12 Aprile 2023

La fornitura di mangimi tossici integra un aliud pro alio

di Paolo Cagliari, Avvocato Scarica in PDF

Cass. civ., sez. II, 13 dicembre 2022, n. 36360 – Pres. Di Virgilio – Rel. Trapuzzano

Parole chiave: Contratto di compravendita – Consegna di cosa inidonea a fornire l’utilità richiesta – Aliud pro alio – Sussistenza – Azione di risoluzione o di adempimento – Termini di decadenza e di prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c. – Inapplicabilità

[1] Massima: “In tema di compravendita, si ha consegna di aliud pro alio, che dà luogo all’azione di risoluzione o di adempimento ai sensi dell’art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e di prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c., ogni qual volta il bene venduto sia completamente diverso da quello pattuito, in quanto, appartenendo a un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere la destinazione economico-sociale della res venduta e, quindi, a fornire l’utilità richiesta”.

Disposizioni applicate: cod. civ., artt. 1453, 1490, 1495, 1497

CASO

Una società fornitrice di mangimi agiva in via monitoria per il pagamento dei corrispettivi dovutile dal titolare di un’azienda agricola, il quale proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Perugia, eccependo il grave inadempimento contrattuale imputabile alla controparte.

In particolare, l’opponente lamentava che il mangime fornito fosse gravemente inquinato, a causa della presenza di quantitativi di rame diverse volte superiore al limite previsto dalla legge, tanto da avere provocato una grave intossicazione del bestiame cui era stato somministrato, com’era risultato, da un lato, dagli accertamenti veterinari effettuati con l’assistenza del consulente della società fornitrice e, dall’altro lato, all’esito del procedimento per accertamento tecnico preventivo incardinato avanti al Tribunale di Grosseto. In considerazione di ciò, il mangime fornito era assolutamente privo delle qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione economico-sociale e inidoneo allo scopo per il quale era stato acquistato.

Costituitasi nel giudizio di opposizione, la società fornitrice contestava l’inadempimento addebitatole ed eccepiva l’intervenuta decadenza dalla garanzia per vizi, nonché la prescrizione della relativa azione.

L’opposizione veniva respinta, con sentenza gravata innanzi alla Corte d’appello di Perugia, che, tuttavia, confermava la pronuncia di primo grado.

Il titolare dell’azienda agricola proponeva, quindi, ricorso per cassazione.

SOLUZIONE

[1] La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo che i vizi della fornitura lamentati dal ricorrente fossero tali da configurare la consegna di un aliud pro alio, con la conseguenza che l’azione di risoluzione contrattuale proposta dal titolare dell’azienda agricola era svincolata dai termini di decadenza e di prescrizione sanciti dall’art. 1495 c.c.

QUESTIONI

[1] Nella fattispecie decisa con l’ordinanza che si annota, il titolare di un’azienda agricola, al quale era stato ingiunto il pagamento dei corrispettivi dovuti per la fornitura di una partita di mangimi che, all’esito delle verifiche condotte, era risultata caratterizzata dalla presenza di quantità di sostanze tossiche in misura superiore a quella consentita dalla legge, aveva proposto opposizione al decreto ingiuntivo notificatogli, contestando l’inadempimento della società fornitrice; la Corte di cassazione, riformando la sentenza di secondo grado che aveva confermato il rigetto dell’opposizione proposta, ha affermato che il vizio lamentato era tale da configurare un aliud pro alio, con la conseguenza che – a differenza di quanto erroneamente ritenuto dai giudici di merito – non potevano reputarsi applicabili i termini di decadenza e di prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c. in tema di compravendita.

In linea generale, va rammentato che, secondo quanto stabilito dall’art. 1490 c.c., il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che possano renderla inidonea all’uso cui è destinata o che ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore. Com’è stato affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 11748 del 3 maggio 2019, l’immunità da vizi della res vendita non assurge a contenuto del precetto negoziale, poiché l’obbligazione di consegna gravante sul compratore ha per oggetto esattamente quella cosa (o quelle cose) – ancorché eventualmente viziate – che ha (o hanno) formato oggetto dell’accordo traslativo, nello stato in cui si trovavano nel momento della conclusione del contratto; pertanto, il venditore è legalmente assoggettato all’applicazione dei rimedi edilizi (risoluzione del contratto o riduzione del prezzo), nel caso in cui la cosa consegnata risulti affetta da vizi, non già in quanto inadempiente, ma in conseguenza dell’imperfetta attuazione del risultato traslativo promesso.

Il diritto di garanzia che l’ordinamento appresta a favore dell’acquirente e che lo legittima a chiedere, a sua scelta, la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo, oltre al risarcimento del danno, è assoggettato a termini particolarmente stringenti: l’art. 1495 c.c., infatti, stabilisce la decadenza da tale diritto se i vizi riscontrati non vengono denunciati al venditore entro otto giorni dalla scoperta (fatto salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge) e, in ogni caso, la prescrizione dell’azione una volta che sia decorso un anno dalla consegna.

Ne consegue che, quand’anche la denuncia sia stata tempestiva (essendo, peraltro, superflua quando il venditore ha riconosciuto l’esistenza del vizio o l’ha occultato), il compratore nulla potrà pretendere qualora il vizio si sia manifestato a oltre un anno di distanza da quando la cosa gli è stata consegnata.

