27 Settembre 2022

La parte vittoriosa nel merito ma soccombente su eccezioni di rito deve proporre appello incidentale

di Valentina Baroncini, Professore associato di Diritto processuale civile presso l'Università degli Studi di Verona Scarica in PDF

Cass., sez. II, 13 settembre 2022, n. 26850, Pres. Falaschi – Est. Falaschi

[1] Eccezioni di rito – Rigetto- Appello incidentale – Riproposizione (artt. 342, 343, 346 c.p.c.)

Massima: “Con riguardo alle eccezioni di rito, qualora esse siano state disattese espressamente o indirettamente dal primo giudice, non è dubbio che la parte soccombente su di esse, ma vittoriosa quanto all’esito finale della lite, si trovi in posizione di soccombenza. Ne deriva che se essa vuole ottenere che l’eccezione sia riesaminata dal giudice del gravame, investito dell’appello principale sul merito della controparte, deve farlo proponendo appello incidentale, non invece ai sensi dell’art. 346 c.p.c.”. 

CASO

[1] Il provvedimento che si commenta ha deciso un giudizio scaturito dalla riunione tra un primo processo di divisione ereditaria e un differente giudizio che uno dei figli del de cuius, donatario di un bene immobile, instaurava nei confronti di un fratello al fine di ottenere il rilascio di tale bene, detenuto senza titolo dal convenuto, il quale, a sua volta, proponeva domanda riconvenzionale per il rimborso delle migliorie apportate all’immobile.

Dopo la disposta la riunione delle cause, i convenuti costituiti nel primo giudizio proponevano domanda riconvenzionale di usucapione sui beni ereditari.

Per quanto di interesse ai fini del presente commento, rileviamo che l’adito Tribunale di Isernia, con sentenza non definitiva, in riferimento alla prima causa rigettava le domande riconvenzionali di usucapione, disponendo la prosecuzione del giudizio con supplemento di CTU, ai fini della predisposizione di un progetto divisionale.

Investita di gravame – su tale sentenza e sulla successiva, definitiva, di scioglimento della comunione ereditaria e assegnazione delle quote come descritte nella relazione del CTU -, la Corte d’appello di Campobasso riformava la pronuncia non definitiva dichiarando – in accoglimento dell’eccezione sollevata da alcuni eredi nella comparsa di costituzione in appello – l’inammissibilità della riconvenzionale di usucapione formulata dagli appellanti.

In particolare, la Corte distrettuale, in riferimento alla regolarità della costituzione in primo grado dei convenuti, affermava che la dichiarazione del giudice istruttore secondo cui i medesimi si erano regolarmente costituiti non equivaleva ad attestare la loro tempestiva costituzione, con conseguente decadenza degli stessi dalla facoltà di proporre domande riconvenzionali. Aggiungeva la Corte che la relativa eccezione di decadenza – pur non sollevata in primo grado né rilevata d’ufficio dal giudice di prime cure – era stata tempestivamente proposta in sede di appello ai sensi dell’art. 345, 2°co., c.p.c. dagli appellanti in via incidentale, per cui era idonea a impedire la formazione del giudicato interno sul punto. Pertanto, in riforma della sentenza non definitiva, la Corte di merito dichiarava inammissibile per tardività la domanda di usucapione formulata in via riconvenzionale.

Avverso tale decisione, i convenuti in primo grado proponevano ricorso per cassazione lamentando, per quanto di rilievo ai fini del presente commento, violazione e falsa applicazione, ex art. 360, n. 3), c.p.c., degli artt. 324, 329, 340, 343 e 354, 2°co., c.p.c., nonché l’omesso esame di un fatto storico principale desumibile dal testo della sentenza non definitiva del Tribunale di Isernia e dagli atti processuali. In particolare, i ricorrenti hanno censurato la sentenza di secondo grado laddove dichiarava l’inammissibilità per tardività della domanda riconvenzionale di usucapione, in accoglimento dell’eccezione preliminare sollevata dagli appellanti in via incidentale, la quale sarebbe stata da considerare irrituale e intempestiva, con conseguente formazione di giudicato interno sul punto. I ricorrenti hanno sostenuto che l’eccezione di inammissibilità della domanda riconvenzionale sollevata da controparte non avrebbe dovuto essere formulata in via di semplice eccezione ma, al contrario, avrebbe dovuto essere introdotta nella forma e come motivo di appello incidentale ex art. 343, 2°co., c.p.c. avverso la sentenza non definitiva.

