma anche nel caso in cui l’abbiano concausata o ne abbiano aggravato il danno. La corte territoriale avrebbe escluso la responsabilità ex art. 2053 c.c. per essere l’incendio un “elemento diverso dagli elementi strutturali della costruzione”, da questo deducendo la superfluità dell’esame degli argomenti presentati nell’appello in ordine alle gravi anomalie strutturali del capannone. Anche sotto questo profilo il giudice d’appello sarebbe incorso in errore nell’interpretare l’art. 2053 c.c., in quanto erroneo sarebbe, appunto, “negare in modo aprioristico […] l’esistenza di un nesso causale fra l’incendio e lo stato precedente dell’immobile”, nesso che avrebbe invece potuto concausare o almeno aggravare le conseguenze dell’incendio, come sostenuto da Tizio; e la stessa corte territoriale avrebbe rilevato che il CTU aveva riscontrato pericolosa la copertura del capannone anteriore all’incendio.
SOLUZIONE
Al fine di risolvere la questione sottoposta alla sua attenzione, la Suprema Corte osserva innanzitutto come il potere di fatto, quale fonte dell’obbligo di custodia, sia in effetti sufficiente per la fattispecie di cui all’art. 2051 c.c.: esso, appunto, crea l’obbligo e quindi la responsabilità nell’ipotesi del suo inadempimento. Secondo gli ermellini, il paradigma dell’art. 2053 c.c., a ben guardare, non è propriamente una species dell’art. 2051 c.c. quale genus, perché nell’art. 2053 c.c. l’obbligo di custodia deriva dal titolo di proprietà, disegnando un istituto di responsabilità assai più specifico (perché automatico) di quello dell’art. 2051 c.c., che prevede la responsabilità per “ciascuno” che abbia “in custodia” la cosa. Piuttosto che prospettare un rapporto “gerarchico” genus-species è maggiormente corretto, allora, ravvisare tra gli artt. 2051 e 2053 c.c. una interserzione strutturale, avente ad oggetto appunto la custodia. La custodia, tuttavia, nell’art. 2051 c.c. deriva da un’effettiva e concreta posizione di potere, mentre nell’art. 2053 c.c. deriva solo da un titolo di diritto, la proprietà. Per adeguare peraltro la responsabilità a quel che (prima ancora che giuridicamente, logicamente) costituisce il valutabile caso specifico, così che non sia oggettiva al punto da far gravare sul proprietario ogni evento di danno correlato in qualunque modo e misura al bene, la norma indica un limite tutelante, che subito porta ad approssimare l’elemento sostanziale con uno strumento difensivo, e quindi tendenzialmente processuale: “salvo che provi” il proprietario che la rovina “non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione”.
Proprio per questo intreccio dei due paradigmi e dunque per non errare nella individuazione del rapporto sistemico con l’art. 2051 c.c., occorre identificare correttamente, appunto, il limite della responsabilità ex art. 2053 c.c. Responsabilità palesemente oggettiva, perché discendente in via diretta dalla titolarità del diritto reale sul bene; e il limite è collocato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (così convalidando le radici della responsabilità come sussistenti nella titolarità del diritto in sé) proprio sul piano della presunzione legale, avvalendosene per concretizzare le modalità – e anche lo “spazio” – della prova liberatoria.
In conclusione, secondo la Cassazione in commento, qualunque via interpretativa percorra il ragionamento, in ultima analisi – o la qualificazione presuntiva di una globale responsabilità derivante dal diritto di proprietà, o anche la identificazione diretta del confine di una responsabilità realmente sussistente e quindi non soltanto legalmente presunta –, permane con evidenza la validità in iure del risultato, da entrambe le vie raggiungibile, del difetto di responsabilità del convenuto quale proprietario del capannone coinvolto nell’incendio, la Corte territoriale avendo previamente accertato in facto la sussistenza dell’elemento diretto a infrangere la presunzione legale di responsabilità o che comunque oltrepassa il perimetro di responsabilità come delineato dall’art. 2053 c.c. (“il danno provocato direttamente dall’incendio, elemento diverso dagli elementi strutturali della costruzione”).
Pertanto, il ricorso per cassazione viene respinto, avendo il giudice d’appello dedotto in modo corretto dall’accertamento fattuale l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 2053 c.c.
QUESTIONI
Disponendo che il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, a meno che non provi che questa non è dovuta a carenza di manutenzione o a vizio di costruzione, l’art. 2053 c.c. delinea una disciplina che si pone in evidente rapporto di specialità con quella contenuta nell’art. 2051 c.c., il quale si occupa, più genericamente, di stabilire che «ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito». Il configurarsi dei presupposti delineati nell’art. 2053 c.c. impedisce pertanto l’applicazione dell’art. 2051 c.c. in capo al proprietario e il conseguente concretizzarsi della responsabilità del custode, salvo che quest’ultimo non sia soggetto diverso dal proprietario stesso e abbia fattivamente contribuito alla determinazione della rovina dell’edificio: in questa ipotesi, infatti, entrambi saranno responsabili in solido nei confronti del terzo danneggiato ai sensi dell’art. 2055 c.c.