L’acquirente non è legittimato ad avvalersi della garanzia, sebbene la cosa sia affetta da vizi, quando li conosceva al momento della conclusione del contratto, o avrebbe potuto facilmente ravvisarne l’esistenza (salvo che, in questo caso, il venditore abbia dichiarato che la cosa ne era esente), come stabilisce l’art. 1491 c.c.

L’art. 1497 c.c., tuttavia, detta una regola particolare per il caso in cui la cosa venduta non presenti semplici vizi (ossia imperfezioni materiali della cosa, attinenti al suo processo di produzione, fabbricazione e formazione, che incidono sulla sua utilizzabilità e la rendono inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscono il valore in modo apprezzabile), ma non possieda le qualità promesse, ovvero quelle essenziali per l’uso cui è destinata e che influiscono sulla sua classificazione in una specie piuttosto che in un’altra: in simili evenienze, il compratore ha diritto di ottenere la risoluzione del contratto secondo le disposizioni dettate degli artt. 1453 e seguenti c.c. (fermi restando i termini di decadenza e di prescrizione previsti dall’art. 1495 c.c.), purché il difetto di qualità ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi.

Al di fuori di questi casi e quando la cosa venduta appartenga addirittura a un genere diverso da quello della cosa consegnata, ovvero presenti difetti che le impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti e, così, di fornire l’utilità richiesta, secondo la sua destinazione economico-sociale, non si parla di vizio o assenza di qualità essenziali, ma di aliud pro alio.

Con questa espressione, la giurisprudenza è solita indicare quelle fattispecie nelle quali tra cosa venduta e cosa consegnata sussiste una diversità tale (che può riguardare tanto un aspetto materiale, quanto un attributo squisitamente giuridico) da non potersi parlare di mero vizio o difetto (ossia, come visto in precedenza, di imperfetta attuazione del programma traslativo sotteso alla compravendita), ma di vero e proprio inadempimento: per questo motivo, l’azione di risoluzione che può essere promossa dall’acquirente non è inquadrabile in alcuna di quelle disciplinate dagli artt. 1492 e 1497 c.c., ma si inscrive nell’ambito di previsione dell’art. 1453 c.c., con la conseguenza che risulta sottratta ai termini di decadenza e di prescrizione stabiliti dall’art. 1495 c.c.

Sempre per questo motivo, la disciplina dell’aliud pro alio è invocabile anche nell’ipotesi di vendita forzata, sebbene l’art. 2922 c.c. escluda espressamente l’applicabilità a essa delle norme sulla garanzia per i vizi della cosa.

Dalla qualificazione in termini di inadempimento della condotta della società che aveva fornito mangimi inquinati, la Corte di cassazione, con l’ordinanza che si annota, ha fatto discendere una serie di conseguenze che hanno condotto all’annullamento della sentenza che aveva respinto l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal titolare dell’azienda agricola il cui bestiame era stato intossicato.

In primo luogo, il fatto che, con l’atto introduttivo di detta opposizione, fosse stato dedotto che la totale inidoneità del mangime allo scopo per il quale era stato acquistato (avendo esso determinato un fenomeno di grave intossicazione da rame nel bestiame cui era stato somministrato), a causa dell’eccessiva concentrazione di rame (che aveva causato patologie negli ovini, provocando la morte di numerosi capi), integrava un inadempimento contrattuale, rendeva chiaro ed evidente che l’acquirente non si fosse lamentato della presenza di semplici vizi, ma avesse denunciato la sussistenza di un vero e proprio aliud pro alio.

In secondo luogo, non poteva mettersi in discussione l’effettiva ricorrenza di un aliud pro alio, dal momento che la tossicità del mangime ne impedisce in radice la sua idoneità al commercio e preclude l’assolvimento della funzione economico-sociale che dovrebbe perseguire.

In terzo luogo, sollevata dal titolare dell’azienda agricola l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. per contrastare la pretesa creditoria azionata con il ricorso monitorio, era onere della società fornitrice del mangime dimostrare di avere correttamente adempiuto la propria obbligazione, vale a dire che il mangime fornito apparteneva alla particolare species convenuta ed era così idoneo ad assolvere la propria funzione economico-sociale, nonché a fornire l’utilità richiesta.

Per tutte queste ragioni, i giudici di merito avevano errato nel ritenere che il diritto del titolare dell’azienda agricola di ottenere la risoluzione del contratto di compravendita si fosse prescritto e che, in ogni caso, incombesse su di lui l’onere della prova dell’esistenza del difetto di conformità del mangime acquistato (come accade quando il compratore lamenti la presenza di vizi, sulla scorta di quanto affermato dalla già citata pronuncia di Cass. civ., sez. un., 3 maggio 2019, n. 11748, secondo la quale il diritto del compratore di essere garantito ha nell’esistenza del vizio un elemento costitutivo, che, alla luce del principio scolpito nell’art. 2697 c.c., deve essere provato dal compratore medesimo, qualora agisca in giudizio per ottenere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo, anche in ossequio al principio di vicinanza della prova, visto che, dopo la consegna, è il compratore ad avere la disponibilità della cosa venduta, necessaria per lo svolgimento degli esami funzionali all’accertamento del vizio lamentato).

Di qui, l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia per un nuovo esame della vicenda.

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