SOLUZIONE

[1] La Cassazione ritiene fondato il motivo di ricorso proposto.

I giudici di legittimità hanno dapprima evidenziato che dall’esame del fascicolo d’ufficio – attività ammissibile in tal sede, per essere stato prospettato nella sostanza un error in procedendo pur sotto la forma dell’error in iudicando – fosse possibile evincere che i resistenti avessero sollevato in primo grado l’eccezione di inammissibilità per tardività della domanda riconvenzionale solo nelle memorie di replica alla comparsa conclusionale. Altrettanto pacifico era che, nella sentenza non definitiva di primo grado, la questione della tardività della domanda riconvenzionale non risultasse esaminata, avendo il Tribunale rigettato tale domanda per carenza di prova, senza dedicare alcun cenno alla questione della relativa tempestività. Dal tenore di tale sentenza emerge, quindi, che l’eccezione circa la tardività della domanda riconvenzionale dei predetti convenuti non avesse formato oggetto di alcuna pronuncia di accertamento positivo, sia pure indiretta, ma sia stata semplicemente trascurata dal tribunale. Va dunque escluso che la sentenza di primo grado contenesse alcuna statuizione di ammissibilità della domanda riconvenzionale dei convenuti.

Secondo la Cassazione, poiché l’eccezione di rito doveva essere esaminata prima del merito e ne condizionava l’esame, il silenzio del giudice si è risolto (ancorché la sua opinione sull’eccezione di rito non sia stata manifestata e possa, in ipotesi, essere espressione di scelta della soluzione “più liquida”) in un error in procedendo, cioè nell’inosservanza della regola per cui il merito si sarebbe potuto esaminare solo per il caso di infondatezza dell’eccezione di rito. La violazione di tale regola, in quanto ha inciso sulla decisione, esigeva allora una reazione con l’appello incidentale e non la riproposizione dell’eccezione di rito, perché è necessario che essa venga espressa con un’attività di critica del modus procedendi del giudice di primo grado, che necessariamente avrebbe dovuto esaminare l’eccezione di rito. Il giudice d’appello doveva esser investito dalla denuncia dell’esistenza del vizio della sentenza per l’eccezione di rito di cui trattasi (in termini, Cass. n. 1791 del 2009; Cass. n. 10073 del 2003; Cass. n. 603 del 2003; Cass. n. 3927 del 2002; Cass. n. 14670 del 2001; Cass. n. 5482 del 1997).

Quindi, nel caso di specie, secondo i giudici di legittimità la devoluzione al giudice d’appello dell’eccezione andava necessariamente introdotta da appello incidentale: tutte le ragioni di dissenso rispetto alla decisione del primo giudice debbono essere infatti manifestate con l’impugnazione e ciò anche rispetto a quanto quel giudice non ha deciso affatto, nei termini sopra intesi.

A conferma di tale conclusione la Suprema Corte richiama l’art. 342 c.p.c.: la valutazione del primo giudice sull’eccezione è infatti omessa nella motivazione della sua sentenza, onde, rispetto ad essa, la posizione di chi risulti nel merito vittorioso non può che essere omologa a quella dell’appellante principale, che, di fronte ad una parte della motivazione che gli dà torto, se la vuole ridiscutere, deve farla oggetto dell’appello; altro, all’opposto, è contenuto concettuale e normativo dell’istituto della mera riproposizione delle difese ed eccezioni.

