Perdita di chance ed intervento estetico non riuscito
di Alessandra Sorrentino, Avvocato Scarica in PDFCass. civ., Sez. III, ord., 05.09.2023, n. 25910 – Pres. Travaglino – Rel. Rubino
Responsabilità professionale – Danno estetico – Danno da perdita di chance – Presunzioni
[1] In tema di risarcimento del danno da perdita di chance, quest’ultima non è una mera aspettativa di fatto, bensì deve tradursi nella concreta ed effettiva possibilità di conseguire un determinato risultato o un certo bene giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, così che la sua perdita configura un danno concreto ed attuale commisurato alla possibilità perduta del risultato sperato .Ne consegue che il soggetto che agisce per ottenere il risarcimento del danno da perdita di chance è tenuto ad allegare e provare l’esistenza dei suoi elementi costitutivi, ossia di una plausibile occasione perduta, del possibile vantaggio perso e del correlato nesso causale, fornendo la relativa prova, pure mediante presunzioni, ed eventualmente ricorrendo anche ad un calcolo di probabilità. In definitiva, il danno da chance perduta consiste non nella perdita di un vantaggio, economico e/o non economico, che sia certo ed attuale, ma nella perdita della concreta possibilità di conseguire un vantaggio sperato.
CASO
Una donna trentenne, con fondate aspirazioni di entrare nel mondo della moda e dello spettacolo e di diventare una modella, citava in giudizio un’Azienda ospedaliera universitaria, onde chiederne la condanna al risarcimento dei danni subìti, in esito ad un intervento di mastectomia sottocutanea bilaterale, con contestuale ricostruzione del seno, volta ad un’espansione mammaria.
I controlli post-operatori avevano evidenziato che le protesi mammarie erano state malamente posizionate. Ne conseguiva un’infiammazione locale ed infine un’infezione diffusa. Talché, qualche giorno più tardi, entrambe le protesi venivano asportate chirurgicamente, a causa di una necrosi cutanea in zona mammaria sinistra.
La donna, su consiglio dei propri medici di fiducia, rifiutava di sottoporsi nella medesima struttura ad un intervento chirurgico riparativo, lamentando una situazione irreversibile di devastazione mammaria toracica, associata a sintomatologia dolorosa e limitazione nei movimenti.
Il Giudice di prime cure accoglieva la domanda risarcitoria proposta dall’attrice.
Quest’ultima, tuttavia, ritenendo non congrua la quantificazione del danno operata dal Tribunale, impugnava la sentenza di primo grado avanti alla Corte d’Appello, sostenendo di aver subìto un danno biologico non inferiore al 30-32% e di avere, altresì, diritto al risarcimento del danno morale ed esistenziale, unitamente alla perdita di chance, tenuto conto che i postumi dell’intervento incidevano non solo sulle sue condizioni fisiche e psicologiche, ma anche sui suoi rapporti sociali e lavorativi, stante la sua giovane età e l’attività di “ragazza immagine” svolta all’epoca dei fatti.
La Corte di merito confermava però la sentenza di primo grado e, quindi, la quantificazione degli esiti permanenti nella misura del 22-23% e rigettava la richiesta di un aumento del risarcimento nei confronti dell’Azienda ospedaliera, ritenendo non provate le circostanze volte a giustificarne un aumento in via di personalizzazione. Parimenti riteneva non provato il danno morale ed il danno da perdita di chances lavorative. Rigettava, infine, la domanda di risarcimento del danno esistenziale in quanto voce duplicatoria.
La donna proponeva ricorso in Cassazione, articolato in quattro morivi.
SOLUZIONE
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione coglie l’occasione per confermare che il risarcimento del danno da perdita di chance “esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, dell’esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere in termini di certezza o di elevata probabilità la sua esistenza”. Il Collegio ha chiarito che “la chance non è una mera aspettativa di fatto, bensì deve tradursi nella concreta ed effettiva possibilità di conseguire un determinato risultato (nella specie, la possibilità di affermazione nel mondo della moda con la carriera di modella) o un certo bene giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, e che la sua perdita configura un danno concreto ed attuale commisurato alla possibilità perduta del risultato sperato”.
QUESTIONI
La Suprema Corte ha ritenuto fondato unicamente il terzo motivo di ricorso – con cui la ricorrente aveva lamentato l’omesso esame di fatti decisivi del giudizio, in relazione alla mancata personalizzazione del danno, al rigetto della domanda di risarcimento del danno morale e del danno da perdita di chance – con riferimento al rigetto della domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno morale e del danno da perdita di chance.
Quanto al danno morale, secondo gli Ermellini, la Corte territoriale, dopo aver ritenuto accertata l’invalidità permanente, comprensiva di un importante danno estetico e limitazioni funzionali, si è poi solo apparentemente uniformata all’orientamento giurisprudenziale secondo cui “in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, il danno morale consiste in uno stato d’animo di sofferenza interiore che rileva autonomamente, a prescindere dalle vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato”. Infatti, in maniera piuttosto sbrigativa, la Corte d’appello ha rigettato la domanda volta al risarcimento del danno morale, sostenendo che si trattasse di pregiudizi solo allegati e non provati dalla donna e che si dovesse intendere quanto liquidato a titolo di danno biologico comprensivo anche delle sofferenze patite per l’isolamento sociale e l’abbandono dell’attività lavorativa.
