La tutela penale della sicurezza alimentare
di Francesco Schippa, Avvocato Scarica in PDFPremessa
La necessità di preservare il settore agroalimentare, anche in sede penale: un’esigenza quanto mai “moderna”.
La tutela e la garanzia della sicurezza agroalimentare assumono oggi un significato cruciale nella più vasta scala – o comunque nel più ampio contesto – della tutela della salute pubblica.
Appare intuitivo che, rispetto al passato, oggi i consociati prestino maggior attenzione alla genuinità e alla salubrità dei prodotti agroalimentari. E questo accade per una serie variegata ed eterogenea di ragioni, tra le quali si possono probabilmente collocare le tante e note vicende legate a prodotti agricoli contaminati a causa di sversamenti di rifiuti (rilevanti, in primis, sotto il profilo dei reati ambientali, ma impattanti in concreto anche sulla tutela della salute dei consumatori).
E’ altresì ipotizzabile che una maggior sensibilità al tema della salute alimentare dei prodotti si possa registrare a seguito di una più spiccata attenzione al rischio di contrarre malattie tramite l’assunzione di alcune carni animali.
Nel Codice Penale la “tutela penale della sicurezza alimentare” si colloca prevalentemente nell’ambito dei delitti di comune pericolo mediante frode, contesto nel quale – non a caso – viene inserito anche il delitto di epidemia (art. 438 c.p.), sintomo inequivocabile della stretta connessione sussistente tra i rischi per la pubblica incolumità e le alterazioni nocive dei prodotti alimentari che l’utente può ingerire.
Il presente contributo mira a fornire un “parametro guida” nell’analisi della disciplina della tutela penale in ambito agroalimentare, cercando, senza pretese di esaustività, di esaminare tanto le questioni interpretative più controverse nella disamina dei reati di seguito richiamati, quanto le possibili implicazioni della c.d. Riforma Cartabia nella materia d’interesse, a partire dal 2023 in poi.
In estrema sintesi, le principali fonti normative che verranno esaminate si collocano all’interno del Codice Penale, nella Legge 283 del 1962 e, seppur in minima parte, nel D.lgs. 231 del 2001.
L’eterogeneità della materia consente sicuramente di favorire un incontro tra professionalità diverse. Tra di esse l’avvocato (giurista d’impresa, legal counsel, penalista o amministrativista che sia) può senza dubbio intraprendere un ruolo di primo piano.
La dimensione penale della tutela della “salubrità agroalimentare” come baluardo della più vasta tutela della salute pubblica.
Preliminarmente si rammenta che, se la protezione della genuinità e della salubrità dei beni agroalimentari assume anche una consistente dimensione penale, è perché tale settore si inserisce nel più vasto contesto della tutela della c.d. “salute pubblica”. Per fornire, almeno prima facie, lo stimolo ad un approccio pragmatico per chi affronta una materia così vasta, è opportuno innanzitutto segnalare che si ritiene possibile ridurre (in tale ambito) il concetto di salute pubblica, al più ristretto “sottoinsieme” della salute dei consumatori[1].
Se il Codice Penale (nelle fattispecie che verranno esaminate di qui a poco) evoca il concetto di salute pubblica (in senso esteso) è anche per ragioni storiche, legate al fatto che il prototipo della figura del consumatore, come una sorta di species del genus del consociato – cittadino, è stato introdotto e socialmente metabolizzato in epoca recente; ma la stessa lettura delle norme di settore (si vedranno in particolare gli articoli 439 ss c.p.) lascia agevolmente intuire che la tutela agroalimentare, nella sua dimensione penalistica, pertiene essenzialmente al consumatore finale, a differenza di quanto può accadere con riferimento ai reati ambientali (che riguardano in effetti l’intera popolazione astrattamente tangibile dall’alterazione del sistema ecologico all’interno del quale si collocano le condotte)[2].
Orbene, al netto di quanto esposto, è opportuno cercare di fornire alcuni (seppur orientativi) parametri, legati ad un approccio di natura casistica, per cercare di individuare quando, in concreto, il bene tutelato possa dirsi materialmente messo in pericolo dalle condotte descritte nei reati suindicati.
A tal fine sarà necessario fornire degli esempi tratti dalla giurisprudenza di legittimità, a partire dall’analisi ermeneutica del concetto di “pericolo concreto” nel settore analizzato.
Disciplina attuale e brevi cenni alle caratteristiche essenziali dei c.d. reati di pericolo
Per un corretto approccio ad una disamina “panoramica” della tutela penale nel settore alimentare, occorre in primis considerare che il Codice Penale prevede agli artt. 439 ss una serie di delitti caratterizzati dalla medesima struttura: una struttura che ruota attorno ai paradigmi della “tutela anticipata” e che si fonda sul concetto di “pericolo”.
L’elemento che connota in senso trasversale tali delitti è il pericolo in incertam personam, ossia il pericolo di un nocumento che potrebbe astrattamente intaccare la salute di un numero indeterminato di consociati.
Lo stesso sembrerebbe potersi affermare in relazione ai reati di cui agli artt. 5, 6, 12 della Legge 283/1962, che rappresentano ipotesi di illecito di natura contravvenzionale, sui quali si tornerà più diffusamente nel prosieguo della trattazione.
Il focus analitico del presente paragrafo sarà incentrato su cosa si intenda per “pericolo” ai fini della configurazione delle suddette fattispecie; si rammenta, in tal senso, che i reati previsti dal Codice Penale, di cui si è fatta menzione, sono comunemente identificati come reati di pericolo concreto[3].
Sul punto è importante rammentare, seppur brevemente, che i reati di pericolo si distinguono dai reati di danno in quanto ai fini della configurazione dei primi è sufficiente la mera esposizione a rischio del bene tutelato; ed è opportuno altresì ricordare che i reati di pericolo concreto sono connotati dal fatto che il pericolo rappresenta un elemento tipico espresso della norma incriminatrice, che deve essere “casisticamente” accertato e provato.
Il concetto di pericolo anima e pervade i reati correlati alla tutela dei consociati in ambito agroalimentare perché consente – in estrema sintesi – di arretrare la soglia della punibilità ad uno stadio preliminare all’effettiva lesione della salute pubblica. Secondo tale paradigma si favorisce una sorta di reazione ad effetto preventivo da parte dello Stato a fronte delle condotte tipizzate.