Con riferimento quindi alle eccezioni di rito, come certamente era quella della tardività della domanda riconvenzionale nel presente caso, in quanto diretta a ottenere la dichiarazione di inammissibilità della medesima, qualora esse siano state disattese espressamente o indirettamente dal primo giudice, non è dubbio che la parte soccombente su di esse, ma vittoriosa quanto all’esito finale della lite si trovi, dunque, in posizione di soccombenza. Ne deriva che se essa vuole ottenere che l’eccezione sia riesaminata dal giudice del gravame, investito dell’appello principale sul merito della controparte, deve farlo proponendo appello incidentale e non ai sensi dell’art. 346 c.p.c.

La Suprema Corte conclude ritenendo che l’impugnazione incidentale costituisca l’unico rimedio per ovviare al rigetto (espresso o implicito) nonché all’omesso esame (ricomprendendosi in quest’ultima espressione tanto l’ipotesi di illegittima pretermissione quanto la violazione dell’ordine di decisione delle domande e/o delle eccezioni impresso dalla parte) di una domanda e/o di un’eccezione; la riproposizione entra in gioco nei soli casi in cui non vi è la necessità di spiegare una critica nei confronti della sentenza impugnata, ovvero nelle ipotesi di legittimo assorbimento, nelle quali la parte può limitarsi – mancando una decisione sulla domanda e/o sull’eccezione avanzata – a riproporre l’istanza non esaminata, cioè non accolta in quanto ritualmente assorbita.

Alla luce di tale orientamento, la parte totalmente vittoriosa nel merito, ma soccombente su questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito, per devolvere alla cognizione del giudice superiore la questione rispetto alla quale ha maturato una posizione di soccombenza (teorica), deve spiegare appello incidentale.

Ciò impone, sul piano della tecnica processuale, il rispetto dei rigidi dettami di cui all’art. 342 c.p.c. nonché dei tempi di cui all’art. 343 c.p.c., pena l’inammissibilità del gravame e il conseguente passaggio in giudicato della stessa questione ex art. 329, 2°co., c.p.c.

Per tali motivi, la Corte ha accolto il primo motivo di ricorso, cassando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Campobasso, in diversa composizione.

QUESTIONI

[1] La questione di diritto risolta dalla Suprema Corte si identifica nello stabilire se il giudice di appello debba e possa rilevare d’ufficio la tardività di una domanda riconvenzionale che il giudice di primo grado abbia rigettato nel merito senza, tuttavia, pronunciarsi sulla tempestività della medesima, nonché sull’eccezione di tardività pure sollevata dalle controparti in primo grado, ma non introdotta dalle stesse in appello se non in via di mera eccezione.

Su tali questioni la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di esprimersi a più riprese, proponendo tuttavia soluzioni non univoche.

In senso contrario alla possibilità che la tardività della domanda riconvenzionale del convenuto, non rilevata in primo grado, possa, in difetto di specifica impugnazione sul punto da parte dell’attore, essere rilevata d’ufficio dal giudice di appello sembra muovere l’argomentazione rinvenibile in Cass., sez. un., n. 11799 del 2017, là dove si afferma che il mancato esame di una eccezione pregiudiziale di rito astrattamente idonea a precludere l’esame di una domanda che, di fatto, sia stata esaminata dal giudice e rigettata nel merito, onera la parte che l’aveva proposta, ancorché vittoriosa nel merito, di proporre appello incidentale, restando quindi preclusa, in mancanza di impugnazione, la possibilità per la parte di riproporre l’eccezione ai sensi dell’art. 346 c.p.c.

Per la rilevabilità officiosa della inammissibilità della domanda riconvenzionale tardivamente proposta, non rilevata in primo grado e non dedotta con motivo di gravame, si sono espresse, tra le altre, Cass. n. 7941 del 2020 e Cass. n. 24606 del 2006, che hanno ritenuto non preclusa la rilevabilità ex officio da parte del giudice di appello della decadenza in cui la parte è incorsa in primo grado nella attività di deduzione probatoria, per inosservanza del termine perentorio assegnato dal giudice, trattandosi di decadenza sottratta alla disponibilità delle parti.

