Necessità della querela di falso anche nelle ipotesi di conclamata inverosimiglianza del contenuto della scrittura
di Marco Russo, Avvocato Scarica in PDFCass., Sez. lav., 25 ottobre 2021, n. 29912, Presidente Berrino – Relatore Arienzo
Procedimento civile – Prova documentale – Scrittura privata – Querela di falso – (C.c. art. 2702; C.p.c. artt. 241, 215, 221).
Massima: “La scrittura privata, quando ne sia stata o debba considerarsi riconosciuta la sottoscrizione, è sorretta da una presunzione di autenticità relativamente al contenuto, nel senso che l’autenticità della sottoscrizione fa presumere la provenienza dal sottoscrittore delle dichiarazioni attribuitegli: conseguentemente, in assenza di querela di falso non può dirsi interrotto il collegamento della sottoscrizione con le dichiarazioni e, pertanto, il giudice non può rilevare la falsità del documento sulla base dell’apparente inverosimiglianza del suo contenuto” (massima non ufficiale)
CASO
La vicenda trae origine dal ricorso proposto da una lavoratrice per ottenere la condanna della società datrice di lavoro al pagamento di “differenze retributive, in relazione al rapporto di lavoro intercorso tra le parti dal 2 ottobre 2008 […] al 25 marzo 2010, con la qualifica di operaia ed inquadramento al 7 livello del CCNL Pubblici Esercizi”.
Il tribunale accoglieva la domanda, con decisione riformata solo parzialmente in appello alla luce delle risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio in ordine alle somme già percepite dalla dipendente.
In particolare, né il tribunale né la corte d’appello prestavano fede ad una scrittura di transazione che – sia pure sottoscritta dalla lavoratrice, con firma da essa espressamente riconosciuta – attestava la percezione della somma di “euro 11500” ed era il palese frutto dell’aggiunta materiale di un “1” al testo originale (“euro 1500”) del documento, come dimostrato da più elementi tra cui “l’aggiunta dell’importo in lettere non completo, mediante grafia non corrispondente ictu oculi a quella della lavoratrice”, la dimostrazione in causa dell’effettivo pagamento di euro 1.500 e ancora l’inverosimiglianza del superiore importo che la datrice di lavoro pretendeva di aver versato “al momento della cessazione del rapporto di lavoro” per una collaborazione part time di un anno e mezzo, con stipendio mensile di euro 1.000.
La sentenza d’appello è impugnata per cassazione dalla società, la quale lamenta l’errore del giudice consistito nel non aver rilevato che, in assenza di querela di falso, il documento doveva ritenersi autentico e, dunque, nessuna somma era ancora dovuta alla lavoratrice.
SOLUZIONE
La Cassazione accoglie il ricorso, osservando l’irrilevanza processuale della “generica contestazione di abusiva correzione della cifra” operata dalla ricorrente in primo grado, a fronte della produzione della scrittura di transazione da parte della società resistente.
In particolare, la dipendente aveva infatti riconosciuto espressamente la sottoscrizione senza però far seguire, a tale dichiarazione, la querela di falso e, in quel contesto, la dimostrazione dell’affermata contraffazione della scrittura.
Il giudice del merito, data la presunzione di autenticità del documento originata dal riconoscimento dell’autenticità della firma, non era dunque legittimato ad operare alcuna verifica sulla veridicità o meno dell’affermazione della ricorrente in ordine all’adulterazione del documento in un momento successivo alla sottoscrizione.
QUESTIONI
Una consolidata premessa è anteposta, in motivazione, allo sviluppo del ragionamento che conduce alla decisione: la scrittura privata dotata di sottoscrizione espressamente o implicitamente riconosciuta “è sorretta da una presunzione di autenticità relativamente al contenuto, nel senso che l’autenticità della sottoscrizione fa presumere la provenienza dal sottoscrittore delle dichiarazioni attribuitegli”: presunzione superabile però laddove “quest’ultimo, pur riconoscendo o non disconoscendo la sottoscrizione, neghi di essere autore, totalmente o parzialmente, delle dichiarazioni risultanti dal documento ed esperisca in proposito con esito positivo la querela di falso”, con ciò eliminando “il collegamento della sottoscrizione con le dichiarazioni” (Cass., 14 marzo 2013, n. 6534).
Meno scontata è la conclusione che la Corte ricava da questo assunto.
Si è detto infatti che la presunzione di autenticità dell’intera scrittura può essere vinta attraverso la dimostrazione, in sede di querela di falso, dell’adulterazione del testo in epoca successiva alla sottoscrizione.
Né da tale affermazione, né dall’art. 2702 c.c., sembra tuttavia discendere la necessità della querela di falso quando la parte, nei cui confronti la scrittura è prodotta, riconosca la propria sottoscrizione e al contempo neghi di aver sottoscritto tutte le dichiarazioni riportate nel documento (ossia affermi che, dopo la sottoscrizione, il testo è stato contraffatto).
Al contrario, il tenore letterale dell’art. 214 c.p.c. autorizza a escludere tale necessità.
La norma, descrivendo le possibili reazioni processuali di “colui contro il quale è prodotta una scrittura privata”, si riferisce a due distinte ipotesi: la contestazione – o, per usare l’espressione dell’art. 214 c.p.c., la “formale negazione” – della “propria sottoscrizione” ovvero della “propria scrittura”.
In questa seconda fattispecie sembra ricadere la fattispecie in esame.
