1 Febbraio 2022

Spese del giudizio di opposizione all’esecuzione e domanda di risarcimento dei danni in seguito alla caducazione del titolo esecutivo giudiziale: parlano le Sezioni Unite

di Stefania Volonterio, Avvocato

Cassazione civile, Sezioni Unite, sent. 21 settembre 2021, n. 25478, Pres. Spirito, Est. Cirillo

Titolo esecutivo – Caducazione del titolo esecutivo – Opposizione all’esecuzione – Domanda ex art. 96, comma secondo, c.p.c. (Cod. Proc. Civ. artt. 96 c.p.c., 474, 615) 

[I] In caso di esecuzione forzata intrapresa sulla base di un titolo giudiziale non definitivo, la sopravvenuta caducazione del titolo per effetto di una pronuncia del giudice della cognizione (nella specie: ordinanza di convalida di sfratto successivamente annullata in grado di appello) determina che il giudizio di opposizione all’esecuzione si debba concludere non con l’accoglimento dell’opposizione, bensì con una pronuncia di cessazione della materia del contendere; per cui il giudice di tale opposizione è tenuto a regolare le spese seguendo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare in relazione ai soli motivi originari di opposizione

[II] L’istanza con la quale si chieda il risarcimento dei danni, ai sensi dell’articolo 96 c.p.c., comma 2, per aver intrapreso o compiuto l’esecuzione forzata senza la normale prudenza, in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale non definitivo, successivamente caducato, deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio in cui si è formato o deve divenire definitivo il titolo esecutivo, ove quel giudizio sia ancora pendente e non vi siano preclusioni di natura processuale. Ricorrendo, invece, quest’ultima ipotesi, la domanda andrà proposta al giudice dell’opposizione all’esecuzione; e, solamente quando sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto alla proposizione della domanda anche in sede di opposizione all’esecuzione, potrà esserne consentita la proposizione in un giudizio autonomo.

CASO

Ricevuta la pronuncia di convalida di sfratto per morosità, l’intimato propone un’opposizione tardiva, che viene rigettata in primo grado ma accolta in sede di appello.

Nelle more tra il primo e il secondo grado dell’anzidetto giudizio di opposizione alla convalida di sfratto, l’intimante dà corso all’esecuzione dello sfratto, che viene infine eseguito stante il rigetto, in primo grado, dell’opposizione all’esecuzione nel frattempo pure promossa dall’intimato.

A questo punto l’intimato impugna in appello la sentenza di rigetto della sua opposizione all’esecuzione, facendo valere la sopraggiunta sentenza con la quale il medesimo giudice di appello ha, come visto sopra, accolto l’opposizione alla convalida di sfratto e dichiarata nulla la relativa ordinanza, e proponendo altresì una domanda di condanna dell’intimante ai sensi dell’art. 96, secondo comma, c.p.c.

La Corte d’appello, rigettata un’eccezione di tardività dell’impugnazione proposta dall’intimante, respinge tuttavia l’appello dell’intimato ritenendo che, poiché la sentenza di appello che aveva accolto l’opposizione alla convalida di sfratto è successiva a quella di rigetto in primo grado dell’opposizione all’esecuzione, e, “trattandosi di un fatto estintivo successivo, esso non poteva essere preso in considerazione, dovendo riconoscersi rilevanza, nel giudizio di opposizione all’esecuzione, solo ai fatti sopravvenuti idonei a determinare l’inesistenza del titolo esecutivo”.

Questa pronuncia viene impugnata dinanzi alla Suprema Corte.

SOLUZIONE

La Corte di Cassazione, ritenendo fondata la questione di tardività dell’appello proposto dall’intimato nel giudizio di opposizione all’esecuzione, esamina le ulteriori due questioni poste alla sua attenzione dalla Sezione remittente al solo fine dell’enunciazione di principi nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. (l’accoglimento di quel motivo di ricorso, infatti, ha determinato l’inammissibilità delle ulteriori doglianze del ricorrente/intimato).

La prima questione ha ad oggetto “la rilevanza della caducazione del titolo esecutivo giudiziale in corso del giudizio di opposizione all’esecuzione, ai fini della decisione da adottare e delle conseguenti ricadute in ordine alla liquidazione delle spese di lite”, ed in proposito la Suprema Corte enuncia il seguente principio di diritto: “In caso di esecuzione forzata intrapresa sulla base di un titolo giudiziale non definitivo, la sopravvenuta caducazione del titolo per effetto di una pronuncia del giudice della cognizione (nella specie: ordinanza di convalida di sfratto successivamente annullata in grado di appello) determina che il giudizio di opposizione all’esecuzione si debba concludere non con l’accoglimento dell’opposizione, bensì con una pronuncia di cessazione della materia del contendere; per cui il giudice di tale opposizione è tenuto a regolare le spese seguendo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare in relazione ai soli motivi originari di opposizione”.