L’argomento posto a fondamento della tesi appena esposta può essere così compendiato: nel caso in cui il vizio di nullità acceda come mero presupposto logico all’ingresso dell’esame e della decisione di una questione di merito (domanda o eccezione che sia), la statuizione della sentenza che decide sulla questione di merito, senza occuparsi del predetto vizio processuale (non eccepito né rilevato ex officio), non comporta – in difetto di specifica impugnazione volta a far valere il vizio presupposto – la cristallizzazione della invalidità/decadenza attraverso il giudicato implicito interno, con la conseguenza che non è dato ravvisare limiti alla denunciabilità/rilevabilità officiosa del vizio in ogni stato e grado del processo e quindi anche, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.

La questione è stata sottoposta all’esame della Cassazione anche di recente: nel condividere la soluzione testé riportata, la Suprema Corte ha elaborato il seguente principio di diritto: “il potere di rilievo anche ex officio dei vizi relativi alla attività processuale, attribuito dalla norma del processo o desumibile dallo scopo di interesse pubblico, indisponibile dalle parti, sotteso alla norma processuale che stabilisce un requisito formale, prescrive un termine di decadenza o prevede il compimento di una determinata attività, deve essere esercitato dal giudice di merito, in difetto di espressa autorizzazione normativa alla rilevazione in ogni stato e grado ed escluse le ipotesi di vizi relativi a questioni fondanti (che rendono l’attività svolta del tutto difforme dal modello legale del processo), al più tardi entro il grado di giudizio nel quale il vizio si è manifestato, rimanendo precluso tanto al giudice del gravame, quanto alla Corte di cassazione, il potere di rilevare, per la prima volta, tale vizio di ufficio (o su eventuale sollecitazione della parte interessata all’esercizio di tale potere officioso), ove la relativa questione non abbia costituito specifico motivo di impugnazione, ovvero sia stata ritualmente riproposta, atteso che, qualora il giudice di primo grado abbia deciso la controversia nel merito, omettendo di pronunciare espressamente sul vizio (e nonostante la eventuale eccezione della parte interessata), la relazione di implicazione necessaria tra la soluzione – ancorché implicita – adottata in ordine alla validità/ammissibilità della domanda/eccezione di merito (questione processuale pregiudiziale) e l’esame e la pronuncia espressa sulla domanda/eccezione (questione di merito dipendente), determina la intangibilità della decisione implicita sulla questione processuale ove non specificamente investita con i mezzi impugnatori, in applicazione del principio di conversione del vizio in motivo di gravame ex art. 161, 1°co., c.p.c., non trovando ostacolo nel carattere implicito della decisione la formazione del giudicato processuale interno”.

Il provvedimento in epigrafe, evidentemente, condivide siffatta impostazione, avendo ritenuto che, nel caso di specie, il Tribunale di Isernia ha violato l’art. 276 c.p.c., trattando direttamente – e solamente – il merito della causa, senza affrontare dapprima la questione preliminare in rito riguardante la tardività della stessa domanda riconvenzionale, pure eccepita dalla controparte. Tale disinteresse, a differenza di quello su un’eccezione di merito, non si presta affatto solo a una valutazione astratta di infondatezza dell’eccezione ma può anche essere indice del fatto che il giudice ha solo scelto la soluzione più liquida per risolvere la controversia o, si tratta di una questione del tutto autonoma rispetto a quella, esaminata, relativa alla fondatezza della domanda medesima, sicché non può ragionarsi, in questo caso, in termini di assorbimento, che consente alla parte totalmente vittoriosa di riproporre la questione senza necessità di prospettare uno specifico motivo di impugnazione.

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