Ed invero, il concetto di pericolo rientra in tutte le fattispecie di seguito enunciate, consentendo all’interprete di ragionare ed analizzare se ed in che termini la condotta sottoposta alla sua attenzione valichi o meno la c.d. “soglia del pericolo”.
Breve analisi degli articoli 439 e 440 c.p.
In particolare, si osservi che il concetto di “pericolo” può dirsi “insito” nella struttura dell’art. 439 c.p. (avvelenamento di acque o sostanze alimentari): ed invero, il reato si consuma con l’avvelenamento di prodotti destinati all’alimentazione, prima ancora che gli stessi siano distribuiti[4].
Il concetto di “pericolo” è addirittura esplicitato nell’art. 440 c.p. (adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari). La norma, infatti, punisce chiunque corrompe o adultera sostanze che siano destinate all’alimentazione, prima che entrino nei circuiti delle catene distributive, “rendendole pericolose per la salute pubblica”[5].
L’art. 442 c.p. come norma di chiusura
L’art. 442 c.p. (commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate) presenta invece connotati parzialmente diversi, dalle fattispecie esaminate sino ad ora: trattasi di norma di chiusura, applicabile solo ove non si configurino i reati menzionati in precedenza. La disposizione prevede e punisce la condotta del “commerciante” (sebbene tale qualifica non vada intesa in senso tecnico o formale) che “detiene per il commercio”, o “pone in commercio”, oppure “distribuisce per il consumo” acque o ulteriori generi alimentari avvelenati, adulterati, corrotti o contraffatti da terzi, “in modo pericoloso alla salute pubblica”.
Il delitto in esame presenta delle peculiarità “critiche” sotto il profilo del concetto di “pericolo”: da un lato, ci si è spesso interrogati sul fatto che il “rischio” ingenerato dalle condotte ivi descritte vada considerato una condizione di punibilità o un presupposto stesso per la configurazione della fattispecie[6]; d’altro lato l’esatto perimetro della nozione di pericolo (o meglio di “modo pericoloso”) sembra potersi delineare senza grandi “patemi interpretativi” solo facendo ricordo all’interpretazione della Cassazione.
Invero, la Suprema Corte, nel 2017, ha specificato che la fattispecie di distribuzione di acque avvelenate o contaminate, di cui all’art. 442 c.p., ha natura di reato di pericolo concreto la cui offensività è incentrata non già sul potenziale evento pericoloso, bensì sulla generale attitudine della condotta a produrre danni per la salute pubblica (Cass. Pen. 52574/2017).
In tal modo, gli Ermellini sembrerebbero aver alzato almeno in parte la soglia della rilevanza penale delle condotte pericolose astrattamente riconducibili alla norma in esame, incentrando l’attenzione, ancora una volta, sulla concreta analisi dei rischi che potrebbero derivare dalle azioni sottese all’imputazione. Trattasi però di concetto di principio semplice da “metabolizzare” ma, a parere di chi scrive, difficile da applicare in modo uniforme ed agevole in un panorama così vasto ed eterogeneo come quello che identifica le condotte riconducibili all’art. 442 c.p.
Orbene, sin da queste prime battute ci si rende conto delle innumerevoli difficoltà interpretative che possono presentarsi in materia, financo dalla mera analisi dell’effettiva sussistenza di un concreto pericolo per la salute pubblica.
L’art. 444 c.p. e il concetto di sostanza pericolosa ex se
Anche la disposizione incriminatrice di cui all’art. 444 c.p. (commercio di sostanze alimentari nocive) presenta delle peculiarità (anche) sotto il profilo dell’analisi del concetto di pericolo.
In primis, si evidenzia che tale norma ricalca in buona parte le condotte menzionate dall’art. 442 c.p. (detiene ai fini del commercio o immette sul mercato), ma le stesse hanno ad oggetto sostanze di per sé non contraffatte o adulterate, comunque “pericolose alla salute pubblica”.
Anche in tal caso per delineare gli esatti connotati del concetto di pericolo in relazione alle condotte ivi incluse, è intervenuta la Cassazione, affermando che il reato di commercio di sostanze alimentari nocive è reato di pericolo per la cui sussistenza è necessario che gli alimenti abbiano, in concreto, una effettiva capacità di arrecare danno alla salute, che non deve essere necessariamente accertata tramite indagini peritali (Cass. Pen. 3457/2014).
Si innesta così, nell’analisi di tali reati, un argomento di grande importanza e di grande impatto pratico: se e in che termini diventa fondamentale il ricorso ad indagini di natura tecnico – peritale, per verificare se la condotta ha arrecato un “pericolo” effettivo alla salute dei consociati (sul punto si tornerà anche successivamente in modo più diffuso).
Inoltre la Suprema Corte, con la sentenza n. 1150/2011, ha delineato la “collocazione temporale” dell’insorgenza del pericolo ai fini della configurazione del reato in esame, evidenziando che l’integrazione della fattispecie criminosa di commercio di sostanze alimentari nocive richiede che le sostanze destinate all’alimentazione siano già potenzialmente e concretamente nocive al momento della vendita o della detenzione per la vendita, a nulla rilevando, invece, che lo diventino in un secondo momento per cause successive ed estranee alla volontà del reo (nella specie si trattava di carne di agnello posta in vendita nei banchi di un supermercato, debitamente confezionata con cellophane, la prova del cui ammaloramento all’atto della vendita era incerta).
Il concetto di pericolo nelle norme esaminate: brevi riflessioni a margine
Al cospetto di questo primo “accenno” quasi “a pioggia” al concetto di pericolo nell’ambito dei reati alimentari suindicati (e alle sue molteplici declinazioni ed interpretazioni) è possibile sviluppare due brevi riflessioni.
