Greenwashing e dintorni
di Giulia Maria Picchi - Senior partner Marketude Scarica in PDFPer chi si occupa di comunicazione, il tema del greenwashing è quanto mai affascinante.
Ma questo articolo -e quelli che seguiranno, visto che l’argomento si presta ad essere approfondito- è rivolto a tutti quei professionisti, avvocati in primis, che si troveranno ad assistere in tal senso i loro clienti, o perché parte lesa o perché accusati di pratiche scorrette.
D’altra parte, il greenwashing non è semplicemente fastidioso, è proprio pericoloso.
In un’economia di mercato, il consumatore è sovrano e come tale ha la capacità di inviare segnali anche molto decisi attraverso i suoi acquisti: il verde dell’ambiente si trasforma rapidamente nel verde delle banconote – si conceda qui di comprenderle tutte per estensione- e risulta quindi chiaro quanto questa crescente accezione del colore della speranza (altro tema affascinante, quello dell’uso dei colori come richiamo di sensazioni, emozioni e significati) sia quindi una forza potente in grado di spingere l’economia verso scelte mirate a salvaguardare l’ambiente.
E come si forma il consumatore un’idea più o meno precisa di che cosa, dove, da chi e come acquistare? Pubblicità, messaggi aziendali, brochure, social media e altri strumenti di comunicazione sono a loro disposizione per convogliare l’impegno (se ce n’è uno) dell’emittente e consentire ai destinatari di farsi un’opinione. Ma che cosa succede se qualcosa in questa equazione fa corto circuito?
Le cattive pratiche riconducibili a ciò che, per velocità, viene definito greenwashing, hanno già fatto diversi danni, facendo precipitare il livello di fiducia dei consumatori ai minimi storici e producendo, così, almeno due gravi conseguenze:
- scoraggiarli dall’esercitare il loro potere attraverso gli acquisti,
- confondere completamente la loro opinione riguardo a un mercato che, pur offrendo anche soluzioni virtuose, le rende di fatto indistinguibili rispetto a quelle che invece virtuose non sono.
E così, in sintesi, i consumatori, confusi e diffidenti, rinunciano a premiare con i loro acquisti le aziende sincere (che infatti, coerentemente, comunicano il loro impegno), non si orientano verso prodotti rispettosi dell’ambiente e finiscono con il disinnescare quella forza di mercato che potrebbe esercitare una pressione anche sulle altre aziende, spingendole a muoversi verso scelte più verdi.
Il greenwashing diventa così l’agente sabotatore dell’intero movimento verso la sostenibilità ambientale.
Regolare, quindi, le modalità con cui si comunica ai consumatori è diventato imperativo per contrastare il greenwashing e permettere alle persone di fare scelte consapevoli basate su informazioni attendibili.
L’attenzione dei regolatori in tale direzione non è stata immediata e ancora adesso manca una vera e propria normativa, ma l’Europa ci sta lavorando e molte altre istituzioni, nel corso degli anni e ciascuna riferendosi alle leggi del proprio paese, hanno prodotto delle linee guida per scongiurare le pratiche scorrette che, soprattutto agli inizi, erano spesso involontarie e frutto di scelte dettate dalla non conoscenza del tema e da un po’ di trascuratezza più che non da vere intenzioni truffaldine.
Ma detto tutto questo, da dove nasce e che cosa si intende con il termine greenwashing?
Volendo risalire alle vere origini del termine, la genesi è davvero antichissima e muove addirittura dal Vangelo di Matteo quando l’apostolo nomina i sepolcri imbiancati, “all’esterno belli a vedersi, ma dentro pieni di ossa di morti e di ogni putridume”.
Da quell’”imbiancati” sono poi stati gli anglosassoni a derivarne l’espressione “white washing”, ossia la pratica di dare una “una mano di bianco” per nascondere sporco e macchie.
Nel 1983, l’ambientalista Jay Westerveld, ha poi colorato di verde il “washing”, inventando il neologismo greenwashing dopo aver soggiornato in un albergo che -come tanti peraltro- proponeva agli ospiti di riutilizzare gli asciugamani usati per evitare di sprecare acqua e disperdere detersivi nell’ambiente (fin qui tutto bene) millantando una sensibilità ecologica che era, però, del tutto assente nel resto dell’hotel e che, quindi, tradiva piuttosto l’interesse dell’albergatore a godere unicamente dei cospicui risparmi che derivavano dalla riduzione dei lavaggi della biancheria usata nei bagni.
Un pizzico di verità -verde ovviamente- per nascondere altre intenzioni, oppure la pratica di presentare come ecosostenibili parte delle proprie attività per occultarne l’impatto ambientale negativo complessivo o, ancora, lavarsi la coscienza facendo qualcosa di verde: tutte alternative, neanche troppo dissimili, riconducibili a un’unica espressione, “ambientalismo di facciata”.
Sia chiaro: non si tratta affatto di fare beneficenza o essere dei filantropi. Al contrario, è una questione del tutto economica: essere davvero green, come già è stato detto, apporta, tra gli altri, dei benefici in termini di reputazione e posizionamento che si traducono in conseguenti vantaggi assolutamente monetizzabili. Ma il punto cruciale è proprio nel fatto di “essere”: se l’interesse verso reali politiche ambientali non esiste ma viene comunque proclamato per attirare l’attenzione dei consumatori, migliorare la propria immagine o, ancora, per distogliere l’attenzione da altre dinamiche aziendali che di verde non hanno nulla, allora sì, si tratta di greenwashing e va contrastato con decisione.
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