La Corte di merito, quindi, ha ribadito la necessità di sottrarsi ad ogni prassi di automaticità nel riconoscimento del danno morale in corrispondenza del contestuale riscontro del danno biologico, stante l’esigenza di evitare duplicazioni risarcitorie, atte a determinare un’ingiusta locupletazione del danneggiato, ove questi si sia sottratto – come rilevato dalla corte di merito – ad una rigorosa prova di fatti idonei a supportare la sofferenza patita, in conseguenza dell’illecito e rilevabili sul piano del proprio equilibrio affettivo-emotivo.
Tale conclusione, tuttavia, si pone in contrasto con “il principio della integrale valutazione del pregiudizio non patrimoniale complessivamente subìto e più specificamente con quello secondo cui, ai fini dell’accertamento della sussistenza di un danno morale, in tema di danno non patrimoniale discendente dalla lesione della salute, se è vero che all’accertamento di un danno biologico non può conseguire in via automatica il riconoscimento del danno morale, la lesione dell’integrità psico-fisica può rilevare, sul piano presuntivo, ai fini della dimostrazione di un coesistente danno morale, alla stregua di un ragionamento cui deve riconoscersi efficacia tanto più limitata, quanto più basso sia il grado percentuale di invalidità permanente, dovendo ritenersi normalmente assorbito nel danno biologico di lieve entità tutte le conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle misurabili sotto il profilo del danno morale” (Cass. n. 6444 del 2023).
Secondo gli Ermellini, quindi, la corte di merito si è limitata a fondare la valutazione del danno morale sulle sole prove orali, che non erano state adeguatamente reiterate, senza neanche valutare se al danno fisico, estetico e funzionale (la permanente deturpazione del seno di un giovane donna), processualmente accertato, potessero associarsi patimenti interiori e compromissioni dell’equilibrio emotivo ed affettivo della donna (che medio tempore si era anche separata dal marito). La corte d’appello non ha, cioè, indagato il presumibile stato d’animo conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente garantito.
Il terzo motivo di ricorso viene accolto anche con riferimento all’omesso riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da perdita di chance (intesa come chances patrimoniali di futuro guadagno).
La Corte di merito ha ritenuto che la donna non avesse provato l’avvio ad una carriera nel settore pubblicitario e della moda o di ragazza immagine ed ha affermato che, al fine di ottenere il risarcimento del danno da perdita di chance occorra provare, anche in via presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, l’esistenza di elementi oggettivi da cui desumerne in termini di certezza o di elevata probabilità la sua esistenza.
Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte chiarisce che, in realtà, la prova del danno da perdita di chance si sostanzia nella dimostrazione dell’esistenza e della apprezzabile consistenza di tale possibilità perduta, da valutarsi non in termini di certezza ma di apprezzabile probabilità – nel caso di specie, in termini di affermazione economica nel mondo del lavoro nel campo prescelto – prova che può essere data con ogni mezzo, e quindi anche mediante presunzioni.
Occorre poi la prova della sussistenza del nesso causale tra la condotta colpevole e l’evento dannoso (nella fattispecie le possibilità lavorative perdute a causa delle permanenti condizioni fisiche, estetiche e funzionali, della danneggiata, con il venire meno delle concrete possibilità di affermazione nel campo lavorativo o professionale prescelto).
La prova di tali elementi costitutivi può essere fornita con ogni mezzo, anche mediante presunzioni, eventualmente ricorrendo anche ad un calcolo di probabilità.
Gli Ermellini, quindi, chiariscono che il danno da chance perduta consiste “non nella perdita di un vantaggio, economico e/o non economico, che sia certo ed attuale, ma nella perdita della concreta possibilità di conseguire un vantaggio sperato“.
Pertanto, nel rigettare la domanda, la corte d’appello ha errato nel ritenere che la valutazione in termini di danno risarcibile della chance “debba essere compiuta col metro della certezza e non piuttosto con quello della possibilità qualificata secondo i canoni della apprezzabilità, serietà, consistenza – così confondendo, sovrapponendoli, il piano della causalità con quello dell’evento di danno – e, per altro verso, omette totalmente di considerare alcune evidenze documentali“.
La Corte di merito avrebbe dovuto tenere in considerazione la riduzione della capacità lavorativa generica della donna, a cui era stata riconosciuta un’invalidità civile nella misura del 67%. Anche con riferimento alle prospettive di lavoro future, il Giudice di secondo grado avrebbe dovuto valutare le dichiarazioni dell’agenzia per modelle, presso cui la donna lavorava, che aveva realizzato un book fotografico. Secondo la Suprema Corte, tali circostanze erano “tutte da valutare nella loro idoneità a comprovare non un avviato percorso lavorativo in ordine al quale poter lamentare la perdita certa di una capacità reddituale già in atto, ma la perdita della possibilità di affermarsi nel campo che la ricorrente aveva prescelto all’epoca dei fatti, della cui riuscita non poteva essere certa al momento dell’intervento sanitario, ma rispetto al quale aveva delle apprezzabili probabilità di conseguire un risultato diverso e migliore, che dopo l’accaduto le sono state del tutto precluse”.
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