Innanzitutto, appare tangibile che il parametro del pericolo arrecabile alla pubblica incolumità va esaminato in base alle specifiche modalità della condotta e con riguardo alla fase della “catena commerciale” in cui le stesse azioni/omissioni si collocano: come intuibile la semplice “detenzione” per il commercio apparirà “pericolosa” solo ove la distribuzione nel “mercato” del prodotto detenuto (verosimilmente in un magazzino) sia una concreta prospettiva per il soggetto che possiede il bene alimentare (se il bene per assurdo è detenuto ai fini del suo mero smaltimento, il rischio per la salute pubblica potrebbe ridursi fino ad azzerarsi); mentre, almeno in apparenza, una volta che il bene è immesso nel mercato, la soglia del pericolo che determina la configurazione dei reati alimentari sembrerebbe abbassarsi (il bene avvelenato o contraffatto, potenzialmente, ove già posto in commercio, determina un pericolo più difficile da dominare).
La seconda breve riflessione che si può sviluppare a partire dalle suindicate premesse riguarda l’effettiva incidenza del pericolo sulla “salute pubblica”. Il pericolo e la sua concreta sussistenza restano il grande enigma da risolvere al cospetto di questo settore, forse per ragioni quasi fisiologiche. Come incide un determinato rischio su un settore così vasto ed eterogeneo come quello identificato con la nozione di “salute pubblica”?
Qui si avverte un certo rischio di “indeterminatezza” delle fattispecie esaminate; o comunque, in altri termini, sull’effettiva incidenza della condotta pericolosa sulla salute dei consumatori si avverte il rischio di oscillazioni interpretative consistenti.
Salvo casi eclatanti, in cui il pericolo sembra insito nel tipo di condotta esaminata, il modesto suggerimento che si potrebbe esternare al netto di quanto esposto è quello di non escludere aprioristicamente la possibilità di avvalersi di un consulente tecnico nell’esame di tali fattispecie e, in ogni caso, di considerare sempre con grande attenzione le oscillazioni giurisprudenziali aventi ad oggetto i reati di pericolo concreto tout court.
L’effettiva evenienza di un pericolo per la salute pubblica nel panorama giurisprudenziale. Ulteriori esempi di pronunce che hanno tentato di definire i connotati del pericolo in ambito agroalimentare, indicando le relative modalità di accertamento.
Alla luce di quanto esposto in premessa (in modo volutamente eterogeneo e fisiologicamente parziale), sorge spontaneo interrogarsi su quali risposte abbia concretamente fornito la Cassazione nell’esaminare termini e modi dell’accertamento del pericolo nel settore dei reati agroalimentari.
Appare pertanto necessario ripercorrere alcune ulteriori sentenze degli Ermellini, ancorché in modo estremamente sintetico, per avere dei parametri che possano almeno parzialmente chiarire il quesito (al netto delle pronunce già rapidamente menzionate nel paragrafo che precede).
In relazione all’art. 439 c.p. (avvelenamento di acque o di sostanze alimentari), per esempio, la Suprema Corte ha chiarito che – per la configurazione del pericolo e la conseguente contestabilità del reato – è necessario che “vi sia stata immissione di sostanze inquinanti di qualità ed in quantità tali da determinare il pericolo, scientificamente accertato, di effetti tossico – nocivi per la salute” (Cass. Pen. Sez. IV n. 25547/18). In tale pronuncia, la Corte valorizza, di fatto, la valutazione scientifica, peritale e casistica, della pericolosità di una sostanza, a prescindere da parametri soglia predeterminati.
Nel 2017 (cfr. Cass. Pen. Sez. I n. 54083/17) la Cassazione ha ulteriormente valorizzato l’importanza di una concreta indagine tecnica sull’effettiva pericolosità di una sostanza con riguardo ai reati ex artt. 440 c.p. (adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari) e 444 c.p. (commercio di sostanze alimentari nocive), asserendo quanto segue: nel contesto dei reati contro l’incolumità pubblica, ai fini della configurabilità dei delitti di adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari e di commercio di sostanze alimentari nocive è necessario che gli alimenti abbiano la concreta capacità di arrecare danno alla salute, che deve costituire oggetto di specifica indagine tecnica (od altro mezzo di prova).
Si delinea così la necessità tangibile di integrare i contenuti istruttori di un ipotetico giudizio penale in merito ai delitti in esame con dei contributi di natura peritale (elaborati peritali o di consulenti tecnici di parte).
Ed invero, il ruolo centrale che potrebbe essere rivestito da un perito (o di riflesso da un consulente tecnico di parte) viene reso piuttosto esplicito in una pronuncia della Sez. I Penale della Cassazione (n. 4878 del 2013), in cui si evidenzia che gli accertamenti di natura tossicologica aventi ad oggetto prodotti alimentari devono essere demandati all’opera di un perito, o dei consulenti delle parti, ai quali il giudice non dovrebbe sostituirsi[7].
Al netto di quanto esposto sarebbe naturale ritenere che il concetto di pericolo per la salute pubblica si declini in senso sostanziale come pericolo concreto e – in senso probatorio – come elemento oggetto di accertamento scientifico, senza appiattimenti che vaglino in modo acritico parametri tabellari o tassi soglia. Nonostante ciò, per completezza, ed anche al fine di dare atto di quanto la materia sia più complessa di quanto possa apparire in prima battuta, si rammenta che non sempre la Cassazione ha valorizzato il ruolo dell’accertamento scientifico in relazione all’esame della sussistenza del pericolo.
In particolare, lo si rammenta a titolo esemplificativo, la Cassazione (Sez. IV Pen. n. 3457/15), esprimendosi in merito al commercio di sostanze alimentari nocive (art. 444 c.p.) ha statuito che la configurabilità del reato passa dall’accertamento dell’effettiva capacità nociva degli alimenti distribuiti, a prescindere dal concreto espletamento di un elaborato peritale sul punto[8].
La Suprema Corte si era espressa in una direzione similare con la sentenza n. 41106 del 2004 (Cass. Pen. Sez. I). Nei predetti casi, però, le fattispecie storiche sottese alla contestazione apparivano astrattamente risolvibili ed interpretabili, quantomeno per ciò che riguardava il pericolo e la capacità lesiva dei prodotti alimentari, per delle circostanze e degli elementi sintomatici di natura eclatante[9].
