La mancata tenuta delle scritture contabili non esonera il curatore fallimentare dall’onere di dimostrare il nesso di causalità tra il dissesto e la condotta degli amministratori
di Eleonora Giacometti, Avvocato Scarica in PDFCorte di Cassazione, Sez. I civ., 12 maggio 2022, n. 15245 – Pres. Francesco A. Genovese
Parole chiave: Società di capitali – scritture contabili – azione di responsabilità – mala gestio – onere della prova.
Massima: “nell’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 c. 2° L. Fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa, ove però ne sussistano le condizioni, e sempreché il ricorso a tale criterio sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile; e sempreché, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo” (cfr. Cass. Sez. U. n. 9100-15, Cass. n. 38-17, Cass. n. 13220-21).
Disposizioni applicate: artt. 2390 ss. c.c., art. 2697 c.c. e art. 146 L. Fall, art. 210 c.p.c.
Con il giudizio in esame, gli amministratori di una società fallita hanno impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che, confermando la pronuncia di primo grado emessa in merito all’azione di responsabilità ex articoli 2392 c.c. e 146 L. Fall., promossa dal curatore, li aveva condannati in solido al risarcimento del danno subito dalla fallita, in misura pari alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, per Euro 115.226,00, oltre ad interessi.
In particolare, le pronunce impugnate erano principalmente fondate sull’addebito consistente nella mancata corretta tenuta delle scritture contabili della società fallita, ritenendo che la curatela avesse adempiuto al proprio onere probatorio.
La pronuncia di primo grado aveva infatti valorizzato, proprio per la mancanza di documenti contabili, l’impossibilità, da parte del fallimento, di dare una giustificazione a tutta una serie di operazioni, come ad esempio le omesse annotazioni di pagamenti o di prelievi, la mancata annotazione degli incassi ricevuti in contanti o la mancata annotazione di fatture d’acquisto anche a fronte di consistenti operazioni per oltre 100.000,00 Euro.
Da parte propria, la Corte d’Appello si era poi limitata a dichiarare che la mancata giustificazione delle suddette operazioni per importi significativi aveva confermato una gestione non corrispondente ai criteri di sana e buona amministrazione di un’azienda societaria – ed, in particolare, una violazione delle norme contabili che impongono l’annotazione delle effettive movimentazioni proprie dell’attività d’impresa – e sarebbe stato onere degli amministratori dimostrare, punto per punto, la correttezza delle operazioni medesime.
Gli amministratori hanno quindi impugnato la sentenza d’appello denunciando 1) la violazione e/o la falsa applicazione degli articoli 2697 c.c. e 210 c.p.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto che non fosse onere della curatela dimostrare l’esistenza di operazioni contrarie ai doveri di buona amministrazione societaria, bensì onere degli amministratori richiedere alla curatela un ordine di esibizione di alcune scritture contabile da questa acquisite e non depositate in giudizio e 2) la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2390 ss. c.c., art. 2697 c.c. e art. 146 L. Fall. per avere la sentenza quantificato il danno nella differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, senza considerare che il parametro di tale liquidazione equitativa può essere utilizzato solo in presenza di determinate condizioni.
Accogliendo tali motivi, la Corte di Cassazione ha dichiarato che, pur avendo la responsabilità degli amministratori natura contrattuale, una condanna risarcitoria non può prescindere dalla prova di un nesso di causalità tra la condotta di mala gestio e il danno subito dalla società.
Partendo dal noto principio già espresso a Sezioni Unite con la sentenza n. 9100/2015, la Corte di Cassazione ha quindi evidenziato che la pronuncia impugnata era carente laddove aveva omesso di indicare in che modo gli addebiti mossi agli amministratori – e riassumibili nella mancata corretta tenuta delle scritture aziendali e, più in particolare, nell’elencazione di una serie di fatti quali i pagamenti e i prelievi non annotati, le fatture di acquisto connesse a cessioni di merce o gli incassi in contanti – si sarebbero posti in una relazione causalistica con il dissesto della società.
La mancanza o la sommarietà delle scritture contabili non è infatti di per sé sufficiente a giustificare una condanna dell’amministratore, essendo il criterio del deficit fallimentare utilizzabile solo in via equitativa nell’ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente un danno in conseguenza della dimostrazione – quanto meno presuntiva – di condotte di mala gestio.
Diversamente, secondo il ragionamento della Corte d’Appello di Palermo si arriverebbe alla non condivisibile conclusione che, in tutti i casi di difetto di regolarità contabile, l’intero deficit fallimentare verrebbe automaticamente attribuito agli amministratori.
Il ricorso in cassazione è stato quindi accolto con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione, per l’emissione di una pronuncia uniforme al principio di diritto sopra indicato.
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