14 Novembre 2023

L’inoppugnabilità della forza pienprobante della confessione giudiziale a mezzo di testimonianze e presunzioni di segno contrario: una discutibile applicazione di questo principio

di Massimo Montanari, Professore ordinario di Diritto processuale civile e di diritto fallimentare – Università degli Studi di Parma Scarica in PDF

Cass., Sez. II, ord., 9 ottobre 2023, n. 28255 Pres. Di Virgilio – Rel. Trapuzzano

Prove civili – Confessione giudiziale – Efficacia di piena prova – Prova contraria a mezzo di testimonianze e presunzioni – Inammissibilità (c.c. artt. 2730, 2734; c.p.c. art. 116)

[1] In tema di valutazione della prova, a fronte della confessione giudiziale resa, non può essere data prevalenza a fatti contrari, e non meramente specificativi, come emergenti dalle deposizioni testimoniali ammesse su istanza della stessa parte confitente e dalla prova documentale indiretta.

CASO

[1] Nel giudizio di risoluzione di un contratto preliminare di vendita immobiliare, introdotto dal promissario acquirente per inadempimento della controparte, promittente alienante, rilievo decisivo aveva assunto la circostanza dell’esecuzione della clausola contrattuale che prevedeva il versamento, a titolo di acconto sul saldo finale, di una somma destinata ad Equitalia in vista dell’estinzione e cancellazione dell’ipoteca giudiziale accesa dall’istituto di riscossione sull’immobile promesso in vendita. Mentre, infatti, parte convenuta sosteneva di non aver ricevuto alcun versamento a quel titolo, così da potersi ritenere giustificato il suo rifiuto di presentarsi, alla data convenuta, davanti al notaio per la stipula del contratto definitivo; parte attrice affermava, al contrario, di aver provveduto all’emissione di un assegno circolare, d’importo corrispondente alla somma predetta, intestato ad Equitalia e di poi trasmesso all’agenzia immobiliare che aveva curato la stesura del preliminare, affinché questa lo consegnasse a mani del promittente alienante, il quale però, all’invito che l’agenzia depositaria gli aveva rivolto a quel fine, non aveva dato alcun riscontro.

Tanto il Tribunale di Lecce (Sez. distaccata di Nardò), adito in prima istanza, che la Corte d’appello del capoluogo salentino, investita del susseguente gravame, hanno riconosciuto la fondatezza dell’esperita domanda di risoluzione, privilegiando in tal senso la deposizione testimoniale del titolare della suddetta agenzia, che aveva confermato di aver ricevuto l’assegno circolare intestato a Equitalia e di avere senza alcun esito invitato, con lettera debitamente prodotta in giudizio, il promittente alienante a recarsi in agenzia per ritirare l’assegno medesimo: elementi probatòri che i giudici di merito hanno valutato come assorbenti rispetto alla dichiarazione confessoria di opposto tenore resa, in sede di interrogatorio formale, dalla stessa parte attrice, che in quell’occasione aveva affermato di nulla avere anticipato ai fini della liberazione dell’immobile posto in vendita dai pesi su di esso gravanti, giusta l’accordo intercorso tra le parti, e non risultante dal documento contrattuale, per cui, salva la somma di minore entità, e  mai divenuta oggetto di dibattito giudiziale, erogata a titolo di caparra confirmatoria, l’intero saldo prezzo avrebbe dovuto essere versato all’atto della stipula del definitivo.

Risultata soccombente anche in seconde cure, parte convenuta ha allora proposto ricorso di legittimità, incardinato su un unico motivo, con il quale è stata denunciata la violazione della regola, posta dall’art. 2733, 2° co., c.c., dell’efficacia pienprobante della confessione giudiziale, quale insita, tale violazione, nel valore prevalente attribuito alle deposizioni del teste chiamato in giudizio da parte attrice rispetto alle dichiarazioni di segno contrario rese da quest’ultima all’atto dell’interrogatorio formale.