Orbene, un punto di sintesi e mediazione nelle suindicate “oscillazioni” potrebbe forse incontrarsi nel fatto che, laddove la potenziale messa in pericolo del consociato (rectius della salute del consumatore) sia pacificamente evincibile da indici sintomatici talmente marcati da indurre il giudice, anche per comune esperienza, a ritenere che il bene alimentare possa arrecare un danno all’incolumità di chi lo assume, l’accertamento tecnico – peritale può essere concettualmente eluso; di contro, nei casi in cui, per tipologia di alimento e caratteristiche dello stesso non sia immediatamente percepibile una sua “alterazione” (intossicazione, corruzione, adulterazione ecc.) e non si abbiano parametri certi in ordine alla portata lesiva del prodotto da un punto di vista biologico e chimico, il giudice non può esimersi dal fondare le proprie convinzioni su un’istruttoria integrata da prove di natura tecnica.
La tutela della sicurezza alimentare al di fuori dei delitti di comune pericolo mediante frode. Breve focus sulla Legge 283 del 1962
Le contravvenzioni previste nella Legge 283 del 1962: breve descrizione e rilevanza nel contesto della tutela della sicurezza alimentare
Per chi affronta l’eterogeneo alveo della tutela penale in ambito agroalimentare, appare necessario considerare, in prima battuta, che la risposta punitiva a fronte di tali fenomeni illeciti muove da una sorta di doppi binario, che ha più volte dato spazio a dibattiti interpretativi aventi ad oggetto il concorso di reati: da un lato sovviene la tutela codicistica, in precedenza (seppur brevemente) menzionata; da un altro lato la Legge n. 283 del 1962, recante la disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande.
la Legge predetta riveste un ruolo di importanza paritaria rispetto alle fattispecie incriminatrici introdotte dal Codice Penale: tale compendio normativo impone di fatto la predisposizione di uno stadio protettivo secondario, che investe l’intero ciclo merceologico alimentare, retrocedendo la tutela penale, che viene contenuta in una gamma di condotte alternative a quelle descritte nel codice penale[10].
La Legge in esame è quindi connotata da due fondamentali “linee guida”: l’anticipazione della tutela discendente dall’intervento repressivo; il rapporto di sussidiarietà con le “omologhe” disposizioni del Codice Penale.
Nel presente contributo non vi è spazio per una compiuta disamina dei predetti reati, ma l’obiettivo di chi scrive è quello di fornire comunque uno stimolo nell’analisi globale della tutela del consumatore a fronte degli illeciti alimentari, senza sottovalutare alcune fattispecie di carattere contravvenzionale che verranno di seguito richiamate.
L’art. 5 della L. 283, in particolare, tende a preservare la genuinità e la purezza degli alimenti, onde evitare che la loro distribuzione possa arrecare rischio alla salute dei consociati, contrastando l’impiego, la vendita, la detenzione e la distribuzione delle sostanze alimentari che abbiano le seguenti caratteristiche[11]: modificate nella composizione naturale o normativa (lett. a); in cattivo stato di conservazione (lett. b); con cariche microbiche che valicano i limiti regolamentari (lett. c); insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive (lett. d); con l’aggiunta di additivi non autorizzati (lett. g); con residui tossici di prodotti fitosanitari (lett. h).
Nel medesimo testo normativo sussistono poi alcune ulteriori fattispecie, tutte di natura contravvenzionale, che hanno peraltro “resistito” ad un “tentativo” di abrogazione nel recente passato: in effetti, con il D.Lgs. 2 febbraio 2021, n. 27, il Governo aveva promosso l’abrogazione della L. n. 283 del 1962 e delle contravvenzioni ivi contenute, stimolando innumerevoli critiche in dottrina, basatesi (in senso quasi unanime) sul fatto che in tal modo si corresse il rischio di aprire un vuoto di tutela del tutto inopportuno. Anche perché, in seno alla fase legislativa che avrebbe dovuto condurre all’abrogazione, si era fatta spesso notare l’importanza assunta nella prassi da tali fattispecie contravvenzionali (e tale critica la dice lunga sull’importanza del compendio normativo esaminato nel presente paragrafo)[12].
Tuttavia, anche in ragione delle innumerevoli critiche ricevute, il 24 marzo 2021, prima dell’entrata in vigore del D.lgs. n. 27, è stato pubblicato il D.L. n. 42, con il quale, «ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di modificare prima della sua entrata in vigore, la disciplina delle abrogazioni introdotta con il predetto decreto legislativo n. 27 del 2021, al fine di evitare che rilevanti settori relativi alla produzione e alla vendita delle sostanze alimentari e bevande restino privi di tutela sanzionatoria penale e amministrativa con pregiudizio della salute dei consumatori», è stato emendato l’art. 18 comma 1 lett. b) del citato D.Lgs. n. 27, la cui versione consolidata stabilisce ora che dall’abrogazione della l. n. 283 del 1962 sono fatti salvi «gli articoli 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 12-bis, 13, 17, 18, 19 e 22», e dunque anche le anzidette contravvenzioni alimentari. Da ultimo il predetto decreto è stato convertito con la Legge 21 maggio 2021, n. 71[13].
In sintesi, è possibile ed opportuno affermare che la tutela correlata alle fattispecie contravvenzionali previste nella normativa in esame rappresenta tuttora uno strumento di importanza paritaria rispetto alla tutela codicistica posta a presidio della salute pubblica. Ad ogni modo, anche al fine di favorire un processo deflattivo e di sostanziale sgravio di alcune attività procedimentali penali nei tribunali, è intervenuta la c.d. Riforma Cartabia, applicando a tali contravvenzioni taluni strumenti di estinzione del reato, che verranno di seguito brevemente esaminati.
Il ne bis in idem come prospettiva difensiva
A completamento del presente paragrafo, seppur senza pretese di esaustività, ma nell’intento di voler fornire un ulteriore “monito” o “stimolo interpretativo” a chiunque approcci la materia in esame, occorre sviluppare una digressione sulla possibile sussistenza del fenomeno del bis in idem nel settore degli illeciti di natura alimentare di cui trattasi.
