Eppur si muove, anche il greenwashing
di Giulia Maria Picchi - Senior partner Marketude Scarica in PDFUna persona qualsiasi va a fare la spesa, sta per acquistare un pacco di farina quando le viene la curiosità di sapere di che cosa è fatta la confezione in cui è contenuta e come si ricicla.
Vuole anche sapere se il prodotto -nel senso del contenuto- è biologico, ammettendo, ma silenziosamente e solo con se stessa, che, in effetti, vorrebbe anche sapere meglio che cosa si intende con biologico.
Vede una serie di etichette, praticamente tutte di colore verde, del tutto incomprensibili e sconosciute. A quel punto comincia a interrogarsi se il pacco di farina posizionato sullo scaffale accanto a quello che sta esaminando non sia magari meglio -sotto il profilo della sostenibilità, si intende. Ma su quello non trova le stesse etichette e quindi l’esercizio diventa impossibile da portare a termine -fermo restando che comunque non gli è stato possibile interpretare nemmeno le prime che ha visto.
Innervosito e con il sospetto strisciante di essere in qualche modo raggirato, il nostro cliente comincia a pensare che tanto ormai chiunque urla al mondo di fare prodotti sostenibili, anche quando non è affatto vero e a quel punto, neanche fosse davanti alla televisione invece che al supermercato, gli appare la scritta greenwashing in sovraimpressione su tutto quello che tocca.
E’ proprio sulla scorta di un’indagine che ha messo in evidenza la proliferazione di etichette e green claim -in sintesi senza adeguati processi di verifica e prove a supporto- che lo scorso marzo[1] la Commissione Europea ha deciso di pubblicare una bozza di direttiva https://environment.ec.europa.eu/topics/circular-economy/green-claims_en per regolamentare l’uso dei c.d. green claim in modo da:
– tutelare i consumatori dal greenwashing,
– rendere le “affermazioni verdi” affidabili, comparabili e verificabili (almeno in tutta l’Unione Europea),
– contribuire a creare un’economia circolare permettendo alle persone di prendere decisioni di acquisto informate e, infine,
– definire il perimetro “di gioco” quando si parla della performance ambientali dei prodotti.
Perché la verità è che, purtroppo, non esiste (ancora?) una normativa specifica che indichi che cosa si intende per greenwashing e quindi si deve usare quello che meglio si adatta ai vari casi di volta in volta, che sia il Codice del Consumo -che sanziona la pubblicità ingannevole nei rapporti business to business- o che sia il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale -in particolare il suo art. 12 che delinea i caratteri che la comunicazione pubblicitaria basata sulla enucleazione di benefici ambientali deve avere perché sia considerata lecita.
Questo con riferimento ai comportamenti scorretti che -almeno a mio avviso- andrebbero sanzionati con decisione in quanto dannosi nei confronti sia della buona fede di chi acquista, sia di quelle aziende che si stanno impegnando e comportando in modo rispettoso e serio.
Spostando l’attenzione e guardando invece al greenwashing da un’altra prospettiva, e cioè quella di chi si occupa di marketing e comunicazione, si scopre che esistono anche delle linee guida, per esempio quelle pubblicate oltreoceano dalla Federal Trade Commission, nate -lasciatemelo sottolineare, nel 1992 e poi successivamente revisionate nel 1996, 1998 e infine 2012- proprio per aiutare i c.d. marketers a svolgere al meglio il loro lavoro.
E cioè ad evitare di inventare claim riferiti ai benefici ambientali del prodotto non veritieri o ingannevoli, o anche “semplicemente” che potessero confondere o fuorviare i consumatori.
Claim che inneggiano a prodotti environmentally-friendly (amico dell’ambiente), eco-friendly ma anche l’uso di altri termini come carbon offsets (compensazioni delle emissioni) e ancora di dichiarazioni “free of” (privo di), non-toxic (non tossico/atossico), prodotto con energie rinnovabili, realizzato con materie prime provenienti da fonti rinnovabili hanno trovato spazio nelle nuove sezioni della guida che è ricca anche di esempi illuminanti su come sia facile trarre in inganno chi acquista pur dicendo la verità e nient’altro che la verità.
Di certo comunicare la sostenibilità è una bella sfida: da un lato le imprese che premono per cogliere l’opportunità che deriva dalla crescente sensibilità al tema da parte del pubblico (nel bene o nel male che sia), dall’altro l’assenza di normative puntuali.
In mezzo esperti di marketing e comunicazione che però, magari, non sempre conoscono a fondo il tema della sostenibilità e che, soprattutto, sono abituati a usare un registro diverso: quello figlio delle logiche consumistiche secondo cui l’importante è convincere i consumatori appunto, ad acquistare più che, al contrario, dare loro le informazioni e gli strumenti necessari per prendere delle decisioni consapevoli.
[1] Lo scorso 11 maggio il Parlamento Europeo ha approvato il mandato negoziale
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