SOLUZIONE

[1] La Cassazione ha pienamente recepito la doglianza sottoposta al suo esame.

Acclarato che, nell’ammissione di non aver versato alcuna somma ulteriore rispetto alla caparra confirmatoria, in forza dell’accordo che prevedeva il pagamento dell’intero saldo al momento della stipula del contratto definitivo, il promissario acquirente avrebbe reso un’autentica dichiarazione confessoria, stante la ravvisabilità di entrambi gli elementi, oggettivo – idoneità del fatto dichiarato a recare un concreto pregiudizio all’interesse del dichiarante e un corrispondente vantaggio al destinatario della dichiarazione – e soggettivo – consapevolezza e volontà di riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte -, che tipicamente connotano l’istituto regolato dagli artt. 2730 ss. c.c.: la Suprema Corte non ha dovuto far altro che richiamarsi al proprio e mai contestato insegnamento per cui, se la confessione, ai sensi del predetto art. 2733, 2° co., c.c., è destinata a fare piena prova contro colui che l’ha resa, ove vertente su diritti disponibili, l’autore della medesima non può essere ammesso a provare per testi fatti contrari a quanto confessato (in tal senso si veda – in aggiunta a Cass. 17 gennaio 2003, n. 607 [in motiv.]; Cass. 20 marzo 2001, n. 3975; Cass. 29 novembre 1973, n. 3293, tutte richiamate nel testo del provvedimento in rassegna – Cass. 7 maggio 1979, n. 2592). Principio ulteriormente specificato, nell’occasione, nei termini della prevalenza della confessione rispetto alle contrarie risultanze di una prova documentale, ove questa non abbia direttamente ad oggetto il factum probandum, bensì una mera circostanza secondaria e idonea a generare, rispetto a quello, una mera inferenza presuntiva: come era a dirsi, nella fattispecie, dell’invito, formalizzato in una lettera che era stata, come detto, prodotta in giudizio, rivolto al promittente venditore affinché provvedesse al ritiro dell’assegno intestato a Equitalia, rispetto al fatto che quell’assegno fosse stato effettivamente emesso dal promissario acquirente e posto successivamente a disposizione della controparte (per un esplicito riferimento all’incapacità della prova per presunzioni a sovvertire le risultanze della confessione, v. ancora Cass. 17 gennaio 2003, n. 607, in motiv.).

QUESTIONI

1] La massima, ribadita dall’ordinanza in commento, che nel conflitto tra le divergenti risultanze della confessione, da un lato, e della prova per testes o per praesumptiones, dall’altro, vuole senz’altro accordata alle prime la prevalenza, è obiettivamente inoppugnabile e, nelle più generali enunciazioni della dottrina per cui la confessione preclude il ricorso o non può essere contrastata a/da altri mezzi di prova (v., ad es., Andrioli, voce Confessione [Diritto processuale civile], in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1959, 13; Liebman, Manuale di diritto processuale civile. Principi, 8a ed., a cura di V. Colesanti ed E. Merlin, Milano, 2012, 365 s.; Luiso, Diritto processuale civile, 11a ed., II, Milano, 2020, 142), può dirsi aver sempre riscosso il consenso anche di quel distinto formante del sistema.

Lecito è però dubitare che essa dovesse trovare qui applicazione e, dunque, che la Corte l’abbia effettivamente mobilitata a proposito. Nel rispondere all’interrogatorio formale ammesso nei suoi confronti, parte attrice ha sì ammesso di non aver effettuato erogazioni ulteriori, una volta versata la somma dovuta a titolo di caparra confirmatoria, ma ha, al contempo, precisato, come più volte osservato nelle battute precedenti di questo commento, che ciò era avvenuto sulla base dell’intesa, maturata tra le parti, per cui, versata  la caparra, la somma corrispondente all’intero prezzo residuo sarebbe stata largita al momento del rogito notarile. Essa parte ha, dunque, effettivamente riconosciuto di non aver dato esecuzione alla clausola del contratto preliminare che prevedeva un acconto da destinare a Equitalia al fine di consentire la cancellazione dell’ipoteca che quest’ultima aveva acceso sull’immobile alienando; ma ha aggiunto che così sarebbe stato in virtù di una pattuizione contraria al contenuto del preliminare, alla cui stregua quell’esecuzione non era dovuta. Per dirla altrimenti: ha riconosciuto di aver tenuto un comportamento contrario a quello previsto dal preliminare di vendita; ma ha dato conto, altresì, di una circostanza ulteriore, per effetto della quale detto comportamento non suonava ad inadempimento del preliminare medesimo.