Il presupposto da cui muovere è che per i reati indicati dalla Legge n. 283 è concettualmente possibile che venga irrogata (altresì) una sanzione pecuniaria di natura amministrativa, elevata in apposito verbale, che può ricalcare i contenuti della medesima imputazione penale sotto il profilo della descrizione del fatto.
In effetti da un medesimo accertamento delle competenti autorità amministrative potrebbero insorgere due distinti procedimenti (uno di natura penale ed uno di natura amministrativa), aventi ad oggetto una contestazione strutturalmente identica, creandosi – tra le altre cose – il presupposto per un potenziale “duplice pagamento” per il medesimo fatto storico (il pagamento della sanzione amministrativa e quello della sanzione penale, declinata come ammenda).
Di recente il Tribunale di Novara, esaminando una violazione – nell’ambito di un procedimento penale – dell’art. 5 suindicato, ha evidenziato la possibile eccepibilità dell’istituto del ne bis in idem, ricorrendo determinate condizioni: che le condotte contestate in seno ai verbali amministrativi e nel procedimento penale siano le medesime e, quindi, discendano dallo stesso fatto storico; che le norme contestate nei due procedimenti abbiano sostanzialmente la stessa finalità (il Tribunale fa riferimento, nel caso di specie, alla corretta conservazione dei prodotti alimentari e alla tutela della salute pubblica); che le disposizioni penali violate e il fatto storico concretamente accertato in sede penale non siano espressione di maggiore stigma sociale rispetto a quanto accertato e contestato in sede amministrativa; che il procedimento penale e quello amministrativo non siano avvinti da una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” (sul punto è stata richiamata la giurisprudenza della CEDU)[14].
All’esito di tale riflessione il Tribunale ha emesso sentenza di non doversi procedere in ragione del fatto che l’imputato era già stato definitivamente sanzionato in sede amministrativa per il medesimo fatto storico.
Tale ulteriore digressione può fornire un input a chi si trovi un domani a fornire la propria opera professionale nel settore giuridico – agroalimentare. Gli illeciti di cui alla Legge del 1962, in effetti, oggi appaiono facilmente prevenibili se si adottano procedure aziendali e pratiche virtuose (sul punto si tornerà indirettamente nel paragrafo dedicato alla “compliance”) e maggiormente affrontabili in chiave difensiva, tanto per gli effetti della Riforma Cartabia (oggetto del prossimo paragrafo) quanto per una attuale apertura giurisprudenziale (almeno in sede di merito) alla possibile eccepibilità del ne bis in idem.
Reati alimentari e Riforma Cartabia
Con l’art. 70 del decreto attuativo n. 150 del 2022, nell’ambito della c.d. Riforma Cartabia, è stata introdotta un’importante fattispecie estintiva. In particolare, agli articoli 12 ter ss della Legge 283 del 1962 sono state introdotte delle nuove ipotesi di estinzione del reato.
La stessa norma ex art 12 ter individua il presupposto dell’estinzione dei reati contravvenzionali descritti nella legge del 1962: in estrema sintesi, il contravventore deve adeguarsi a determinate prescrizioni, impartite da un organo accertatore.
In concreto l’organo accertatore assume la funzione di polizia giudiziaria e, riscontrando determinate irregolarità, impartisce all’interessato un termine (massimo sei mesi) per regolarizzare la propria posizione. In sintesi, il meccanismo delineato mutua quanto già previsto nell’ambito della sicurezza sui luoghi di lavoro: gli articoli 12 ter ss introducono un “procedimento estintivo a formazione progressiva”, che si basa essenzialmente sull’adempimento delle prescrizioni impartite dall’organo che ha constatato la contravvenzione e il pagamento di una quota dell’ammenda applicata per l’illecito, in una sorta di ripristino delle condizioni di legalità[15].
La norma incontra le esigenze del contravventore, il quale può – con richiesta motivata – promuovere istanza affinché gli venga concessa una dilazione del termine inizialmente previsto per conformarsi agli adempimenti richiesti.
L’art. 12 quater esplicita che entro trenta giorni dallo spirare del termine concesso, l’organismo accertatore verifica l’adempimento e ammette il contravventore al pagamento di una somma (in sede amministrativa), che successivamente sarà oggetto di comunicazione al Pubblico Ministero competente. Ad ogni modo, come sancito dall’art. 12 quinquies, a certe condizioni (fondamentalmente riconducibili ad una impossibilità “autocertificata” di procedere con il pagamento della sanzione) sarà possibile sostituire la dazione di denaro con i lavori di pubblica utilità.
Di fatto, la normativa in esame unisce e fonde istituti e profili già noti nell’ordinamento attuale, in precedenza confinati alla materia “antinfortunistica”, ai reati ambientali e, per ciò che concerne i lavori di pubblica utilità (soprattutto) ai reati delineati dal Codice della Strada[16].
Seppur ricalcando meccanismi similari a quelli precedentemente introdotti in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro e nell’ambito dei reati ambientali, la normativa in esame presenta delle peculiarità: innanzitutto la procedura estintiva non sembrerebbe “accessibile” ove la contravvenzione segnalata concorra con un delitto; inoltre, la medesima preclusione si estende alle contravvenzioni punite non solo con ammenda o pena alternativa, ma anche con la pena congiunta (arresto e ammenda)[17].
Un ultimo profilo che vale la pena segnalare, che contraddistingue l’introduzione normativa in esame, soprattutto sotto il profilo processuale è la (non banale) centralizzazione della figura del Pubblico Ministero. In estrema sintesi: il PM riceve il verbale con l’indicazione delle prescrizioni impartite dall’organo accertatore (assieme alla notizia di reato) e, con decreto, può apportarvi delle modifiche (ciò è espressamente previsto nella parte finale dell’art. 12 ter), entrando nel merito degli adempimenti imposti al contravventore. Tale aspetto, apparentemente qualificabile come mera sfumatura procedurale, potrebbe stimolare senza dubbio il contravventore e il relativo difensore ad aprire una sana “interlocuzione” con la Procura, nel caso in cui non condivida in toto an e quantum delle prescrizioni imposte.