La seconda questione attiene invece all’individuazione del “giudice competente a decidere sulla domanda di risarcimento dei danni provocati da un’esecuzione intrapresa in difetto della normale prudenza e, quindi, quale sia la sede naturale per proporre tale domanda”, e su di essa la Corte enuncia il seguente principio di diritto: L’istanza con la quale si chieda il risarcimento dei danni, ai sensi dell’articolo 96 c.p.c., comma 2, per aver intrapreso o compiuto l’esecuzione forzata senza la normale prudenza, in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale non definitivo, successivamente caducato, deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio in cui si è formato o deve divenire definitivo il titolo esecutivo, ove quel giudizio sia ancora pendente e non vi siano preclusioni di natura processuale. Ricorrendo, invece, quest’ultima ipotesi, la domanda andrà proposta al giudice dell’opposizione all’esecuzione; e, solamente quando sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto alla proposizione della domanda anche in sede di opposizione all’esecuzione, potrà esserne consentita la proposizione in un giudizio autonomo

QUESTIONI

La Suprema Corte ritiene necessario affrontare le due questioni sopra esposte nell’adempimento del suo compito nomofilattico, il cui esercizio, in ragione del contrasto giurisprudenziale in atto, si rivela quantomai opportuno.

Sulla prima questione, la Suprema Corte chiarisce, innanzitutto, come sia principio pacifico quello in base al quale il processo esecutivo deve reggersi, dall’inizio alla fine, e in ogni suo stato e grado, su di un titolo di perdurante validità ed efficacia (regola sintetizzabile nel noto brocardo nulla executio sine titulo). E’ quindi compito del giudice quello di verificare, d’ufficio, che il titolo posto a fondamento dell’esecuzione non sia venuto meno.

Precisazione opportuna, come detto, considerando che, nel caso concreto, la Corte d’Appello non aveva invece voluto considerare la caducazione del titolo esecutivo sopravvenuta nelle more tra il primo e il secondo grado dell’opposizione all’esecuzione. Soddisfazione solo teorica per il ricorrente, ma chiarificatrice per altri futuri giudizi che presentino la medesima questione.

Ciò posto, la Suprema Corte focalizza l’attenzione sul vero tema di contrasto sorto in relazione all’ipotesi di caducazione del titolo esecutivo in pendenza di un giudizio di opposizione all’esecuzione: la sorte delle spese di liti di questa opposizione.

Rileva infatti la Cassazione che, sul tema, esistono due orientamenti, che si accomunano nel ritenere che la sopravvenuta caducazione del titolo comporti la cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione all’esecuzione, ma che contrastano, appunto, sulla sorte del carico delle spese di lite. Un orientamento ritiene, infatti, che la detta caducazione del titolo determini anche una automatica vittoria del debitore nel giudizio di opposizione all’esecuzione, con le spese di lite poste quindi sempre a carico dell’”incauto” creditore procedente; l’altro orientamento ritiene, invece, che il carico di spese debba essere deciso sulla base di una valutazione di soccombenza virtuale.

Le Sezioni Unite aderiscono a questo secondo orientamento. Pur nella manifesta consapevolezza che una valutazione di soccombenza virtuale rappresenti un aggravio decisorio per il giudice, la Suprema Corte considera prevalenti alcune considerazioni che la stessa colloca nell’aera di una “regola decisoria più giusta”: in primo luogo, il fatto che i motivi posti a fondamento di una opposizione all’esecuzione possono non coincidere con quelli posti a fondamento del diverso procedimento che ha portato alla caducazione del titolo; in secondo luogo, l’automatica allocazione delle spese in capo al creditore (benché incauto) “finirebbe con l’incoraggiare il debitore a proporre comunque l’opposizione – benché, magari, del tutto infondata – al solo scopo di lucrare le relative spese in caso di successiva caducazione del titolo”, mentre in un sistema, come quello attuale, nel quale è sempre più favorita la provvisoria esecutività dei provvedimenti giurisdizionali, la proposizione di opposizioni meramente strumentali deve essere scoraggiata; infine, e come già sopra accennato, secondo la Corte la regola della soccombenza virtuale è quella “più giusta, nel senso che essa consente al giudice dell’opposizione di verificare se e in quale misura, a prescindere dalla caducazione del titolo avvenuta nella diversa sede di cognizione, l’opposizione sia o meno fondata”.