Quella venutasi a concretare nella vicenda in esame è stata, dunque, una tipica figura, per riprendere la classica terminologia chiovendiana, di confessione qualificata, dove, cioè, le aggiunte del confitente valgono a modificare il significato giuridico, ossia, appunto, la qualificazione, del fatto confessato (Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, rist. della 3a ed. del 1923, Napoli, 1965, 795; nella moderna letteratura, Andrioli, op. cit., 20; Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, 5a ed., II, Bari, 2019, 141): fattispecie richiamata dall’art. 2734 c.c., allorché è fatto riferimento all’ipotesi in cui, «alla dichiarazione indicata dall’art. 2730 si accompagna quella di altri fatti o circostanze tendenti a infirmare l’efficacia del fatto confessato»; e il cui valore probatorio, in base al tradizionale principio dell’inscindibilità delle dichiarazioni confessorie (per ogni altro, Furno, voce Confessione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 906 ss.), è fatto dipendere dalla “reazione” di controparte, nel senso, ancora a mente dell’art. 2734 c.c., che «le dichiarazioni fanno piena prova nella loro integrità se l’altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte», mentre, «in caso di contestazione, è rimesso al giudice di apprezzare, secondo le circostanze, l’efficacia probatoria delle dichiarazioni».

E’ della disciplina racchiusa in detto art. 2734 c.c. che i giudici coinvolti nella vicenda avrebbero dovuto fare applicazione. E ciò, in vista di una decisione che scaturisse da una valutazione delle dichiarazioni rese da parte attrice in sede di interrogatorio formale condotta integralmente secondo i canoni del prudente apprezzamento, visto che la circostanza aggiunta del patto, non consacrato per tabulas, che avrebbe dispensato la stessa parte dall’obbligo di acconti ulteriori rispetto alla caparra confirmatoria, era stata sicuramento oggetto di contestazione da parte del convenuto promittente venditore.

Così, però, non è stato né potrà essere in sede di giudizio di rinvio dopo la cassazione, stante l’obbligo del relativo giudice di dare ivi attuazione al principio di diritto coniato dalla Suprema Corte (cfr. Gambineri, Giudicato di rinvio e preclusione di questioni, Milano, 2008, spec. 233 ss.). Fermo restando, beninteso, che dalla degradazione al rango di prova liberamente valutabile delle dichiarazioni confessorie dell’attore promissario acquirente non sarebbe necessariamente scaturito un risultato diverso da quello, presumibilmente favorevole al suo avversario, che dovrebbe aversi in virtù dell’applicazione alla fattispecie del principio di prevalenza della confessione sulle prove testimoniali e presuntive di opposto tenore del caso presenti sulla scena: tanto più ove si ritenga che, una volta fatta segno di contestazione, la parte pro se della dichiarazione confessoria non possa esplicare alcun effetto probatorio a vantaggio del confitente, costretto, come tale, a darne la dimostrazione con altri mezzi (cfr. Balena, op. cit., 142), vale a dire, per trascorrere al caso qui esaminato, con il mezzo della prova documentale, considerati i limiti posti dagli artt. 2722 e 2723 c.c. alla prova testimoniale e per presunzioni dei patti contrari al contenuto di un determinato documento, come era, nella fattispecie, per l’accordo, addotto dal promissario acquirente, che nessun versamento in acconto fosse dovuto dopo quello effettuato a titolo di caparra confirmatoria.

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