In conclusione è possibile affermare che l’istituto estintivo – deflattivo in esame si collochi in maniera armonica nel contesto della Riforma Cartabia sebbene, all’atto pratico, sarà la prassi ad evidenziare se e in che termini gli illeciti alimentari suindicati potranno dirsi coerentemente “fronteggiati” per il tramite della nuova “procedura”.
Sta di fatto che alcuni dubbi potrebbero sorgere sulla corretta interpretazione dell’istituto di nuovo conio, soprattutto per ciò che concerne il suo presupposto applicativo (indicato espressamente nella prima parte dell’art 12 ter), ossia il fatto che il meccanismo estintivo è applicabile alle contravvenzioni “che hanno cagionato un danno o un pericolo suscettibile di elisione mediante condotte ripristinatorie o risarcitorie”. Quali paradigmi verranno concretamente utilizzati per poter preventivamente asserire che la contravvenzione ha cagionato un nocumento “suscettibile di elisione”? In che termini si distingueranno condotte ripristinatorie e risarcitorie? In caso di risarcimento da erogare ad un terzo (persona offesa), colui che ha subito “danno” dalla condotta incriminata avrà potere o facoltà di interloquire sull’entità dell’eventuale quantum risarcitorio ipotizzato?[18]
Per una congrua risposta ai suddetti quesiti occorrerà verosimilmente attendere un periodo di naturale e concreta metabolizzazione da parte delle Procure dell’istituto di nuova introduzione. Anche in tal senso ci si aspetta che avvocati e giuristi di impresa, nelle rispettive competenze, possano fornire supporto e stimolo alle più corrette interpretazioni e declinazioni della “nuova” procedura estintiva.
I delitti contro l’industria e il commercio come ulteriore espressione del diritto penale nel settore agroalimentare (gli art. 516 e 517 quater c.p.)
Sino ad ora la trattazione ha avuto ad oggetto diversi spunti riflessivi ed alcune brevi digressioni analitiche su fattispecie di reato fondamentalmente poste a tutela della salute del consumatore.
Orbene, il diritto penale in realtà interviene anche al fine di prevenire condotte illecite nel commercio dei beni alimentari che potrebbero creare delle “asimmetrie di mercato”, senza arrecare danno alla salute pubblica.
In sostanza, il Codice Penale prevede due reati che tendono a reprimere non tanto il rischio di creare nocumento alla salute dei consociati tramite prodotti alimentari “non salubri”, quanto il pericolo che si introduca nella catena commerciale un prodotto apparentemente dotato di qualità che non gli appartengono, a discapito del corretto funzionamento del mercato.
In particolare, l’art. 516 c.p. punisce la vendita di sostanze alimentari “spacciate” come genuine pur non essendolo. La pena prevista per tale reato, proprio perché la fattispecie non tutela (addirittura) la salute pubblica, è sensibilmente minore rispetto alle altre fattispecie codicistiche sino ad ora trattate.
Tale delitto sembrerebbe reprimere condotte realizzate dal reo in una fase precedente a quella delle c.d. trattative commerciali, la cui sussistenza costituirebbe (viceversa) il presupposto per la consumazione dell’art. 515 c.p., ossia la frode nell’esercizio del commercio.
Proprio in tal senso sembrerebbe essersi espressa la Suprema Corte con la sentenza n. 50745 del 2016 (Sez. III Pen.), specificando che il delitto in parola è un reato di pericolo che punisce la mera immissione nel mercato di alimenti non genuini (ma venduti come tali), espressione di una tutela anticipata e sussidiaria rispetto a quella di cui all’art. 515 c.p., in quanto attinente ad una fase preliminare alla vera e propria relazione commerciale tra venditore e acquirente.
Il raffronto rispetto alle disposizioni codicistiche menzionate nei precedenti paragrafi si può sintetizzare in una chiarissima, seppur risalente, sentenza della Suprema Corte (Cass. sez. III Pen. .1.6.1964, Giust. Pen. 65, II, 146), nella quale si evidenzia che l’art. 516 c.p. difende il commercio dal pericolo o dal danno derivanti dal fatto di porre in vendita talune sostanze fatte apparire come genuine, che non siano comunque pericolose per la salute del consumatore.
Come anticipato, ulteriore fattispecie che si può inserire nel contesto della dimensione penale degli illeciti agroalimentari (seppur sempre nell’alveo dei delitti contro l’industria e il commercio) è quella prevista e punita ex art. 517 quater c.p. (contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari).
Anche in questo caso è netta la distinzione rispetto agli istituti posti a tutela della pubblica salute, come peraltro rimarcato dalla Suprema Corte che, con la sentenza n. 28354 del 2016 (Cass. Pen. Sez. III) ha chiarito come per l’integrazione del delitto in parola non sia necessario che le indicazioni fallaci sull’origine del prodotto siano idonee a trarre in inganno la platea dei consumatori, perché la fattispecie è stata introdotta (nel 2009) al sol fine di preservare l’interesse dei produttori che hanno titolo per utilizzare dette “indicazioni o denominazioni”.
I due reati da ultimo esaminati, pur non essendo direttamente posti a tutela della salute dei cittadini, rappresentano comunque fattispecie di primissimo interesse, soprattutto nel variegato contesto degli illeciti di grande impatto e rilievo nel diritto penale che può “investire” le realtà aziendali. Non a caso, come si specificherà di seguito, l’art. 25 bis.1 del D.lgs. 231 del 2001, ha previsto che da questi due delitti possa discendere la c.d. responsabilità amministrativa da reato dell’ente.
Si apre così, a livello concettuale, una fase dell’analisi della materia in esame in cui spicca un’ulteriore declinazione dell’assistenza legale, ossia quella della consulenza in materia di compliance.
Reati alimentari e “compliance 231”
Come noto il decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, avente ad oggetto la “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”, ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano la responsabilità degli Enti.
Si tratta di una peculiare forma di responsabilità amministrativa derivante dalla commissione di specifici reati, tassativamente previsti dal predetto Decreto: si va dai delitti contro la pubblica amministrazione, fino ad arrivare ai reati tributari, passando per una gamma sempre più estesa ed eterogenea di fattispecie, tra le quali si annoverano alcune tra le fattispecie sin qui descritte.