La seconda questione porta i Supremi Giudici a riflette su quale sia il giudice competente a decidere sulla domanda ex art. 96, secondo comma, c.p.c., cioè la domanda volta ad ottenere la condanna del creditore che, senza la normale prudenza, ha iniziato o compiuto una esecuzione forzata del cui relativo diritto è stata poi accertata l’inesistenza.

La Corte effettua un’accurata disamina dei tre orientamenti che si contrappongono: il primo che ritiene competente il solo giudice del procedimento nel quale il titolo esecutivo si è formato; il secondo che afferma la competenza del solo giudice dell’opposizione all’esecuzione; il terzo (per vero rappresentato da isolata giurisprudenza) che ritiene la domanda ex art. 96 c.p.c. proponibile anche in un autonomo giudizio.

La Cassazione compone il contrasto con una articolata soluzione, che ha il pregio di considerare le diverse variabili che possono in concreto presentarsi.

Ora, la sede “privilegiata” per la proposizione della domanda de qua rimane il giudice “della formazione del titolo esecutivo”: essendo, infatti, la fattispecie di cui all’art. 96, comma secondo, c.p.c., una forma speciale ed endoprocessuale di responsabilità civile, è solo il giudice della causa dalla quale quella responsabilità può derivare ad essere quello più idoneo a valutare anche la sussistenza di una tale responsabilità. Inoltre, aggiunge la Corte, attribuire una competenza, esclusiva o anche solo concorrente, al giudice dell’opposizione all’esecuzione, potrebbe portare a una inaccettabile “torsione del sistema” come quella che si potrebbe realizzare, ad esempio, se questo giudice, chiamato a valutare la soccombenza virtuale a motivo della sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo (si ricorda, in proposito, quanto detto sopra in merito alla prima questione affrontata dalla Corte), ritenesse infondata l’opposizione e tuttavia ritenesse contemporaneamente di condannare il creditore per responsabilità aggravata (in un sistema, peraltro, dove al giudice dell’opposizione all’esecuzione è preclusa ogni pronuncia di condanna).

Tuttavia, rileva giustamente la Corte, da un lato si deve considerare l’ipotesi che a fondamento dell’esecuzione sia posto un titolo stragiudiziale (che, come tale, potrebbe non avere quindi un giudizio del quale si discuta della sua perdurante validità); dall’altro lato, non si possono ignorare i casi nei quali la domanda risarcitoria non sia più proponibile al giudice della cognizione (ad esempio perché quel giudizio si è concluso o perché la caducazione del titolo deriva dalla fase di cassazione, nella quale è a quel punto preclusa un’attività istruttoria che potrebbe invece essere necessaria per accertare la responsabilità aggravata). In questi casi, e solo in questi casi eccezionali, sarà allora possibile rivolgere la domanda ex art. 96, secondo comma, c.p.c., al giudice dell’opposizione all’esecuzione, giudice che assume quindi una competenza non alternativa bensì subordinata a quella del giudice della cognizione.

La Suprema Corte non ignora però la possibilità che, ad esempio, il debitore rilevi la dannosità dell’illegittima azione esecutiva solo allorché la relativa domanda di ristoro non sia più proponibile né nel giudizio di cognizione né il quello di opposizione all’esecuzione. Ebbene, nelle ipotesi nelle quali, non per colpa o libera scelta della parte, non sia più possibile formulare la domanda in alcuno dei due anzidetti giudizi, essa potrà essere proposta in un autonomo giudizio.

La Corte delinea quindi una soluzione volta ad evitare che la parte che ne ha diritto rimanga priva di tutela, onerandola, tuttavia, della ferrea dimostrazione di non essere incorsa per sua colpa nell’impossibilità di rivolgersi al giudice della cognizione e, in via “subordinata” (ci si consenta l’impropria ma efficace espressione), a quello dell’opposizione all’esecuzione.

Infine, può essere utile riferire anche delle argomentazioni poste dalla Corte, nel concreto caso portato alla sua attenzione, alla base della declaratoria di tardività dell’impugnazione in appello proposta dall’intimato nel procedimento di opposizione all’esecuzione. Sul punto, la Corte ribadisce il consolidato principio in base al quale il rispetto dei termini perentori fissati dalla legge, ed in particolare di quelli che regolano la tempestività dell’impugnazione, è questione che il giudice è tenuto a verificare d’ufficio, ed ancora ribadisce che, poiché la domanda ex art. 96 c.p.c. non ha natura autonoma bensì accessoria rispetto alla domanda principale, la sua proposizione nell’ambito di un giudizio di natura esecutiva (quale quello di opposizione all’esecuzione) non è idonea a sottrarre l’intero giudizio all’inapplicabilità della sospensione feriale, che non deve quindi essere considerata nel calcolo dei relativi termini.

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