Rispetto a tali profili, desta ben più controverse questioni il problema dell’individuazione della natura della responsabilità prevista nell’art. 2053 c.c. La dottrina maggioritaria ritiene che la norma contempli una forma di responsabilità oggettiva del proprietario, dalla legge considerato responsabile per i danni cagionati dal crollo del proprio immobile a prescindere dalla circostanza che egli abbia, o meno, diligentemente verificato e/o fatto in modo che l’edificio venisse realizzato a regola d’arte e risultasse quindi privo di difetti di costruzione, così come dal fatto che egli si sia, o meno, diligentemente occupato della manutenzione e della conservazione del medesimo. Secondo un minoritario, ma autorevole orientamento la responsabilità in parola sarebbe, però, una forma di responsabilità oggettiva – nel senso che si è appena sopra esposto – soltanto con riguardo ai danni derivanti da vizio di costruzione dell’immobile, mentre relativamente ai danni conseguenti a difetto di manutenzione si dovrebbe più propriamente parlare di una responsabilità «aggravata» per colpa presunta, in quanto l’art. 2053 c.c. porrebbe a carico del proprietario la presunzione che la rovina dell’edificio sia stata causata da una carente manutenzione e conservazione dello stesso; e in tempi piuttosto lontani non era, infine, mancato chi riteneva di poter ravvisare un fondamento colposo in tutte le ipotesi di responsabilità coperte dalla norma in esame.
Analoghe incertezze si riscontrano poi nella giurisprudenza, essendo possibile rinvenire tanto pronunce che inquadrano la responsabilità ex art. 2053 c.c. nell’ambito della responsabilità oggettiva, quanto sentenze che preferiscono parlare di responsabilità a titolo di colpa presunta o, più sinteticamente, di «responsabilità legale presunta» del proprietario di edificio.
Ad ogni modo, l’importanza del dibattito risulta fortemente ridimensionata una volta che sia stata fatta chiarezza su due punti fondamentali: a) il danneggiato che agisce invocando l’art. 2053 c.c. non è tenuto a provare che il proprietario dell’edificio è responsabile per negligenza nella costruzione e/o nella manutenzione dell’immobile, ma soltanto che la rovina di quest’ultimo gli ha cagionato un danno; b) a quel punto, si tratta di intendersi su quale sia il contenuto della prova liberatoria attraverso la quale il proprietario può dimostrare che la rovina dell’edificio «non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di costruzione» e rimanere, in tal modo, esente da responsabilità.
Orbene, tale prova liberatoria non ha niente a che vedere con la diligenza del proprietario stesso, nel senso che egli non potrebbe andare esente da responsabilità dimostrando di avere diligentemente verificato e/o fatto in modo che l’edificio venisse realizzato a regola d’arte e risultasse quindi privo di difetti di costruzione, oppure che egli si è diligentemente occupato della manutenzione e della conservazione dell’edificio medesimo. La prova liberatoria di cui all’art. 2053 c.c. si risolve invece, tanto secondo la dottrina quanto secondo la giurisprudenza, nel caso fortuito in senso ampio, comprensivo anche del fatto del terzo e del danneggiato, ovverosia nella dimostrazione che la rovina dell’edificio è stata provocata da un fattore causale autonomo ed assorbente, diverso dal difetto di manutenzione e dal vizio di costruzione e del tutto estraneo alla condotta del proprietario, sul quale finiscono per gravare, pertanto, anche le cause ignote laddove egli non riesca ad assolvere l’onere probatorio di cui sopra: come i giudici di legittimità hanno avuto modo di ribadire, infatti, «tale esimente, che in quanto comune ad ogni forma di responsabilità assume portata generale, si pone sul medesimo piano ed in rapporto di alternatività con quella speciale prevista dall’art. 2053 c.c., potendo configurarsi il caso fortuito tanto in negativo, quale assenza del difetto di costruzione o manutenzione, quanto in positivo, quale evento imprevedibile ed inevitabile, dotato di una sua propria ed esclusiva autonomia causale, come ad esempio un fenomeno che, scatenando in modo improvviso ed impetuoso le forze distruttive della natura, assuma proporzioni così immani e sconvolgenti da travolgere ogni baluardo posto a salvaguardia di uomini e cose» (così Cass. 14 ottobre 2005, n. 19974; in termini analoghi cfr. poi, tra le altre, Cass. 12 marzo 2004, n. 5127; Cass. 14 ottobre 2005, n. 19975; Cass. 30 gennaio 2009, n. 2481; Cass. 21 ottobre 2009, n. 4137; nel senso che il caso fortuito potrebbe essere costituito anche da un fatto che non presenti i caratteri della imprevedibilità ed inevitabilità v., però, Cass. 21 gennaio 2010, n. 1002). Con riguardo alla nozione di caso fortuito, inoltre, pare utile ricordare che, sempre secondo gli insegnamenti della Suprema Corte, «dovendosi ancorare il concetto di caso fortuito al criterio generale della prevedibilità con l’ordinaria diligenza del buon padre di famiglia, la quale si risolve in un giudizio di probabilità, non si può far carico al soggetto dell’obbligo di prevedere e prevenire, nell’infinita serie di accadimenti naturali o umani che possono teoricamente verificarsi, anche quegli eventi di provenienza esterna che presentino un così elevato grado di improbabilità, accidentalità o anormalità da poter essere parificati, in pratica, ai fatti imprevedibili» (Cass. 14 ottobre 2005, n. 19974).