A tal proposito l’art. 25 bis.1 del suindicato Decreto menziona, quali delitti “presupposto” della possibile responsabilità amministrativa dell’ente, la vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine (art. 516 c.p.) e la contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari (art. 517 quater c.p.)[19].
Non è di certo questa la sede per approfondire quali e quanti possibili misure possano essere adottate da un’impresa agroalimentare per adeguare le proprie procedure aziendali ai più alti standard di sicurezza, ma l’inserimento di tali reati nel panorama dei c.d. reati “presupposto” lascia intendere che gli illeciti commessi nel settore agroalimentare possano agevolmente assumere una dimensione “societaria”. E tale aspetto va necessariamente considerato in relazione alla dimensione dell’industria agroalimentare nel panorama nazionale, posto che, come noto, il comparto agroalimentare, nel suo complesso, costituisce un settore chiave dell’economia nazionale che, contribuisce da solo al 15% circa del Pil nazionale.
E’ quindi nell’impresa, di fatto, che dovrebbero essere attuati tutti i più adeguati meccanismi di prevenzione dei reati esaminati nel presente contributo (anche se si volesse prescindere dallo specifico settore della c.d. responsabilità ex D.lgs. 231/2001). In effetti, l’attenzione alla corretta strutturazione di sistemi di gestione per la sicurezza agroalimentare è sempre più alta, basti pensare – lo si dice solo a titolo esemplificativo – all’introduzione di un apposito standard applicativo su base volontaria “settorializzato”: trattasi della UNI EN ISO 22000 “Sistemi di gestione per la sicurezza alimentare – Requisiti per qualsiasi organizzazione nella filiera alimentare”, ossia una norma volontaria che si propone di armonizzare trasversalmente le esigenze di un’organizzazione aziendale finalizzata alla sicurezza alimentare e che può essere oggetto di apposita certificazione.
Dalla mera consultazione dei dati rinvenibili nel web appare chiaro che il fenomeno dei crimini agroalimentari possa assumere dimensioni e conformazioni sempre più consistenti se collocati nel settore imprenditoriale[20]. Il compito del giurista oggi, potrebbe quindi modernamente essere plasmato su una nuova figura consulenziale, ancor prima che “assistenziale”, che sappia coniugare esigenze preventive e difensive a tutela (direttamente) dell’impresa agroalimentare e (indirettamente) a beneficio dell’intera filiera, coinvolgendo tanto la prevenzione del rischio di arrecare “distorsioni” illecite al settore di mercato di competenza, quanto la protezione della salute pubblica.
Conclusioni
Con il presente contributo si è cercato di far comprendere, almeno in parte, che la dimensione penale del diritto agroalimentare rappresenta una declinazione essenziale della tutela della pubblica salute.
Oggi il settore agroalimentare rappresenta un baluardo essenziale del contesto imprenditoriale italiano e gli illeciti riconducibili alla materia in esame possono facilmente determinare quello che è a tutti gli effetti un “rischio patologico” della gestione di un’azienda.
I reati che connotano la tutela del settore agroalimentare, in prima approssimazione e per esemplificare, si possono suddividere in due macrocategorie: delitti previsti dal Codice Penale ed illeciti previsti dalla Legge 283 del 1962. A margine di questo duplice binario, occorre poi tenere a mente le possibili conseguenze di natura sanzionatoria in sede amministrativa (si veda in tal senso quanto evidenziato in ordine al ne bis in idem in materia) e il rischio di incorrere nella responsabilità amministrativa degli enti ex D.lgs. 231/2001.
Il settore esaminato, pertanto, rappresenta il potenziale punto di incontro tra professionalità di diversa natura: quelle maggiormente tecnico – scientifiche, quelle “giuridiche” con un bagaglio nozionistico di natura amministrativistica e, senza dubbio, quelle di impronta penalistica.
Al di là delle linee guida tracciate negli anni dalla giurisprudenza di legittimità e dal Legislatore, in ordine a quelle che sono le prospettive difensive in caso di imputazione già formulata nel procedimento penale (possibile estinzione del reato secondo i canoni della Riforma Cartabia, ipotizzabilità del bis in idem, difesa sostanziale di merito ancorabile ad elaborati peritali, prova dell’assenza del pericolo concreto ecc.), è necessario prospettare alle imprese un possibile cambio di prospettiva: l’adeguamento agli standard più elevati in materia, accompagnato ad una diffusa cultura della legalità in seno all’azienda e la strutturazione di modelli organizzativi di gestione e controllo, atti alla prevenzione dei reati, rappresentano oggi un obiettivo percorribile e che si può sposare armonicamente con i più moderni concetti di sostenibilità e rispetto dell’ambiente.
[1] A. Madeo, La Tutela penale della salute dei consumatori, Giappichelli, 2006, p. 11 ss.
[2] In merito al concetto di bene tutelato nei reati ambientali e in ordine alla nozione di ambiente, come istituto eterogeneo e complesso, si sono pronunciati diversi autori. Cfr. sul punto, ex multis, C. Ruga Riva, Diritto Penale dell’Ambiente, Torino, Giappichelli 2016.
[3] S. Donato Messina, G. Spinnato, Manuale Breve di Diritto Penale, Giuffrè, 2019, p. 612.
[4] Fiandaca – Musco, Diritto penale, Parte speciale, I, 2012, p. 539.
[5] Il rischio per la salute pubblica viene poi menzionato nell’art. 441 c.p. (adulterazione o contraffazione di altre cose in danno della salute pubblica), sebbene tale delitto si discosti dal panorama della tutela della pubblica incolumità correlata al settore alimentare e si riconduca ad una cornice edittale ben più tenue di quella prevista nel settore oggetto dell’odierno focus.
[6] Cfr. Codice Penale e di Procedura Penale, F. Coppi, A. Lanzi, A. Gaito, nel relativo commento alla norma, Dike Giuridica, 2023.