La dipendente in prima udienza non aveva “negato formalmente” di aver apposto la propria sottoscrizione sul documento, bensì aveva reso una più complessa dichiarazione basata sull’affermazione di aver effettivamente apposto il proprio segno nominale sul documento e, al contempo, sulla “formale negazione” di aver sottoscritto il documento nel testo risultante al momento della produzione: e cioè sull’implicita affermazione che qualcuno, dopo le firme, aveva alterato il testo (nel caso di specie, aggiungendo un “1” avanti alla cifra “1150”, su cui effettivamente si era formato l’accordo).
In questa ottica, ossia ritenendo che la dipendente avesse in quell’occasione validamente disconosciuto la scrittura ex art. 214 c.p.c., si giungerebbe alla conclusione che correttamente la Corte d’appello aveva fondato la decisione sull’inutilizzabilità processuale della scrittura, e che erroneamente la Corte di cassazione ha riformato la sentenza di secondo grado sul presupposto che il giudice del merito, in assenza di querela di falso, era tenuto a considerare autentico il documento.
Tre argomenti confermano l’interpretazione proposta.
La tesi che predica la necessità della querela infatti a un’ingiustificata disparità di trattamento tra situazioni che, dal punto di vista processuale e prima ancora sostanziale, meriterebbero una disciplina unitaria: se si considera che la parte che vede prodotta una scrittura totalmente artefatta, nel testo e nella firma, può infatti limitarsi al disconoscimento, con ciò addossando sulla parte che ha prodotto il documento l’onere di proporre istanza di verificazione e in quella sede provare l’autenticità, appare eccessivamente rigorosa la soluzione che impone invece la querela – e dunque assegna l’onere di provare la falsità – laddove l’autore del falso abbia artefatto (non l’intero testo e la firma, ma) solo parte delle dichiarazioni, con ciò assegnando alla parte, nei cui confronti la scrittura è prodotta, un onere non sempre facilmente assolvibile tanto più quando, come nel caso di specie, l’alterazione del testo si estrinsechi nella semplice aggiunta, a mano, di una cifra in più rispetto al numero pattuito.
Sotto altro profilo, la tesi sostenuta dalla Cassazione equipara negli effetti la contestazione dell’autenticità di due supporti documentali provvisti, alla base, di una diversa efficacia probatoria: la scrittura privata semplice, che si sostenga effettivamente sottoscritta ma successivamente artefatta nel testo, e l’atto pubblico.
In entrambi i casi, infatti, la parte che affermi che il documento non è autentico si vede costretta a proporre la querela di falso, benché soltanto nel secondo caso si ponga effettivamente la necessità di rimuovere, con lo strumento disciplinato dagli artt. 221 ss. c.p.c., l’efficacia di prova legale.
La stessa efficacia non si sarebbe invece realizzatasi, secondo la tesi qui prospettata, in capo alla scrittura privata del quale sia stata sì riconosciuta “la sottoscrizione” ex art. 2702 c.c. (perché effettivamente a firma è stata apposta), ma non sia stata riconosciuta la conformità tra il testo all’epoca sottoscritto e le dichiarazioni riportate nel documento prodotto (perché, dopo le firme, il testo è stato alterato): in tal caso infatti la complessa dichiarazione avrebbe integrato un valido disconoscimento ex art. 214 c.p.c., idoneo a ribaltare sulla parte che ha prodotto il documento l’onere di proporre istanza di verificazione e provare l’autenticità.
La lettura proposta sembra infine suggerita anche dal principio della ragionevole durata del processo.
All’affermazione della sufficienza del disconoscimento anche per le ipotesi di falso materiale conseguirebbe infatti un positivo effetto processuale, ossia la garanzia che il problema inerente all’autenticità del documento trovi soluzione all’interno del grado di giudizio nel quale la scrittura è stata prodotta, delineandosi, a seguito del disconoscimento, le due sole ipotesi rappresentate (i) dalla formulazione dell’istanza di verificazione, su cui pronuncerà il giudice della causa; o (ii) dall’inerzia della parte che ha prodotto il documento e dalla conseguente inutilizzabilità della scrittura.
Con ciò si eliminerebbero due indesiderati inconvenienti, originati dalla proponibilità della querela di falso in ogni stato e grado del processo: il rischio, prima della proposizione della querela, che più giudici si vedano costretti a considerare autentico un documento palesemente artefatto e, su tale base, a pronunciare sentenze destinate ad essere riformate alla luce dell’accertamento, nella futura querela, della falsità della prova; e, dopo la proposizione, la sospensione della causa nella quale il documento è prodotto, con effetti deleteri sulla durata complessiva del contenzioso nelle ipotesi in cui la querela sia proposta nei gradi successivi al primo.
Rischio, quest’ultimo, la cui gravità è resa evidente dalle caratteristiche, anche temporali, del caso di specie: l’accennata esperibilità della querela in ogni stato e grado permetterà infatti alla parte di proporre il procedimento anche nel giudizio di rinvio disposto dalla Corte a seguito dell’accoglimento del ricorso, così promuovendo nel 2022 (con un giudizio ad hoc in primo grado, la cui decisione sarà sottoponibile agli ordinari mezzi di impugnazione) quell’accertamento sulla falsità della scrittura che, seguendo la tesi della sufficienza del disconoscimento, ben avrebbe potuto esaurirsi nel processo di primo grado (il cui anno di introduzione non emerge dalla motivazione, ma in ogni caso antecedente al 2016) in cui il documento era stato prodotto.
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