Facendo applicazione dei principi sopra esposti, la giurisprudenza ha pertanto escluso che possa andare esente da responsabilità ex art. 2053 c.c. il proprietario che come esimente invochi, per esempio, l’incolpevole ignoranza del difetto della costruzione (Cass. 18 ottobre 1956, n. 3713; Cass. 15 luglio 1958, n. 2584; Cass. 7 luglio 1960, n. 1795), l’assoluta mancanza di sintomi premonitori della rovina (Cass. 27 aprile 1955, n. 1156; Cass. 9 agosto 1961, n. 1941), la vetustà dell’edificio (Cass. 14 ottobre 1961, n. 2157) o gli eventi bellici che ne abbiano compromesso la stabilità (Cass. 7 giugno 1954, n. 1846). Con riguardo alle condizioni meteorologiche, i giudici hanno invece offerto soluzioni piuttosto contrastanti, anche se sembrerebbe possibile affermare che, quantomeno in linea di principio, il carattere esimente viene negato al vento impetuoso e riconosciuto ai nubifragi e ai cicloni; in una significativa pronuncia, la Cassazione ha poi escluso la responsabilità del gestore di una funivia per i danni derivanti dal crollo di un edificio, adiacente alla stazione di partenza, che era stato travolto da una valanga di neve di proporzioni eccezionali, determinata dalla concomitanza di tre fattori, ciascuno dei quali di per sé insolito, quali un abnorme accumulo di neve, la bassa temperatura della stessa e la presenza di venti fortissimi (Cass. 14 ottobre 2005, n. 19974).
La casistica giurisprudenziale dimostra che la prova liberatoria viene più facilmente fornita dal proprietario invocando il fatto del danneggiato, che diviene unico fattore causale dell’evento lesivo quando, per esempio, il danneggiato medesimo passa sopra un ponticello con un pesante autocarro di ghiaia (Cass. 4 dicembre 1971, n. 3516), discende dalla propria terrazza senza usare gli opportuni accorgimenti in caso di disintegrazione dei mattoni del parapetto (Cass. 24 luglio 1953, n. 2507) o si introduce abusivamente in un rudere e rimane vittima della caduta dei gradini d’accesso dopo averli danneggiati con atti vandalici (Trib. Monza 6 ottobre 1983); parrebbe non costituire, invece, un fattore esimente della responsabilità del proprietario l’uso anomalo del bene da parte del danneggiato, come è stato deciso in una fattispecie relativa ad un giocatore di calcio che, per recuperare il pallone finito fuori dal campo, era salito sul solaio dello spogliatoio di cui era dotato l’impianto sportivo e che, in seguito al cedimento di un muretto di mattoni al quale si era appoggiato, era precipitato al suolo subendo lesioni mortali (Cass. 14 ottobre 2005, n. 19975).
Naturalmente, laddove la condotta del danneggiato non sia tale da escludere ogni profilo di responsabilità in capo al proprietario, ma abbia comunque agevolato o accelerato la rovina dell’immobile o di parte di esso, si configurerà un concorso di colpa della vittima dell’illecito con conseguente riduzione del risarcimento dovuto ai sensi dell’art. 1227 c.c. (v., tra le altre, Cass. 14 ottobre 2005, n. 19975; Cass. 10 giugno 1998, n. 5767; Cass. 21 gennaio 2010, n. 1002).
Per ulteriori approfondimenti della materia, v. Faccioli, La responsabilità civile per danni da rovina di edificio (art. 2053 c.c.), in Studium Iuris, 2017, p. 1474-1482.
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