[7] L’atteggiamento che il giudice penale deve e può assumere al cospetto di indagini scientifiche e di risultanze peritali, occorre sempre tenerlo a mente, è stato oggetto di oscillazioni interpretative e diatribe giurisprudenziali solo parzialmente sopite. A titolo esemplificativo, si rammenta che la Suprema Corte, Sez. III Pen., con la sentenza n. 12026 del 2020, ha affermato che il giudice non è peritus peritorum e quindi, di fatto, non potrebbe autonomamente discostarsi dalle risultanze tecniche confluite nell’istruttoria sulla base di mere convinzioni dettate dalla propria scienza e conoscenza personale, senza coinvolgere a sua volta un ulteriore “tecnico” (perito) che possa fornire risultanze e parametri discostanti rispetto a quelli che poi verranno “superati” e disattesi (sul punto cfr. C. Lattarulo, Giudice non è peritus peritorum, 24.4.2020 Altalex Web (https://www.altalex.com/documents/news/2020/04/24/giudice-non-e-peritus-peritorum). Ed anche in una recentissima sentenza (Cass. Pen. n. 44901 del 2023 Sez. IV Pen.), la Cassazione ha fornito un chiarimento in ordine a tale questione, in modo ancor più eloquente, ribadendo che: “La Corte di legittimità ha in più occasioni evidenziato che prudente apprezzamento e libero convincimento del giudice non equivalgono ad arbitrium merum (ex multis, Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, in motiv.; Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105; Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini, Rv. 248943-01), riconoscendo un ruolo centrale al sapere scientifico e alle modalità con le quali esso viene introdotto nel processo e chiarendo quale significato attribuire al tradizionale brocardo iudex peritus peritorum e quale sia il ruolo del giudice, da considerarsi vero e proprio “custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo”. In una moderna concezione del ruolo del giudice in relazione alla prova scientifica è, infatti, più corretto parlare di iudex peritorum, onde sottolineare come il giudice non possa sostituirsi all’esperto nel valutare i fatti ma debba, sempre, basare il proprio convincimento sulla prova scientifica così introdotta da esperti nel processo”.
[8] Nella fattispecie la Corte ha ritenuto integrata la prova del reato dalla tossinfezione contratta da un cospicuo numero di commensali ai quali erano stati somministrati i medesimi pasti in determinate mense scolastiche, considerata unitamente all’inosservanza eclatante delle norme igieniche di base negli ambienti destinati alla conservazione degli alimenti ed alla preparazione dei pasti.
[9] Anche la sentenza richiamata, del 2004, muove da un casus che apparirebbe connotato da una possibile evidenza del cattivo stato in cui versavano gli alimenti, tale da poter asserire per comune esperienza che gli stessi avessero una capacità “nociva”. In effetti, gli Ermellini erano stati chiamati a definire un procedimento nella cui istruttoria erano emersi dei “rilievi organolettici” immediatamente percepibili e sintomatici dello stato patologico degli animali destinati alla macellazione).
[10] Cfr. sul punto E. Mazzanti, Abrogata la Legge 30 Aprile 1962, n. 283: una scelta incomprensibile che rischia di aprire una voragine nel sistema degli illeciti alimentari, in Giurisprudenza Penale Web, 2021,3.
(https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2021/03/Mazzanti_gp_2021_3.pdf)
[11] Di fatto la norma vuole reprimere il commercio di alimenti non genuini, cioè alterati rispetto alla loro composizione tanto da un punto di vista naturale (c.d. genuinità materiale), quanto per ciò che concerne le prescrizioni che disciplinano il settore di riferimento (c.d. genuinità formale).
[12] Si veda in merito alla prospettata abrogazione G. Forte, L’Abrogazione che scontenta tutti: la L. 283/62 e gli operatori di settore, in Giurisprudenza Penale Web, 2021,3 (https://www.giurisprudenzapenale.com/2021/03/19/labrogazione-che-scontenta-tutti-la-l-283-62-e-gli-operatori-di-settore/).
[13] M. Gambardella, Nessuna abolitio criminis nella vicenda dei reati alimentari, in Sistema Penale Web, 6.4.2021 (https://www.sistemapenale.it/it/articolo/gambardella-nessuna-abolitio-criminis-reati-alimentari).
[14] Sentenza del Tribunale di Novara, n. 1376 del 22.12.2022; cfr. sul punto V. Longrillo, Una sentenza del Tribunale di Novara in tema di ne bis in idem e reati alimentari, in Giurisprudenza Penale Web, 9.3.2023 (https://www.giurisprudenzapenale.com/2023/03/09/una-sentenza-del-tribunale-di-novara-in-tema-di-ne-bis-in-idem-e-reati-alimentari/).
[15] I. Giugni, Procedura estintiva delle contravvenzioni antinfortunistiche: verso una questione di costituzionalità all’indomani della c.d. Riforma Cartabia?, in Sistema Penale Web, 6.6.2023
(https://www.sistemapenale.it/it/scheda/giugni-procedura-estintiva-delle-contravvenzioni-antinfortunistiche-verso-una-questione-di-costituzionalita-allindomani-della-cd-riforma-cartabia).
[16] In materia di sicurezza sui luoghi di lavoro si vedano, in particolare, il D.lgs. 758/1994 e l’art. 301 TU 81/2008; in materia di tutela ambientale, si veda invece l’art. 318 bis ss del TU 152/2006.
[17] Si veda sul punto, G. Forte – I. Riz, Illeciti alimentari: prime note sull’art. 70 d.lgs. 150/2022 (c.d. “Riforma Cartabia”), in Giurisprudenza Penale Web, 2022, 11 (https://www.giurisprudenzapenale.com/2022/11/25/illeciti-alimentari-prime-note-sullart-70-d-lgs-150-2022-cd-riforma-cartabia/).
[18] Tali profili vengono compiutamente esaminati da V. Paone, La procedura estintiva delle contravvenzioni in materia di sicurezza alimentare: molte ombre e poche luci, in Sistema Penale Web, 10/2023 (https://www.sistemapenale.it/it/articolo/paone-la-procedura-estintiva-delle-contravvenzioni-in-materia-di-sicurezza-alimentare-molte-ombre-e-poche-luci).
[19] Per queste due fattispecie, il Decreto prevede “la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote”.
[20] Tra i tanti portali è possibile consultare il sito della Fondazione Osservatorio sulla Criminalità nell’Agricoltura e sul Sistema Agroalimentare, promossa da Coldiretti (www.osservatorioagromafie.it).
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